AL REVERENDO ED ILLUSTRE SIGNOR DON MICHEL DE SILVA VESCOVO DI VISEO Quando il signor Guid Ubaldo di Montefeltro, duca d'Urbino passo* di questa vita, io insieme con alcun'altri cavalieri che l'aveano servito restai alli servizi del duca Francesco Maria della Rovere erede e successor di quello nel stato; e come nell'animo mio era recente l'odor delle virtu* del duca Guido e la satisfazione che io quegli anni veva sentito della amorevole compagnia di cosi* eccellenti ersone, come allora si ritrovarono nella corte d'Urbino, Cortegiano; il che io feci in pochi giomi, con intenzione di castigar col tempo quegli errori, che dal desiderio di pagar tosto questo debito erano nati. Ma la fortuna gia* molt'anni n'ha sempre tenuto oppresso in cosi* continui travagli, che o non ho mai potuto pigliar spazio di ridurgli a termine, che il mio debil giudicio ne restasse contento. Ritrovandomi adunque in Ispagna ed essendo di Italia avvisato che la ignora Vittoria dalla Colonna marchesa di pescara, alla quale io gia* feci copia del libro, contra la promessa sua ne avea fatto trascrivere una gran parte, non potei non sentirne qualche fastidio, dubitandomi di molti incon- venienti che in simili casi possono occorrere; nientedi- meno mi confidai che l'ingegno e prudenzia di quella Signora, la virtu* della quale io sempre ho tenuto in venerazione come cosa divina, bastasse a rimediare che pregiudicio alcuno non mi venisse dall'aver obedito a' suoi comandamenti. In ultimo seppi che quella parte del libro si ritrovava in Napoli in mano di molti; e, come sono gli omini sempre cupidi di novita*, parea che quelli tali tentassero di farla imprimere. Ond'io, spaventato da questo periculo, diter- minaimi di riveder su*bito nel libro quel poco che mi compor- tava il tempo, con intenzione di publicarlo; estimando men male lasciarlo veder poco castigato per mia mano che molto lacerato per man d'altri. Cosi*, per eseguire questa delibe- razione cominciai a rileggerlo; e su*bito nella prima fronte ammonito dal titulo, presi non mediocre tristezza, la qual acora nel passar piu* avanti molto si accrebbe, ricordandomi la maggior parte di coloro, che sono introdutti nei ragio namenti esser gia* morti: che%, oltre a quelli de chi si fa menzione nel proemio dell'ultimo morto e* il medesim messer Alfonso Ariosto a cui il libro e* indrizato, giovane affabile, discreto, pieno di suavissimi costumi ed atto ad ogni cosa conveniente ad omo di corte. Medesimamente il duca Iuliano de' Medici la cui bonta* e nobil cortesia meri- tava piu* lungamente dal mondo esser goduta. Messer Ber- nardo, cardinal di Santa Maria in Portico ii* quale per una acuta e piacevole prontezza d'ingegno fu gratissimo a quai*unque lo conobbe, pur e* morto. Morto e* il signor Ottavian Fregoso omo a' nostri tempi rarissimo, magnanimo, reli- gioso, pien di bonta*, d'ingegno, prudenzia e cortesia e vera- mente amico d'onore e di virtu* e tanto degno di laude, che li medesimi inimici suoi furono sempre constretti a laudarlo; e quelle disgrazie, che esso comstantissimamente supporto*, ben furono bastanti a far fede che la fortuna, come sempre fu, cosi* e* ancor oggidi* contraria alla virtu*. Morti sono ancor molti altri dei nominati nel libro, ai quali parea che la natura promettesse lunghissima vita. Ma quello che senza lacrime raccontar non si devria e* che la signora Duchessa essa ancor e* morta; e se l'animo mio si turba per la perdita de tanti amici e signori mei, che m'hanno lasciato in questa vita come in una solitudine piena d'affanni, ragion e* che molto piu* acerbamente senta il dolore della morte della signora Duchessa che di tutti gli altri, perche% essa molto piu* che tutti gli altri valeva ed io ad essa molto piu* che a tutti gli altri era tenuto. Per non tardare adunque a pagar quello, che io debbo alla memoria de cosi* eccellente Signora e degli altri che piu* non vivono, indutto ancora dal periculo del libro, hollo fatto imprimere e publicare tale qual dalla brevita* del tempo m'e* stato concesso. E perche% voi ne% della signora Duchessa ne% degli altri che son morti, fuor che del duca Iuliano e del Cardinale di Sata Maria in Portico, aveste noticia in vita loro, accio* che, per quanto io posso, l"abbiate dopo la morte, mandovi questo libro come un ritratto di pit- tura della corte d'Urbino non di mano di Rafaello o Michel Angelo ma di pittor ignobile e che solamente sappia tirare le linee principali, senza adomar la verita* de vaghi colori o far parer per arte di prospettiva quello che non e*. E come ch'io mi sia sforzato di dimostrar coi ragionamenti le pro- Prieta* e condicioni di quelli che vi sono nominati, confesso non avere, non che espresso, ma ne% anco accennato le virtu* della signora Duchessa; perche% non solo il mio stile non e* sufficiente ad esprimerle, ma pur l'intelletto ad imaginarle; e se circa questo o altra cosa degna di riprensione (come ben so che nel libro molte non mancauo) saro* ripreso, non contra- diro* alla verita*.,. Ma perche% talor gli omini tanto si dilettano di riprendere, che riprendono ancor quello che non merita riprensione, ad alcuni che mi biasimano perch'io non ho imitato il Boccaccio ne% mi sono obligato alla consuetudine del parlar toscano d'ogidi* non restaro* di dire che, ancor che 'l Boccaccio fusse di gentil ingegno, secondo quei tempi, e che in alcuna parte scrivesse con discrezione ed industria nientedimeno assai meglio scrisse quando si lasso* guidar solamente dal- l'ingegno ed instinto suo naturale, senz'altro studio o cura di limare i scritti suoi, che quando con diligenzia e fatica si sforzo* d'esser piu* culto e castigato. Percio* li medesimi suoi fautori affermano che esso nelle cose sue proprie molto s'inganno* di giudicio, tenendo in poco quelle che gli hanno fatto onore ed in molto quelle che nulla vagliono. Se adunque io avessi imitato quella manera di scrivere che in lui e* ripresa da chi nel resto lo lauda, non poteva fuggire almen quelle medesime calunnie che al proprio Boccaccio son date circa questo; ed io tanto maggiori le meritava, quanto che l'error suo allor fu credendo di far bene ed or il mio sarebbe stato conoscendo di far male. Se ancora avessi imitato quel modo che da molti e* tenuto per bono e da esso fu men apprez- zato, parevami con tal imitazione far testimonio d'esser discorde di giudicio da colui che io imitava; la qual cosa, secondo me, era inconveniente. E quando ancora questo rispetto non m'avesse mosso, io non poteva nel subietto imitarlo, non avendo esso mai scritto cosa alcuna di materia simile a questi libri del Cortegiano; e nella lingua, al parer mio, non doveva, perche% la forza e vera regula del parlar bene consiste piu* nell'uso che in altro, e sempre e* vizio usar parole che non siano in consuetudine. percio* non era conveniente ch'io usassi molte di quelle del Boccaccio, le quali a% suoi tempi s'usavano ed or sono disusate dalli mede- simi Toscani. Non ho ancor voluto obligarmi alla consue- tudine del parlar toscano d%ogidi*, perche% il commerzio tra diverse nazioni ha sempre avuto forza di trasportare dall%una all%altra, quasi come le mercanzie, cosi* ancor novi vocabuli, i quali poi durano o mancano, secondo che sono dalla consuetudine ammesi o reprobati ; e questo, oltre (il) testimonio degli antichi, vedesi chiaramente nel Boc- caccio, nel qual son tante parole frazesi, spagnole e provenzali ed alcune forse non ben intese dai Toscani moderni, che chi tutte quelle levasse farebbe il libro molto minore. E perche% al parer mio la consuetudine dei* parlare dell'altre citta* nobili d'Italia , dove concorrono omini savi, inge- niosi ed eloquenti, e che trattano cose grandi di govemo de' stati, di lettere, d'arme e negoci diversi, non deve essere del tutto sprezzata, dei vocabuli che in questi lochi parlando s'usano, estimo aver potuto ragionevolmente usar scrivendo quelli, che hanno in se% grazia ed eleganzia nella pronunzia e son tenuti communemente per boni e significativi, benche% non siano toscani ed ancor abbiao origine di fuor d'Italia. Oltre a questo usansi in Toscana molti vocabuli chiaramente corrotti dal latino, li quali nella Lombardia e nelle altre parti d'Italia son rimasti integri e senza mutazione alcuna, e tanto universalmente s'usao per ognuno, che dalli nobili sono ammessi per boni e dal vulgo intesi senza difficulta*. Percio* non penso aver commesso errore, se io scrivendo ho usato alcuni di questi e piu* tosto pigliato l'integro e sincero della patria mia che 'l corrotto e guasto della aliena. Ne% mi par bona regula quella che dicon molti, che la lingua vulgar tanto e* piu* bella, quato e* men simile alla latina; ne% comprendo perche% ad una consuetudine di parlare si debba dar tanto maggiore autorita* che all'altra, che, se la toscana basta per nobilitare i vocabuli latini corrotti e manchi e dar loro tanta grazia che, cosi mutilati, ognun possa usarli per boni (il che non si nega), la lombarda o qualsivoglia altra non debba poter sostener li medesimi latini puri, integri, proprii e non mutati in parte alcuna' tanto che siano tollerabili. E veramente, si* come il voler formar vocabuli novi o mantenere gli antichi in dispetto della consuetudine dir si po temeraria presunzione , cosi* il voler contra la forza della medesima consuetudine distrug- gere e quasi sepelir vivi quelli che durano gia* molti seculi, e col scudo della usanza si son diffesi dalla invidia del tempo ed han conservato la dignita* e 'l splendor loro, quando per le guerre e ruine.d'Italia si son fatte le mutazioni della lingua, degli edifici, degli abiti e costumi, oltra che sia difficile, par quasi una impieta*. Percio*, se io non ho voluto scrivendo usare le parole del Boccaccio che piu* non s'usano in Toscana, ne% sottopormi alla legge di coloro, che stimano che non sia licito usar quelle che non usano li Toscani d'oggidi*, parmi meritare escusazione. Penso adunque, e nella materia del libro e nella lingua, per quanto una lingua po aiutar l'altra, aver imitato autori tanto degni di laude quanto e* il Boccaccio ; ne% credo che mi si debba imputare per errore aver eletto di farmi piu* tosto conoscere per lombardo parlado lombardo , che per non toscano parlando troppo toscano; per non fare come Teofrasto, il qual, per parlare troppo ateniese, fu da una simplice vecchiarella conosciuto per non ateniese . Ma perche% circa questo nel primo libro si parla a bastanza, non diro* altro se non che, per rimover ogni contenzione , io confesso ai mei riprensori non sapere questa lor lingua toscana tanto difficile e recondita; e dico aver scritto nella mia, e come io parlo , ed a coloro che parlano come parl'io; e cosi penso non avere fatto ingiuria ad alcuno, che%, secondo me, non e* proibito a chi si sia scrivere e parlare nella sua propria lingua; ne* meno alcuno e* astretto a leggere o ascoltare quello che non gli aggrada. Percio*, se essi non vorran leggere il mio Cortegiano, non me tenero* io punto da loro ingiuriato. Altri dicono che, essendo tanto difficile e quasi impossi- bile trovar un omo cosi* perfetto come io voglio che sia il cortegiar.o, e* stato superfluo il scriverlo perche% vana cosa e* insegnare quello che imparare non si po. A questi rispon che mi contentaro* aver erra) con Platon , Senofonte) Marco Tullio , lassando il disputare del mondo inte e delle idee; tra le quali, si* come, secondo quella opi e* la idea della perfetta republica e del perfetto r perfetto oratore, cosi* e* acora quella del perfetto corte alla imagine della quale s'io non ho potuto appross col stile, tanto minor fatica averanno i cortegiani d'a simarsi con l'opere al termine e me*ta, ch'io col scri loro proposto; e se con tutto questo non potra cor quella perfezion, qual che ella si sia, ch'io mi son s forzato d'esprimere, colui che piu* se le avvicinara* sara* il piu* perfetto come di molti arcieri che tirano ad un bersaglio, quando niuno e* che dia nella brocca, quello che piu* se le accosta senza dubbio e* miglior degli altri. Alcurni ancor dicono ch'io ho creduto formar me stesso, persuadendomi che le condi- zioni, ch'io al cortegiao attribuisco, tutte siao in me . A questi tali non voglio gia* negar di non aver tentato tutto quello ch'io vorrei che sapesse il cortegiano; e penso che chi non avesse avuto qualche notizia delle cose che nel libro si trattano, per erudito che fosse stato, mal avrebbe potuto scriverle; ma io non son tanto privo di giudicio in cono- scere me stesso, che mi presuma saper tutto quello che so desiderare. La diffesa adunque di queste accusazioni e, forse, di molt"altre rimetto io per ora al parere della commune opi- nione 9; perche% il piu* delle volte la moltitudine, ancor che perfettamente non conosca, sente pero* per instinto di natura un certo odore del bene e del male e, senza sapeme rendere altra ragione, l'uno gusta ed ama e l"altro rifiuta ed odia. Percio*, se universalnente il libro piacera*, terrollo per bono e pensaro* che debba vivere; se ancor non piacera, terrollo per malo e tosto credero* che se n'abbia da perdere la memoria. E se pur i mei accusatori di questo commun giudicio non restano satisfatti, contentinsi ahneno di quello del tempo; il- quale d'ogni cosa al fin scuopre gli occulti diffetti e, per esser padre della verita* e giudice senza passione, suol dare sempre della vita o morte delle scrit- ture giusta sentenzia. IL PRIMO LIBRO DEL CORTEGIANO DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO Fra me stesso lungamente ho dubitato , messer Al- fonso carissimo, qual di due cose piu* difficil mi fusse; o il negarvi quel che con tanta instanzia piu* volte m'avete ri- chiesto, o il farlo: perche% da un canto mi parea durissimo negar alcuna cosa, e massimamente laudevole, a persona Ch'io amo sommamente e da cui sommamente mi sento esser amato; dall'altro ancor pigliar impresa, la quale io non conoscessi non poter condur a fine, pareami disconvenirsi a chi estimasse le giuste riprensioni quanto estimar si deb- bano. In ultimo, dopo molti pensieri, ho" deliberato esperi- mentare in questo quanto aiuto porger possa alla diligenzia mia quella affezione e desiderio intenso di compiacere, che nell'altre cose tanto so*le accrescere la industria degli omini. Voi adunque mi richiedete ch"io scriva qual sia, al parer mio, la forma di cortegiania piu conveniente a gentilomo che viva in corte de' principi, per la quale egli possa e sappia perfettamente loro servire in ogni cosa ragionevole, acqui- standone da essi grazia e dagli altri laude; in somma, di che sorte debba esser colui, che meriti chiamarsi perfetto cor- tegiano tanto che cosa alcuna non gli manchi. Onde io, considerando tal richiesta, dico che, se a me stesso non pa- resse maggior biasimo l'esser da voi reputato poco amorevole che da t utti gli altri poco prudente, arei fuggito questa fatica, per dubbio di non esser tenuto temerario da tutti quelli che conoscono come difficil cosa sia, tra tante varieta* di costumi che s'usano nelle corti di Cristianita*, eleggere la piu* perfetta forma e quasi il fior di questa cortegiania, perche% la consue- tudine fa a noi spesso le medesime cose piacere e dispiacere; onde talor procede che i costumi, gli abiti, i riti e i modi, che un tempo son stati in pregio, divengono vili, e per con- trario i vili divengon pregiati. Pero* si vede chiaramente che l'uso piu* che la ragione ha forza d'introdur cose nove tra noi e cancellar l'antiche; delle quali chi cerca giudicar la perfe- zione, spesso s'ingarma. per il che, conoscendo io questa e molte altre dodculta* nella materia propostami a scrivere, son sforzato a fare un poco di escusazione e render testimonio che questo errore, se pur si po dir errore, a me e* commune con voi, accio* che, se biasmo a venir me ne ha, quello sia ancor diviso con voi; perche% non minor colpa si dee estimar la vostra avermi imposto carico alle mie forze disequale, che a me averlo accettato. Vegniamo adunque ormai a dar principio a quello che e* nostro presuposto e, se possibil e*, formiamo un cortegian tale, che quel principe che sara* degno d'esser da lui servito, ancor che poco stato avesse , si possa pero* chiamar grandis- simo signore. Noi in questi libri non seguiremo un certo ordine o regula di precetti distinti, che 'l piu* delle volte nel- l'insegnare qualsivoglia cosa usar si so*le; ma alla foggia di molti antichi , rinovando una grata memoria, recitaremo alcuni ragionamenti, i quali gia* passarono tra omini singu- larissimi a tale proposito; e benche% io non v'intervenissi presenzialnente per ritrovarmi, allor che furon detti, in Inghilterra, avendogli poco appresso il mio ritomo intesi da persona che fidelnente me gli narro*, sforzerommi a punto, per quanto la memoria mi comportera*, ricordarli, accio* che noto vi sia quello che abbiao giudicato e creduto di questa materia omini degni di somma laude ed al cui giu- dicio in ogni cosa prestar si potea indubitata fede. Ne% fia ancor fuor di proposito, per giungere ordinatamente al fe dove tende il parlar nostro, narrar la causa dei successi ragionamenti. Alle pendici dell"Appennino, quasi al mezzo della Italia verso il mare Adriatico, e* posta, come ognun sa, la piccola citta* d'Urbino; la quale, benche% tra monti sia, e non cosi* ameni come forse alcun'altri che veggiamo in molti lochi, pur di tanto avuto ha il cielo favorevole, che intomo il paese e* fertilissimo e pien di frutti; di modo che, oltre alla salubrita* dell'aere, si trova abundantissima d'ogni cosa che fa mestieri per lo vivere umano. Ma tra le maggior felicita* che se le pos- sono attribuire, questa credo sia la principale, che da gran tempo in qua sempre e* stata dominata da ottimi Signori- avvenga che nelle calamita* universali delle guerre della Italia essa ancor per un tempo ne sia restata priva. Ma non ricercando piu* lontano, possiamo di questo far bon testimonio con la gloriosa memoria del duca Federico , il quale a' di* suoi fu lume della Italia; ne% mancano veri ed amplissimi testimonii, che ancor vivono, della sua prudenzia, della umanita*, della giustizia, della liberalita*, dell'animo in- altto e della disciphna militare; della quale precipuamente fanno fede le sue tante vittorie, le espugnazioni de lochi inespugnabili, la su*bita prestezza nelle espedizioni , l'aver molte volte con pochissime genti fuggato numerosi e vali- dissimi eserciti, ne% mai esser stato perditore in battaglia alcuna; di modo che possiamo non senza ragione a molti famosi antichi agguagliarlo . Questo, tra l'altre cose sue lodevoli, nell'aspero sito d'Urbino edifico* un palazzo , se- condo la opinione di molti, il piu* bello che in tutta Italia si ritrovi; e d'ogni oportuna cosa si* ben lo fomi*, che non un palazzo, ma una citta* in forma de palazzo esser pareva; e non solamente di quello che ordinariamente si usa, come vasi d'argento, apparamenti di camere di ricchissimi drappi d'oro, di seta e d"altre cose simili, ma per ornamento v'ag- giunse una infinita* di statue antiche di marmo e di bronzo, pitture singularissime, instrumenti musici d'ogni sorte; ne% quivi cosa alcuna volse , se non rarissima ed eccellente. Appresso con grandissima spesa aduno* un gran numero di eccellentissimi e rarissimi libri greci, latini ed ebraici quali tutti orno* d'oro e d'argento, estimando che questa fusse la suprema eccellenzia del suo magno palazzo. Costui adunque, seguendo il corso della natura, gia* di sessatacinque anni, come era visso , cosi* gloriosamente mori; ed un figliolino di diece anni, che solo maschio aveva e senza madre, lascio* signore dopo se%; il qual fu Guid'Ubaldo. Questo, come dello stato, cosi* parve che di tutte le virtu* pateme fosse erede, e su*bito con maravigliosa indole comincio* a promettere tanto di se%, quanto non parea che fusse licito sperare da uno uom mortale; di modo che estimavao gli omini delli egregi fatti del duca Federico niuno esser mag- giore, che l'avere generato un tal figliolo. Ma la fortuna, invidiosa di tanta virtu*, con ogni sua forza s'oppose a cosi* glorioso principio, talmente che, non essendo acor il duca Guido giunto alli venti anni, s'infermo* di podagre , le quali con atrocissimi dolori procedendo, in poco spazio di tempo talmente tutti i membri gli impedirono, che ne% stare in piedi ne% moversi potea; e cosl resto* un dei piu* belli e disposti corpi del mondo deformato e guasto nella sua verde eta*. E non contenta ancor di questo, la fortuna in ogni suo disegno tanto gli fu contraria, ch'egli rare volte trasse ad effetto cosa che desiderasse a; e benche% in esso fosse il consiglio sa- pientissimo e l'animo invittissimo, parea che cio* che inco- minciava, e nell'arme e in ogni altra cosa o piccola o grade, sempre male gli succedesse: e di cio* fanno testimonio molte e diverse sue calamita*, le quali esso con tanto vigor d'aimo sempre tollero*, ,che mai la virtu* dalla fortuna non fu superata; anzi, sprezzando con l'animo valoroso le procelle di quella, e nella infirmita* come sano e nelle avversita* come fortuna- tissimo, vivea con somma dignita* ed estimazione appresso ognuno; di modo che, avvenga che cosi* fusse del corpo in- fermo, milito* con onorevolissime condicioni a servicio dei serenissimi re di Napoli Alfonso e Ferrando minore ; appresso con papa Alessandro VI , coi signori Veneziani e Fiorentini. Essendo poi asceso al pontificato Iulio II, fu fatto Capitan della Chiesa ; nel qual tempo, seguendo il suo consueto stile, sopra ogni altra cosa procurava che la casa sua fusse di nobilissimi e valorosi gentilomini piena, coi quali molto familiarmente viveva, godendosi della con- versazione di quelli: nella qual cosa non era minor il piacer che esso ad altrui dava, che quello che d'altrui riceveva, per esser dottissimo nell'una e nell'altra lingua , ed aver insieme con l'affabilita* e piacevolezza congiunta ancor Ia cognizione d'infinite cose; ed oltre a cio* tanto la grandezza dell'animo suo lo stimulava che, ancor che esso non potesse con la persona esercitar l'opere della cavalleria, come avea gia* fatto, pur si pigliava grandissimo piacer di vederle in altrui; e con le paroIe, or correggendo or laudando ciascuno secondo i meriti, chiaramente dimostrava quanto giudicio circa quelle avesse; onde nelle giostre, nei torniamenti , nel cavalcare, nel maneggiar tutte le sorti d'arme, medesima- mente nelle feste, nei giochi, nelle musiche, in somma in tutti gli esercizi convenienti a nobili cavalleri, ognuno si sforzava di mostrarsi tale, che meritasse esser giudicato degno di cosi* nobile commerzio . IV. Erano adunque tutte l'ore del giomo divise in onorevoli e piacevoli esercizi cosi del corpo come dell'animo; ma perche% il signor Duca continuamente, per la infirmita*, dopo cena assai per tempo se n'adava a dormire, ognuno per ordi- nario dove era la signora duchessa Elisabetta Gonzaga a quell"ora si riduceva; dove ancor sempre si ritrovava la signora Emili-a Pia , la qual per esser dotata di cosi vivo ingegno e giudicio, come sappete, pareva la maestra di tutti, e che ognuno da lei pigliasse senno e valore. Quivi adunque i soavi ragionamenti e l'oneste facezie s'udivano , e nel viso di ciascuno dipinta si vedeva una gioconda ilarita*, talmente che quella casa certo dir si poteva il proprio albergo della allegria; ne% mai credo che in altro loco si gustasse quanta sia la dolcezza che da una amata e cara compagnia deriva, come quivi si fece un tempo; che%, lassando quanto onore fosse a ciascun di noi servir a tal signore come quello che gia* di sopra ho detto, a tutti nascea nell'animo una summa contentezza ogni volta che al conspetto della signora Duchessa ci riducevamo; e parea che questa fosse una catena che tutti in amor tenesse uniti, talmente che mai non fu concordia di volunta* o amore cordiale tra fratelli maggior di quello, che quivi tra tutti era. Il medesimo era tra le donne, con le quali si aveva liberissimo ed onestissimo commerzio; che% a ciascuno era licito parlare, sedere, scherzare e ridere con chi gli parea: ma tanta era la reverenzia che si portava al voler della signora Duchessa, che la medesima liberta* era grandissimo freno; ne% era alcuno che non estimasse per lo maggior piacere che al mondo aver potesse il compiacer a lei, e la maggior pena il dispiacerle. Per la qual cosa quivi onestissimi costumi erano con grandissima liberta* congiunti ed erano i giochi e i risi al suo conspetto conditi, oltre agli argutissimi sali , d'una graziosa e grave maesta*; che% quella modestia e grandezza che tutti gli atti e le parole e i gesti componeva della signora Duchessa, motteggiando e ridendo, facea che ancor da chi mai piu* veduta non l'avesse, fosse per grandissima signora conosciuta. E cosi* nei circonstanti imprimendosi, parea che tutti alla qualita* e forma di lei temperasse ; onde ciascuno questo stile imitare si sforzava, pigliado quasi una norma di bei costumi dalla presenzia d'una tanta e cosi* virtuosa signora: le ottime condizioni della quale io per ora non intendo narrare, non essendo mio proposito, e per esser assai note al mondo e molto piu* ch'io non potrei ne% con lingua ne% con penna esprimere; e quelle che forse sariano state alquanto nascoste, la fortuna, come ammiratrice di cosi* rare virtu*, ha voluto con molte avversita* e stimuli di disgrazie scoprire , per far testimonio che nel tenero petto d'una donna in compagnia di singular bellezza possono stare la prudenzia e la fortezza d'animo, e tutte quelle virtu* che ancor ne' severi omini sono rarissime. Ma lassando questo, dico che consuetudine di tutti i gentilomini della casa era ridursi su*bito dopo cena alla si- gnora Duchessa; dove, tra l'altre piacevoli feste e musiche e danze che continuamente si usavano, talor si proponeao belle questioni , talor si faceano alcuni giochi ingeniosi ad arbitrio or d'umo or d"um altro, ne' quali sotto varii velami spesso scoprivano i circonstanti allegoricamente i pensier sui a chi piu* loro piaceva. Qualche volta nasceao altre disputazioni di diverse materie, o vero si mordea con pronti detti; spesso si faceano imprese , come oggidi* chiamiamo; dove di tali ragionamenti maraviglioso piacere si pigliava per esser, come ho detto, piena la casa di nobilissodi ingegni; tra i quali, come sapete, erano celeberrimi il signor Otta- viano Fregoso, messer Federico suo fratello , il Magnifico Iuliano de' Medici, messer Pietro Bembo , messer Cesar Gonzaga , il conte Ludovico da Caossa , il signor Gaspar Pallavicino, il signor Ludovico Pio, il signor Morello da Ortona Pietro da Napoli, messer Robertio da Bari ed infiniti altri nobilissimi cavalieri; oltra che molti ve n%erano i quali, avvenga che per ordinario non stessino quivi ferma- mente, pur la maggior parte del tempo vi dispensavano, come messer Bernardo Bibiena, l%Unico Aretino, Ioanni Cristoforo Romano, Pietro Monte, Terpandro, messer Nicolo* Frisio ; di modo che sempre poeti, musici e d%ogni sorte omini piacevoli e li piu* eccellenti in ogni faculta* che in Italia si trovassino, vi concorrevano. VI. Avendo adunque papa Iulio II con la presenzia sua e con l%aiuto de% Franzesi ridutto Bologna alla obedienzia della sede apostolica nell%anno MDVI, e ritornando verso Roma, passo per Urbino, dove quanto era possible onoratamente e con quel piu* magnifico e splendido apparato che si avesse potuto fare in qualsivoglia altra nobil citta* d%Italia, fu rice- vuto; di modo che, oltre il Papa, tutti i signor cardinali ed altri cortegiani restarono summamente satisfatti; e furono alcuni, i quali, tratti dalla dolcezza di questa compagnia, partendo il Papa e la corte, restarono per molti giorni ad Urbino; nel qual tempo non solamente si continuava nei*- l%usato stile delle feste e piaceri ordinari, ma ognuno si sforzava d%accrescere qualche cosa, e massimamente nei giochi, ai quali quasi ogni sera s%attendeva. E l%ordine d%essi era tale che, su*bito giunti alla presenzia della signora Du- chessa, ognuno si ponea a sedere a piacer suo o, come la sorte portava, in cerchio; ed erano sedendo divisi un omo ed una donna, fin che donne v%erano, che% quasi sempre il numero degli omini era molto maggiore; poi, come alla signora Duchessa pareva si governavano, la quale per lo piu* delle volte ne lassava il carico alla signora Emilia. Cosi* il giorno appresso la partita del Papa, essendo all%ora usata ridutta i*a compagnia al solito loco, dopo molti piacevoli - ragiona- menti la signora Duchessa volse pur che la signora Emilia cominciasse i giochi; ed essa, dopo l%aver alquanto rifiutato tal impresa, cosi* disse: -- Signora mia, poiche% pur a voi piace ch%io sia quella che dia principio ai giochi di questa sera, non possendo ragionevolmente mancar d%obedirvi, deli- bero proporre un gioco, del qual penso dover aver poco biasmo e men fatica; e questo sara* ch%ognun proponga secondo il parer suo un gioco non piu* fatto; da poi si eleggera* quello che parera* esser piu* degno di celebrarsi in questa compagnia --. E cosi* dicendo, si rivolse al signor Gaspar Pallavicino, imponendogli che% suo dicesse; il qual su*bito rispose: -- A voi tocca, signora, adir prima il vostro --. Disse la signora Emilia: -- Eccovi ch%io l%ho detto, ma voi, signora Duchessa, commandategli ch%e% sia obediente --. Allor la signora Duchessa ridendo, -- Accio*, -- disse, -- che ognuno vi abbia ad obedire, vi faccio mia locotenente e vi do* tutta la mia autorita*. Vll. -- Gran cosa e* pur, -- rispose il signor Gaspar, -- che sem- pre alle donne sia licito aver questa esenzione di fatiche, e certo ragion saria volerne in ogni modo intender la cagione; ma per non esser io quello che dia principio a disobedire, lassero* questo ad um altro tempo e diro* quello che mi tocca; -- e comincio*: -- A me pare che gli animi nostri, si* come nel resto, cosi* ancor nell%amare siano di giudicio diversii, e percio* spesso interviene che quello che all%uno e* gratissimo, all%altro sia odiosissimo. Ma con tutto questo, sempre pero* si concordano in aver ciascuno carissima la cosa amata, talmente che spesso la troppo affezione degli amanti di modo inganna il loro giudicio, che estiman quella persona che amano essere sola al mondo omata d'ogni eccellente virtu* e senza diffetto alcuno; ma perche% la natura umana non ammette queste cosi* compite perfezioni, ne% si trova persona a cui qualche cosa non manchi, non si po dire che questi tali non s%ingannino e che lo amante non divenga cieco circa la cosa amata. Vorrei adunque che questa sera il gioco nostro fosse, che ciascun dicesse di che virtu* preci- puamente vorrebbe che fosse omata quella persona ch%egli ama; e poiche% cosi e* necessario che tutti abbiano qualche macchia, qual vicio ancor vorrebbe che in essa fosse, per veder chi sapra* ritrovare piu* lodevoli ed utili virtu e piu escusabili- vicii, e meno a chi ama nocivi ed a chi e* amato --. Avendo cosi* detto il signor Gaspar, fece segno la signora Emilia a madonna Costaza Fregosa, per esser in ordine vicina, che seguitasse; la qual gia* s%apparechiava a dire; ma la signora Duchessa su*bito disse: -- Poiche% madonna Emilia non vole affaticarsi in trovar gioco alcuno, sarebbe pur ragione che l%altre donne partecipassino di questa com- modita*, ed esse ancor fussino esente di tal fatica per questa sera, essendoci massimamente tanti omini, che non e* pericolo che manchin giochi. -- Cosi* faremo, -- rispose la signora Emilia; ed imponendo silenzio a madonna Costanza, si volse a messer Cesare Gonzaga, che le sedeva a canto, e gli com- mando* che parlasse; ed esso cosi* comincio*: VIII. -- Chi vol con diligenzia considerar tutte le nostre azioni, trova sempre in esse varii diffetti; e cio* procede perche% la natura, cosi* in questo come nell%altre cose varia, ad uno ha dato lume di ragione in una cosa, ad un altro in un%altra: pero* interviene che, sapendo l%un quello che l%altro non sa ed essendo ignorante di quello che l%altro intende, ciascun conosce facilmente l%error del compagno e non il suo ed a tutti ci pare essere molto savi, e forse piu* in quello in che piu* siamo pazzi; per la qual cosa abbiam veduto in questa casa esser occorso che molti, i quali al principio son stati reputati savissimi, con processo di tempo si son conosciuti pazzissimi; il che d%altro non e* proceduto che dalla nostra diligenzia. Che%, come si dice che in Puglia circa gli atarantati s%adoprano molti%instrumenti di musica e con varii suoni si va investigando, fin che quello umore che fa la infirmita*, per una certa convenienzia ch%egli ha con alcuno di que% suoni, sentendolo, su*bito si move e tanto agita lo infermo, che per quella agitazion si riduce a sanita*, cosi* noi, quando abbiamo sentito qualche nascosa virtu* di pazzia, tanto sottilmente e con tante varie persuasioni l%abbiamo stimu- lata e con si* diversi modi, che pur al fine inteso abbiamo dove tendeva; poi, conosciuto lo umore, cosi* ben l%abbiam agitato, che sempre s%e* ridutto a perfezion di publica pazzia; e chi e* riuscito pazzo in versi, chi in musica, chi in amore, chi in danzare, chi in far moresche, chi in cavalcare, chi in giocar di spada, ciascun secondo la minera del suo me- tallo; onde poi, come sapete, si sono avuti maravigliosi piaceri. Tengo io adunque per certo che in ciascun di noi sia quai*che seme di pazzia, il qual risvegliato possa multi- plicar quasi in infinito. Pero* vorrei che questa sera ii* gioco nostro fusse il disputar questa materia e che ciascun dicesse: avendo io ad impazzir publicamente, di che sorte di pazzia si crede ch%io impazzissi e sopra che cosa, giudicando questo esitoio per le scintille di pazzia che ogni di* si veggono di me uscire; il medesimo si dica de tutti gli altri, servando l%ordine de% nostri giochi, ed ognuno cerchi di fondar la opinion sua sopra qualche vero segno ed argumento. E cosi* di questo nostro gioco ritraremo frutto ciascun di noi di conoscere i nostri diffetti, onde meglio ce ne potrem guardare; e se la vena di pazzia che scopriremo sara* tanto abundante che ci pa*ia senza rimedio, l%aiutaremo e, secondo la dottrina di fra Mariano, averemo guadagnato un%anima, che non fia poco guadagno --. Di questo gioco si rise molto, ne% alcun era che si potesse tener di parlare; chi diceva, -- Io impaz- zirei nel pensare --; chi, -- Nel guardare --; chi dicea, -- Io gia* son impazzito in amare --; e tali cose. Allor fra Serafino, a modo suo ridendo: -- Questo, -- disse, -- sarebbe troppo lungo; ma se volete un bel gioco, fate che ognuno dica il parer suo, onde e* che le donne quasi tutte hanno in odio i ratti ed aman le serpi; e vederete che niuno s%appora*, se non io, che so questo secreto per una strana via --. E gia* cominciava a dir sue novelle; ma la signora Emilia gli impose silenzio, e trapassando la dama che ivi sedeva, fece segno all%Unico Aretino, al qual per l%ordine toccava; ed esso, senza aspettar altro comanda- mento, -- Io, -- disse, -- vorrei esser giudice con autorita* di poter con ogni sorte di tormento investigar di sapere il vero da% malfattori; e questo per scoprir gl%inganni d%una ingrata, la qual, cogli occhi d%angelo e cor di serpente, mai non accorda la lingua con l%animo e con simulata pieta* ingannatrice a niun%altra cosa intende, che a far aatomia de% cori: ne% se ritrova cosi* velenoso serpe nella Libia arenosa, che tanto di sangue umano sia vago, quanto questa falsa; la qual non solamente con la dolcezza della voce e meliflue parole, ma con gli occhi, coi risi, coi sembianti e con tutti i modi e* verissima sirena. Pero*, poiche% non m%e* licito, com%io vorrei, usar le catene, la fune o %l foco per saper una verita*, desidero di saperla con un gioco, il quale e* questo: che ognun dica cio* che crede che significhi quella lettera S, che la signora Duchessa porta in fronte; perche%, avvenga che certamente questo ancor sia un artificioso velame per poter ingannare, per avventura si gli dara* qualche interpretazione da lei forse non pensata, e trovarassi che la fortuna, pietosa riguarda- trice dei martiri degli omini, l%ha indutta con questo piccol segno a scoprire non volendo i*%intimo desiderio suoio di uccidere e sepellir vivo in calamita* chi la mira o la serve --. Rise la signora Duchessa, e vedendo l%Unico ch%ella voleva escusarsi ii di questa imputazione, -- Non, -- disse, -- non parlate, Signora, che non e* ora il vostro loco di parlare --. La signora Emilia allor si volse e disse: -- Signor Unico, non e* alcun di noi qui che non vi ceda in ogni cosa, ma molto piu* nel conoscer l%animo della signora Duchessa; e cosi come piu* che gli altri ro conoscete per lo ingegno vostro divino, l%amate ancor piu* che gli altri; i quali, come quegli uccelli debili di vista, che non affisano gli occhi nella spera del sole, non possono cosi* ben conoscer quanto esso sia per- fetto; pero* ogni fatica saria vana per chiarir questo dubbio, fuor che %l giudicio vostro. Resti adunque questa impresa a voi solo, come a quello che solo po trarla al fine --. L'Unico, avendo tacciuto alquanto ed essendogli pur replicato che dicesse, in ultimo disse un sonetto sopra la materia pre- detta, dechiarando cio* che significava quella lettera S; che da molti fu estimato fatto all%improviso, ma, per esser inge- nioso e culto piu* che non parve che comportasse la brevita* del tempo, si penso* pur che fosse pensato. Cosi*, dopo l%aver dato un lieto applauso in laude del sonetto ed alquanto parlato, il signor Ottavian Fregoso, al qual toccava, in tal modo ridendo incomincio*: -- Signori, s%io volessi affermare non aver mai sentito passion d%amore, son certo che la signora Duchessa e la signora Emilia, ancor che non lo credessino, mostrarebbon di crederlo, e diriano che cio* procede perch%io mi son diffidato di poter mai indur donna alcuna ad amarmi; di che in vero non ho io insin qui fatto prova con tanta instanzia, che ragionevol- mente debba esser disperato di poterlo una volta conseguire. Ne% gia* son restato di farlo perch%io apprezzi me stesso tanto, o cosi* poco le donne, che non estimi che molte ne siano degne d%esser amate e servite da me; ma piu* tosto spaventato dai continui lamenti d%alcuni inamorati, i quali pallidi, mesti e tacitumi, par che sempre abbiano la propria scon- tentezza dipinta negli occhi; e se parlano, accompagnando ogni parola con certi sospiri triplicati, di null%altra cosa ragionano che di lacrime, di tormenti, di disperazioni e deside*ri di morte; di modo che, se talor qualche scintilla amorosa pur mi s%e* accesa nel core, io su*bito so*nomi sforzato con ogni industria di spegnerla, non per odio ch%io porti alle donne, come estimano queste signore, ma per mia salute. Ho poi conosciuti alcun%altri in tutto contrari a questi dolenti, i quali non solamente si laudao e conten- tano dei grati aspetti, care parole e sembianti suavi delle lor donne, ma tutti i mali condiscono di dolcezza; di modo che le guerre, l%ire, i sdegni di quelle per dolcissimi chia- mano; perche% troppo piu* che felici questi tali esser mi paiono. Che% se negli sdegni amorosi, i quali da quell%altri piu* che morte sono reputati amarissimi, essi ritrovano tanta dol- cezza, penso che nelle amorevoli dimostrazioni debban sen- tir quella beatitudine estrema, che noi in vano in questo mondo cerchiamo. Vorrei adunque che questa sera il gioco nostro fusse che ciascun dicesse, avendo ad esser sdegnata seco quella persona ch%egi*i ama, qual causa vorrebbe che fosse quella che la inducesse a tal sdegno. Che% se qui si ritrovano alcuni che abbian provato questi dolci sdegni, son certo che per cortesia desiderarano una di quelle cause che cosi dolci li fa; ed io forse m%assicurero di passar un poco piu avati in amore, con speranza di trovar io acora questa dolcezza, dove alcuni trovano l%amaritudine; ed in tal modo non potranno queste signore darmi infamia piu* ch%io non ami. XI. Piacque molto questo gioco e gia* ognun si preparava di parlar sopra tal materia; ma non facendone la signora Emilia altramente motto, messer Pietro Bembo, che era in ordine vicino, cosi disse: -- Signori, non piccol dubbio ha risvegliato nell%animo mio il gioco proposto dal signor Otta- viano, avendo ragionato de% sdegni d%amore: i quali, avvenga che varii siano, pur a me sono essi sempre stati acerbissimi, ne% da me credo che si potesse imparar condimento bastante per addolcirgli; ma forse sono piu* e meno amari secondo la causa donde nascono. Che% mi ricordo gia* aver veduto quella donna ch%io serviva verso me turbata, o per suspetto vano che da se stessa della fede mia avesse preso, o vero per qualche altra falsa opinione in lei nata dalle altrui parole a mio danno; tanto ch%io credeva niuna pena alla mia potersi agguagliare e parevami che %l maggior dolor ch%io sentiva fusse il patire non avendolo meritato, ed aver questa affli- zione non per mia colpa, ma per poco amor di lei. Altre volte la vidi sdegnata per qualche error mio e conobbi l%ira sua proceder dal mio fallo; ed in quel punto giudicava che %l passato mal fosse stato levissimo a rispetto di quello ch%io sentiva allora; e pareami che l%esser dispiaciuto, e per colpa mia, a quella persona alla qual sola io desiderava e con tanto studio cercava di piacere, fosse il maggior tormento e sopra tutti gli altri. Vorrei adunque che%l gioco nostro fusse che ciascun dicesse, avendo ad esser sdegnata seco quella persona ch%egli ama, da chi vorrebbe che nascesse la causa del sdegno, o da lei, o da se stesso; per saper qual e* maggior dolore, o far dispiacere a chi s%ama, o riceverlo pur da chi s%ama. XII. Attendeva ognun la risposta della signora Emilia; la qual non facendo altrimenti motto al Bembo, si volse e fece segno a messer Federico Fregoso che%l suo gioco dicesse; ed esso su*bito cosi* comincio*: -- Signora, vorrei che mi fusse . licito, come qualche volta si so*le, rimettermi alla sentenzia giochi proposti da questi signori, perche% veramente parmi che tutti sarebben piacevoli: pur, per non guastar l%ordine, dico che chi volesse laudar la corte nostra, lasciando ancor i meriti della signora Duchessa, la qual sola con la sua divina virtu* basteria per levar da terra al cielo i piu* bassi spiriti che siano al mondo, ben poria senza suspetto d%adulazion dir che in tutta la Italia forse con fatica si ritrovariano altrettanti cavalieri cosi* singulari, ed oltre alla principal profession della cavalleria cosi* eccellenti in diverse cose, come or qui si ri- trovano; pero*, se in loco alcuno son omini che meritino esser chiamati bon cortegiani e che sappiano giudicar quello che alla perfezion della cortegiania 4 s'appartiene, ragionevol- mente si ha da creder che qui siano. Per reprimere 5 adunque molti sciocchi 6, i quali per esser prosuntuosi ed inetti si credono acquistar nome di bon cortegiano, vorrei che 'l gioco di questa sera fusse tale, che si elegesse 7 uno della compa- gnia ed a questo si desse carico di formar con parole 8 un perfetto cortegiano, esplicando tutte le condicioni e particular qualita*, che si richieggono a chi merita questo nome; ed in quelle cose che non pareranno convenienti sia licito -a ciascun contradire, come nelle scole de' filosofi a chi tien conclu- sioni9 --. Seguitava ancor piu* oltre il suo ragionamento messer Federico, quando la signora Emilia, interrompendolo: -- Questo, -- disse, -- se alla signora Duchessa piace, sara* il gioco nostro per ora --. Rispose la signora Duchessa: -- Pia- cemi --. Allor quasi tutti i circunstanti, e verso la signora Duchessa e tra se%, cominciarono a dir che questo era il piu* bel gioco che far si potesse; e senza aspettar l'uno la risposta dell'altro, facevano instanzia alla signora Emilia che ordinasse chi gli avesse a dar principio. La qual, voltatasi alla signora Duchessa: -- Comandate, -- disse, -- Signora, a chi piu* vi piace che abbia questa impresa; ch'io non voglio, con elegeme uno piu* che l'altro, mostrar di giudicare qual in questo io estimi piu* sufficiente 10 degli altri, ed in tal modo far ingiuria a chi si sia --. Rispose la signora Duchessa: -- Fate pur voi questa elezione; e guardatevi col disubedire di non dar esempio agli altri, che siano essi ancor poco ubedienti. XlII. Allor la signora Emilia, ridendo, disse al conte Ludovico da Canossa: -- Adunque, per non perder piu* tempo, voi, Conte, sarete quello che avera* questa impresa nel modo che ha detto messer Federico; non gia* perche% ci paia che voi siate cosi* bon cortegiao, che sappiate quel che si gli convenga, ma perche%, dicendo ogni cosa al contrario i, come speramo che farete, il gioco sara* piu* bello, che% ognun avera* che respondervi 2; onde se un altro che sapesse piu* di voi avesse questo -carico, non si gli potrebbe contradir cosa alcuna perche% diria la verita*, e cosi* il gioco saria freddo 3 --. Su*bito rispose il Conte: -- Signora, non ci saria pericolo che mancasse contradizione a chi dicesse la verita*, stando voi qui presente 4 --; ed essendosi di questa risposta alquanto riso, seguito*: -- Ma io veramente, Signora, molto volontier fuggirei questa fatica, parendomi troppo difficile e cono- scendo in me cio* che voi avete per burla detto esser veris- simo, cioe* ch'io non sappia quello che a bon cortegian si conviene; e questo con altro testimonio 5 non cerco di provare, . perche%, non facendo l'opere, si po estimar ch'io nol sappia 6; ed io credo che sia minor biasmo mio, perche% senza dubbio peggio e* non voler far bene, che non saperlo fare. Pur, essendo cosl che a voi piaccia che io abbia questo carico, non posso ne% voglio rifutarlo, per non contravenir all'ordine e giudicio vostro, il quale estimo piu* assai che 'l mio --. Allor messer Cesare Gonzaga, -- perche% gia*, -- disse, -- e* passata bon' ora di notte e qui son apparecchiate molte altre sorti di piaceri 7, XIII. - I. Alla romescia: in modo cioe* da pro"oca'e con un tale espe- forse bon sara* differir questo ragionamento a domani e darassi tempo al Conte di pensar cio* ch'egli s'abbia a dire; che% in vero di tal subietto parlare improviso 8 e* difficil cosa --. Rispose il Conte: -- Io non voglio far come colui, che spo- gliatosi in giuppone 9 salto* meno che non avea fatto col saio; e percio* parmi gran ventura che l'ora sia tarda, perche% per la brevita* del tempo saro* sforzato a parlar poco e 'l non avervi pensato mi escusera*, tahnente che mi sara* licito dir senza biasimo tutte le cose che prima mi verranno alla bocca. Per non tener adunque piu* lungamente questo carico di obligazione sopra le spalle, dico che in ogni cosa tanto e* difficil il conoscer la vera perfezion, che quasi e* impossi- bile; e questo per la varieta* de' giudi*ciio. pero* si ritrovano moltiii, ai quali sara* grato un omo che parli assai, e quello chiameranno piacevole; alcuni si diletteranno piu* della modestia; alcun'altri d'un omo attivo ed inquieto; altri di chi in ogni cosa mostri riposo e considerazione 12; e cosi* ciascuno lauda e vitupera secondo il parer suo, sempre co- prendo il vicio col nome della propinqua 13 virtu*, o la virtu* col nome del propinquo vicio; come chiamando un prosun- tuoso, libero; un modesto, a*rrido; un nescio 14, bono; un scelerato, prudente; e medesimamente nel resto. pur io estimo in ogni cosa esser la sua perfezione, avvenga che 15 nascosta; e questa potersi con ragionevoli discorsi giudicar da chi di quella tal cosa ha notizia. E perche%, come ho detto, spesso la verita* sta occulta ed io non mi vanto aver questa cognizione, non poso laudar se non quella sorte di corte- giani ch'io piu* apprezzo 16, ed approvar quello che mi par piu* simile al vero, secondo il mio poco giudicio- il qual seguitarete 17, se vi parera* bono, o vero v'attenerete al vostro, se egli sara* dal mio diverso. Ne% io gia* contrastero* che 'l mio sia migliore del vostro; che% non solamente a voi po parer :, una cosa ed a me un'altra, ma a me stesso poria parer or XIV. Voglio adunque che questo nostro cortegiano sia nato nobile e di generosa 1 famiglia; perche% molto men si disdice ad un ignobile mancar di far operazioni virtuose, che ad uno nobile 2, il qual- se desvia dal camino dei sui antecessori, macula 3 il nome della famiglia e non solamente non acquista, ma perde il gia* acquistato; perche% la nobilita* e* quasi una chiara lampa4, che manifesta e fa veder l'opere bone e le male ed accende e sprona alla virtu* cosi* col timor d'infamia, come ancor con la speranza di laude; e non scoprendo questo splendor di nobilita* l'opere degli ignobili- 5, essi macano dello stimulo e del todore di quella infamia, ne% par loro d'esser obligati passar piu* avanti di quello che fatto abbiao i sui antecessori; ed ai nobili par biasimo non giunger almeno al termine da' sui primi 6 mostratogli. pero* intervien quasi sempre che e nelle arme e nelle altre virtuose operazioni gli omini piu* segnalati sono nobili, perche% la natura in ogni cosa ha insito quello occulto seme, che porge una certa forza e proprieta* del suo principio a tutto quello che da esso deriva ed a se% lo fa simile 7; come non solamente vedemo nelle razze de' cavalli e d'altri animali, ma ancor negli alberi, i rampolli dei quali quasi sempre s'assimigliano al tronco; e se qualche volta degenerano, procede dal mal agricultore 8. E cosi* intervien degli omini, i quali, se di bona crianza 9 sono cultivati, quasi sempre son somili- a quelli d'onde proce- dono e spesso migliorano; ma se manca loro chi gli curi bene, divengono come selvatichi, ne% mai si maturano 10. Vero e* che, o sia per favor delle stelle 11, o di natura 12, nascono alcuni accompagnati da tante grazie, che par che non siano nati, ma che un qualche dio con le proprie mani formati gli abbia ed oruati de tutti i beni dell'animo e del corpo; si* come ancor molti si veggono tanto inetti 13 e sgarbati. che non si po credere se non che la natura per dispetto o per ludibrio produtti gli abbia al mondo. Questi si* come per assidua diligenzia e bona crianza poco frutto per lo piu* delle volte posson fare, cosi* quegli altri con poca fatica vengon in cohno di summa eccellenzia. E per darvi un esempio, vedete il signor don Ippolito da Este, cardinal di Ferrara 14 il quale tanto di felicita* ha portato dal nascere suo, che la persona, lo aspetto, le parole e tutti i sui movimenti sono talmente di questa grazia 15 composti ed accommodati, che tra i piu* antichi prelati, avvenga che sia giovane, rappre- senta una tanto grave autorita*, che piu* presto pare atto ad insegnare, che bisognoso d'imparare; medesimamente, nel conversare con omini e con donne d'ogni qualita*, nel giocare, nel ridere e nel motteggiare tiene una certa dol- cezza e cosi* graziosi costumi, che forza e* che ciascun che gli parla o pur lo vede gli resti perpetuamente affezionato. Ma, tornando al proposito nostro, dico che tra questa eccel- lente grazia e quella insensata sciocchezza si trova ancora il mezzo 16; e posson quei che non son da natura cosi* perfet- tamente dotati, con studio e fatica limare e correggere in gran parte i diffetti naturali. Il cortegiano, adunque, oltre alla nobilita*, voglio che sia in questa parte 17 fortunato, ed abbia da natura non solamente lo ingegno e bella forma di persona e di volto, ma una certa grazia e, come si dice, un sangue 18, che lo faccia al primo aspetto a chiunque lo vede grato ed amabile; e sia questo un omamento che componga e compagni 19 tutte le operazioni sue e prometta 20 nella fronte quel tale esser degno del commerzio e grazia d'ogni gran signore. XV. Quivi, non aspettando piu* oltre, disse il signor Gaspar Pallavicino: -- Accio* che il nostro gioco abbia la forma ordinata e che non paia che noi estimiam poco l'autorita* dataci del contradire, dico che nel cortegiano a me non par cosi* necessaria questa nobilita* e s'io mi pensassi dir cosa che ad alcun di noi fusse nova, io addurrei molti i quali, nati di nobilissimo sangue, son stati pieni di vicii; e per lo contrario molti ignobili, che hanno con la virtu* illustrato la posterita* loro. E se e* vero quello che voi diceste dianzi, cioe* che in ogni cosa sia quella occulta forza del primo seme, noi tutti saremmo in una medesima condicione per aver avuto un medesimo principio, ne% piu* un che l'altro sarebbe nobile. Ma delle diversita* nostre e gradi d'altezza e di bassezza credo io che siano molte altre cause: tra le quali estimo la fortuna esser precipua, perche% in tutte le cose mondane la veggiamo dominare e quasi pigliarsi a gioco d'alzar spesso fin al cielo chi par a lei senza merito alcuno, e sepellir nell'abisso i piu* degni d'esser esaltati. Confermo ben cio* che voi dite della felicita* di quelli che nascon dotati dei beni dell'animo e del corpo; ma questo cosi* si vede negli ignobili come nei nobili, perche% la natura non ha queste cosi* sottili distinzioni; anzi, come ho detto, spesso si veg- gono in persone bassissime altissimi doni di natura. pero* non acquistandosi questa nobilita* ne% per ingegno ne% per forza ne% per arte, ed essendo piu* tosto laude dei nostri antecessori che nostra propria, a me par troppo strano voler che, se i parenti del nostro cortegiao son stati igno- bili, tutte le sue bone qualita* siiamo guaste, e che non bastino assai quell'altre condizioni che voi avete no -minate, per ridurlo al colmo della perfezione: cioe* ingegno, bellezza di volto, disposizion di persona e quella grazia, che al primo aspetto sempre lo faccia a ciascun gratissimo. XVI . Allor il conte Ludovico, -- Non nego io, -- rispose, -- che ancora negli omini bassi non possano regnar quelle me- desime virtu* che nei nobili; ma per non replicar quello che gia* avemo detto con molte altre ragioni che si poriao ad' durre in laude della nobilita*. la qual sempre ed appresso ognuno e* onorata, perche% ragionevole cosa e* che de' boni nascano i boni, avendo noi a formare un cortegiano senza diffetto alcuno e cumulato d'ogni laude, mi par necessario farlo nobile, si* per molte altre cause, come ancor per la opinion universale, la qual su*bito accompagna la nobilita*. Che% se saranno dui omini di palazzo, i quali non abbiano per prima dato impression alcuna di se stessi con l'opere o bone o male, su*bito che s"intenda l'un esser nato gentilomo e l'altro no, appresso ciascuno lo ignobile sara* molto meno estimato che 'l' nobile, e bisognera* che con molte fatiche e con tempo nella mente degli omini imprima la bona opinion di se%, che l'altro in un momento, e solamente con l'esser gentilom, avera* acquistata. E di quata importanzia siano queste impressioni, ognun po facilmente comprendere; che%, parlando di noi, abbiam veduto capitare in questa casa omini, i quali, essendo sciocchi e goffissimi, per tutta Italia hanno pero* avuto fama di grandissimi cortegiani; e benche% in ultimo sian stati scoperti e conosciuti, pur per molti di* ci hanno ingannato, e mantenuto negli animi nostri quella"opinion di se% che prima in essi hanno trovato impressa, benche% abbiao operato secondo il lor poco valore. Avemo veduti ai*tri, al principio in pochissima estimazione, poi esser all'ultimo riusciti benissimo. E di questi errori sono diverse cause; e tra l'altre la ostinazion dei signori, i quali, per voler far miracoli, talor si mettono a dar favore a chi par loro che meriti disfavore. E spesso ancor essi s'ingannano; ma perche% sempre harnno infiniti imitatori, dal favor loro deriva grandissima fama, la qual per lo piu* i giudi*ci vanno seguendo; e se ritrovano qualche cosa che paia contraria alla commune opinione, dubitano di ingannar se medesimi e sempre aspet- tano qualche cosa di nascosto, perche% par e che queste opi- nioni universali debbano pur esser fondate sopra il vero e nascere da ragionevoli cause, e perche% gli animi nostri sono prontissimi allo amore ed all'odio, come si vede nei spettaculi de' combattimenti e de' giochi e d'ogni altra sorte contenzione, dove i spettatori spesso si affezionano senza siderio estremo ancor delle quai*ita* degli omini, la bona fama o la mala nel primo entrare move l'animo nostro ad una di queste due con amore, o vero con odio. Vedete adunque di quanta i tanzia sia questa prima impressione e come debba sfo d'acquistarla bona nei princi*pi chi pensa aver grado e nome di bon cortegiano. XVll. Ma per venire a qualche particularita*, estimo che la prin- cipale e vera profession del cortegiano debba esser quella dell'arme; la qual sopra tutto voglio che egli faccia viva- mente e sia conosciuto tra gli altri per ardito e sforzato e fidele a chi serve. E 'l nome di queste bone condicioni si acquistera* facendone l'opere in ogni tempo e loco, impero* che non e* licito in questo mancar mai, senza biasimo estremo; e come nelle donne la onesta*, una volta macchiata, mai piu* non ritorna al primo stato, cosi* la fama d'un gen- tii*om che porti l'~e, se una volta in un minimo punto si dernigra per coardia o altro rimproccio, sempre resta vitu- perosa al mondo e piena d'ignominia. Quanto piu* adunque sara* eccellente il nostro cortegiano in questa arte, tanto piu* sara* degno di laude; bench'io non estimi esser in lui neces- saria quella perfetta cognizion di cose e l'altre qualita*, che ad un capitano si convengono; che% per esser questo troppo gran mare, ne contentaremo, come avemo detto, della integrita* di fede e dell'animo invitto e che sempre si vegga esser tale: perche% molte volte piu* nelle cose piccole che nelle grandi si conoscono i coraggiosi; e spesso ne' pericoli d'im- portanzia, e dove son molti testimonii, si ritrovano alcuni li quali, benche% abbiano il core morto nel corpo, pur spinti dalla vergogna o dalla compagnia, quiasi ad occhi chiusi vanno inanzi e fanno il debito loro io, e Dio sa come; e nelle cose che poco premono e dove par che possano senza esser notati restar di mettersi a pericolo, volentier si lasciano acconciare al sicuro. Ma quelli che ancor quando pensano non dover esser d'alcuno ne% mirati, ne% veduti, ne% conosciuti, mostrano ardire e non lascian passar cosa, per minima ch'ella sia, che possa loro esser carico, hanno quella virtu* d'animo che noi ricerchiamo nel nostro cortegiano. Il quale non volemo pero* che si mostri tanto fiero, che sempre stia 'in su le brave parole e dica aver tolto la corazza per moglie, e minacci con quelle fiere guardature che spesso avemo vedute fare a Berto; che% a questi tali meritamente si po dir quello, che una valorosa donna in una nobile compagnia piacevoI- mente disse ad uno, ch'io per ora nominar non voglio; il quale, essendo da lei, per onorarlo, invitato a danzare, e rifiutando esso e questo e lo udir musica e molti altri in- tertenimenti offertigli, sempre con dir cosi fatte novel- luzze non esser suo mestiero, in ultimo dicendo la donna Qual e* adunque il mestier vostro? )), rispose con un mal viso : (( Il combattere )); allora la donna su*bito: (( Crederei "), isse, (( che or che non siete alla guerra, ne% in termine de combattere, fosse bona cosa che vi faceste molto ben un- tare ed insieme con tutti i vostri amesi da battaglia riporre in un armario finche% bisognasse, per non ruginire piu* di qello che siate )); e cosi*, con molte risa de% circunstanti, scornato lasciollo nella sua sciocca prosunzione. Sia adunque qello che noi -cerchiamo, dove si veggon gli inimici, fieris- simo, acerbo e sempre tra i primi; in ogni altro loco, umano, modesto e ritenuto, fuggendo sopra tutto la ostentazione e lo impudente laudar se stesso, per lo quale l%uomo sempre co*ncita odio e stomaco da chi ode. XVIII. -- Ed io, -- rispose allora il signor Gaspar, -- ho cono- sciuti pochi omini eccellenti in qualsivoglia cosa, che non laudino se stessi; e parmi che molto ben comportar lor si pos- sa, perche% Chi si sente valere, quando si vede non esser per l%opere dagli ignoranti conosciuto, si sdegna che %l valor suo stia sepulto e forza e* che a qualche modo lo scopra, per non essere defraudato dell%onore, che e* il vero premio delle vir- tuose fatiche. Pero* tra gli antichi scrittori, chi molto vale rare volte si astien da laudar se stesso. Quelli ben sono in- tollerab-ili che, essendo di niun merito, si laudano; ma tal non presumiam ,noi che sia il nostro cortegiano --. allor il Conte, -- Se voi --, disse, -- avete inteso, io ho biasmato il laudare se stesso impudentemente e senza rispetto; e certo, come voi dite, non si dee pigliar mala opinion d%un omo valoroso, che modestamente si laudi; anzi to*r quello per testimonio piu* certo che se venisse di bocca altrui. Dico ben che chi, laudando se stesso, non incorre in errore, ne% a se% genera fastidio o invidia da chi ode, quello e* discretis- simo ed, oltre alle laudi che esso si da*, ne merita ancor dagli altri; perche% e* cosa difficil assai --. Allora il signor Gaspar, -- Questo, -- disse, -- ci avete da insegnar voi --. Rispose il Conte: -- Tra gli antichi scrittori non e* ancor mancato chi l%abbia insegnato; ma, al parer mio, il tutto consiste in dir le cose di modo, che paia che non si dicano a quel fine, ma che caggiano talmente a proposito, che non si possa restar di dirle, e sempre mostrando fuggir le proprie laudi, dirle pure; ma non di quella maniera che fanno questi bravi, che aprono la bocca e lascian venir le parole alla ventura; come pochi di fa disse un de% nostri che, essendogli a Pisa stato passata una coscia con una picca da una banda al- l%altra, penso* che fosse una mosca che l%avesse punto; ed un altro disse che non teneva specchio in camera perche% quando si crucciava diveniva tanto terribile nell%aspetto, che veggendosi arl*a fatto troppo gran paura a se stesso. -- Rise qui ognuno; ma messer Cesare Gonzaga suggiunse: -- Di che ridete voi? Non sapete che Alessandro Magno, sentendo che opinion d%un filosofo era che fussino infiniti mondi, comincio* a piangere, ed essendoli domandato perche% piangeva, rispose, (( Perch%io non ne ho ancor preso un solo )); come se avesse avuto animo di pigliarli tutti? Non vi par che questa fosse maggior braveria che il dir della pun- tura della mosca? -- Disse allor il Conte: -- Anco Alessandro era maggior uom che non era colui che disse quella. Ma agli omini eccellenti in vero si ha da perdonare quando pre- sumono assai di se%; perche% chi ha da far gra cose, bisogna che abbia ardir di farle e confidenzia di se stesso e non sia d%animo abbietto o vile, ma si* ben modesto in parole, mo- strando di presumer meno di se stesso che non fa, pur che quella presunzione non passi alla temerita*. XIX. Quivi facendo un poco di pausa il Conte, disse ridendo messer Bemardo Bibiena: -- Ricordomi- che dianzi diceste che questo nostro cortegiano aveva da esser dotato da natura di bella forma di volto e di persona, con quella grazia che lo facesse cosi amabile. La grazia e %l volto bellissimo penso per certo che in me sia e percio* interviene che tante donne, quante sapete, ardeno dell%amor mio; ma della forma del corpo sto io alquanto dubbioso, e massimamente per queste mie gambe, che in vero non mi paiono cosi* atte com%io vorrei; del busto e del resto contentomi pur assai bene. Dichiarate adunque un poco piu* minutamente questa forma del corpo, quale abbia ella da essere, accio* che io possa levarmi di questo dubbio e star %con l%animo riposato --. Essendosi di questo riso alquanto, suggiunse il Conte: -- Certo quella grazia del volto, senza mentire, dir si po esser in voi, ne% altro esempio adduco .che questo, per dechiarire che cosa ella sia; che* senza dubbio veggiamo il vostro aspetto esser gratissimo e piacere ad ognuno, avvenga che i lineamenti. d%esso non siano molto delicati; ma tien del virile, e pur e* grazioso; e trovasi questa qualita* in molte e diverse forme di volti, E di tal sorte voglio io che sia lo aspetto del nostro cortegiano, non cosi* molle e feminile come si sforzano d%aver molti, che non solamente si crespano i capegli e spelano le ciglia, ma si strisciao con tutti que% modi che si faccian le piu* lascive e disoneste femine del mondo; e pare che nello an- dare, nello stare ed in ogni altro lor atto siano tanto teneri e languidi, che le membra siano per staccarsi loro l%uno dal- l%altro; e pronunziano quelle parole cosi* afflitte, che in quel punto par che lo spirito loro finisca; e quanto piu* si trovano con omini di grado, tanto piu* usano tai termini. Questi, poiche* la natura, come essi niostrano desiderare di parere ed essere, non gli ha fatti femine, dovrebbono non come bone femine esser estimati, ma, come publiche meretrici, non solamente delle corti de% gran signori, ma del consorzio degli omini nobili esser cacciati. XX. Vegnendo adunque alla qualita* della persona, dico bastar ch%ella non sia estrema in piccolezza ne% in grandezza i; perche% e l%una e l%altra di queste condicioni porta seco una certa dispettosa maraviglia e sono gli omini di tal sorte mirati quasi di quel modo che si mirano le cose monstruose; benche%, avendo da peccare nell'una delle due estremita*, men male e* l%esser un poco diminuto, che ecceder la ragionevol misura in grandezza; perche% gli omini cosi vasti di corpo, oltra che molte volte di ottuso ingegno si trovano, sono ancor inabili ad ogni esercizio di agilita*, la qual cosa io desidero assai nel cortegiano. E percio* voglio che egli sia di bona disposizione e de% membri ben formato, e mostri forza e leggerezza e di- scioltura, e sappia de tutti gli esercizi di persona, Che ad uom di guerra s'appartengono; e di questo penso il primo dever essere maneggiar ben ogni sorte d'arme a piedi ed a cavallo e conoscere i vantaggi che in esse sono, e mass--ima- mente aver notizia di quell'arme che s%usano ordinariamente tra% gentilomini; perche%, oltre all'operarle alla guerra, dove forse non sono necessarie tante sottilita*, intervengono spesso differenzie io tra un gentilom e, l%altro, onde poi nasce il;combattere, e molte volte con quell%arme che in quel punto si trovao a cato; pero* il saperue e* cosa securissima. Ne% i gia* di ue' che dicono che allora l'arte si scorda son io gia* di que' che dicono, che allora l'arte si scorda nel bisogno; perche% certamente chi perde l'arte in quel tempo, da* segno che prima ha perduto il core e 'l cervello di paura. XXI. Estimo acora che sia di momento assai il saper lottare , perche% questo accompagna molto tutte l'arme da piedi. Appresso bisogna che e per se% e per gli amici intenda le que- rele e differenzie che possono occorrere, e sia avvertito nei vantaggi, in tutto mostrando sempre ed animo e pru- denzia; ne% sia facile a questi combattimenti, se non quanto per l'onor fosse sforzato; che%, oltre al gran pericolo che la dubbiosa sorte seco porta, chi in tai cose precipitosamente e senza urgente causa incorre, merita grandissimo biasimo, avvenga che ben gli succeda. Ma quando si trova l'omo esser entrato tanto avanti, che senza carico non si possa ritrarre, dee e nelle cose che occorrono prima del combattere, e nel combattere, esser deliberatissimo e mostrar sempre prontezza e core; e non far com'alcuni, che passano la cosa in dispute e punti , ed avendo la elezion dell'arme, pigliano arme che non tagliano ne% pungono e s'armano come s'aves- sero ad aspettar le cannonate; e parendo lor bastare il non esser vinti, stanno sempre in sul diffendersi e ritirarsi, tanto che mostrano estrema vilta*; onde fannosi far la baia da' fanciulli, come que' dui Anconitani, che poco fa combat- terono a Perugia e fecero ridere chi gli vide. -- E quali furon questi? -- disse il signor Gaspar Pallavicino. Rispose messer Cesare: -- Dui fratelli consobrini --. Disse allora il Conte: -- Al combattere parvero fratelli camali - -- poi suggionse: -- Adopransi ancor l'arme spesso in tempo di pace in diversi esercizi , e veggonsi i gentilomini nei spet- tacoli publici alla presenzia de" populi, di donne e di gran signo'ri. Pero* voglio che 'l nostro cortegiao sia perfetto ca- valier d'ogni sella , ed oltre allo aver cognizion di cavalli e di cio* che al cavalcare s'appartiene, ponga ogni studio e diligenzia di passar in ogni cosa un poco piu* avanti che gli altri, di modo che sempre tra tutti sia per eccellente conosciuto. E come si legge d'Alcibiade che supero* tutte le nazioni presso alle quali egli visse, e ciascuna in quello che piu* era suo proprio, cosi* questo nostro avanzi gli altri, e ciascuno in quello di che piu* fa professione. E perche% degli Italiani e* peculiar laude il cavalcare bene alla brida, il maneggiar con ragione massimamente cavalli asperi il correr lance e 'l giostrare , sia in questo de' migliori Ita- liai; nel tomeare, tener un passo combattere una sbarra , sia bono tra i miglior Franzesi; nel giocare a canne , correr tori , lanzar aste e dardi, sia tra i Spagnoli eccellente. Ma sopra tutto accompagni ogni suo movimento con un certo bon giudicio e grazia, se vole meritar quell'universal favore che tanto s'apprezza. XXII. Sono ancor molti altri esercizi, i quali, benche% non de- pendano drittamente dalle arme, pur con esse hanno molta convenienzia e tengono assai d'una strenuita* virile; e tra questi parmi la caccia esser de' principali, perche% ha una certa similitudine di guerra; ed e* veramente piacer da gran signori e conveniente ad uom di corte; e comprendesi che ancor tra gi*i antichi era in molta consuetudine. Conve- niente e* ancor saper nuotare, saltare, correre, gittar pietre perche%, oltre alla utilita* che di questo si po avere alla guerra, molte volte occorre far prova di se% in tai cose; onde s'acquista bona estimazione, massimamente nella - moltitudine , con la quale bisogna pur che l'om s'accommodi. Ancor nobile esercizio e convenientissimo ad uom di corte e* il gioco di palla , nel quale molto si vede la disposizion del corpo e la prestezza e discioltura d'ogni membro, e tutto quello che quasi in ogni altro esercizio si vede. Ne% di minor laude estimo il volteggiar a cavallo , il quale, abbenche% sia faticoso e dif- ficile, fa l'omo leggerissimo e destro piu* che alcun'altra cosa; ed oltre alla utilita*, se quella leggerezza e* compagnata di bona grazia, fa, al parer mio, piu* bel spettaculo che alcun degli altri. Essendo adunque il nostro cortegiano in questi esercizi piu* che mediocremente esperto, penso che debba lasciar gli altri da canto; come volteggiar in terra, andar in su la corda e tai cose, che quasi hanno del giocolare e poco sono a gentilomo convenienti. Ma perche% sempre non si po versar tra queste cosl* faticose operazioni, oltra che ancor la assiduita* sazia molto e leva quella ammirazione che si piglia delle cose rare, bisogna sempre variar con diverse azioni la vita nostra. Pero* voglio che 'l cortegiano descenda qualche volta a piu* riposati e placidi esercizi, e per schivar la invidia e per intertenersi piacevohnente con ognuno faccia tutto quello che gli altri fano, non s'allontanando pero* mai dai laudevoli atti e governandosi con quel bon giudicio che non lo lassi incorrere in alcuna sciocchezza; ma rida, scherzi, motteggi, balli e danzi, nientedimeno con tal maiera, che sempre mostri esser ingenioso e discreto ed in ogni cosa che faccia o dica sia aggraziato. XXIII. -- Certo, -- disse allor messer Cesare Gonzaga, -- non si dovria gia* impedir il corso di questo ragionamento; ma, se io tacessi, non satisfarei alla liberta* ch'io ho di parlare, ne% al desiderio di saper una cosa; e siami perdonato s'io, avendo a contradire, dimandero*; perche% questo credo che mi sia licito, per es'empio dei* nostro messer Bemardo, il quale per troppo voglia d'esser tenuto bell'omo, ha contrafatto alle leggi del nostro gioco, domandando e non - contradi- cendo . -- Vedete, -- disse allora la signora Duchessa, -- come da un error solo molti ne procedono. Pero* chi falla e da* mal esempio, come messer Bernardo, non solamente merita esser punito del suo fallo, ma ancor dell'altrui --. Rispose allora messer Cesare: -- Dunque io, Signora, saro* esente di pena, avendo messer Bernardo ad esser punito del suo e del mio errore. -- Anzi, -- disse la signora Duchessa, -- tutti dui devete aver doppio castigo: esso del suo fallo e dello aver indutto voi a fallire; voi del vostro "fallo e dello aver imitato chi falliva. -- Signora, -- rispose messer Ce- sare, -- io fin qui non ho fallito; pero*, per lasciar tutta questa punizione a messer Bernardo solo, tacerommi --. E gia* si taceva; quando la signora Emilia ridendo, -- Dite cio* che vi piace, -- rispose, -- che%, con licenzia pero* della signora Duchessa, io perdono a chi ha fa ito e a chi fallira* in cosi* piccol fallo --. Suggiunse la signora Duchessa: -- Io son contenta; ma abbiate cura che non v'inganniate, pensando forse meritar piu* con l'esser clemente che con l'esser giusta; perche% perdonando troppo a chi falla si fa ingiuria a chi non falla. Pur non voglio che la mia austerita* per ora, accusando la indulgenzia vostra, sia causa che noi perdiamo d'udir questa domanda di messer Cesare --. Cosi* esso, essendogli fatto segno dalla signora Duchessa e dalla signora Emilia, su*bito disse: XXIV. -- Se ben tengo a memoria, parmi, signor Conte, che voi questa sera piu* volte abbiate repi*icato che "l cortegiano ha da compagnare l'operazion sue, i gesti, gli abiti, in somma ogni suo movimento con la grazia ; e questo mi par che met- tiate per un condimento d'ogni cosa , senza il quale tutte l'altre proprieta* e bone condicioni sian di poco valore. E veramente credo io che ognun facilmente in cio* si lascia- rebbe persuadere, perche% per la forza del vocabulo si po dir che chi ha grazia quello e* grato. Ma perche% voi diceste, questo spesse volte esser don della natura e de' cieli, ed ancor quando non e* cosi* perfetto potersi con studio e fatica far molto maggiore, quegli che nascono cosi* avventurosi e tanto ricchi di tal tesoro, come alcuni che ne veggiamo, a me par che in- cio* abbiano poco bisogno d'altro maestro; perche% quel benigno favor del cielo quasi al suo dispetto guida piu* alto che essi non desiderano, e fagli non sola- mente grati, ma ammirabili a tutto il mondo. Pero* di questo non ragiono, non essendo in poter nostro per noi medesimi l'acquistarlo. Ma quelli che da natura hanno tanto solamente. che son atti a poter esser aggraziati aggiungendovi fatica, industria e studio, desidero io di saper con qual arte, con qual disciplina e con qual modo possono acquistar questa grazia, cosi* negli esercizi del corpo, nei quali voi estimate che sia tanto necessaria, come ancor in ogni altra cosa che si faccia o dica. Pero, secondo che col laudarci molto questa qualita* a tutti avete, credo, generato una ardente sete di conseguirtla, per lo carico dalla signora Emina impostovi siete ancor con lo insegnarci obligato ad estinguerla. XXV. -- Obligato non son io, -- disse il Conte, -- ad insegnarvi a diventar aggraziati, ne% altro, ma solamente a dimostrarvi qual abbia ad essere un perfetto cortegiano. Ne% io gia* pi- gliarei impresa di insegnarvi questa perfezione, massima- mente avendo poco fa detto che 'l" cortegiano abbia da saper lottare e voi*teggiare e tant'altre cose, le quali come io -sapessi insegn'arvi-, non le avendo mai imparate, so che tutti lo co- noscete . Basta che si* come un bon soldato sa dire al fabro di che foggia e garbo e bonta* hanno ad esser l'arme, ne% pero* gli sa insegnar a farle, ne% come le martelli o tempri, cosi* io forse vi sapro* dir qual abbia ad esser un perfetto corte- giano, ma non insegnarvi come abbiate a fare per divenime . Pur, per satisfare ancor quanto e* in poter mio alla domanda vostra, benche% e' sia quasi in proverbio che la grazia non s'impari, dico che chi ha da esser aggraziato negli esercizi corporali, presuponendo prima che da natura non sia inabile, dee cominciar per tempo ed imparar i princi*pi da ottimi maestri; la qual cosa quanto paresse a Filippo re di Mace- donia importante , si po comprendere, avendo voluto che Aristotele, tanto famoso filosofo e forse il maggior che sia stato al mondo mai, fosse quello che insegnasse i primi ele- menti delle lettere ad Alessandro suo figliolo. E delli omini che noi oggidi* conoscemo, considerate come bene ed aggra- ziatamente fa il signor Galleazzo Sanseverino, gran scudiero di Francia , tutti gli esercizi del corpo; e questo perche%, oltre alla natural disposizione ch'egli tiene della persona, ha posto ogni studio d'imparare da bon maestri ed aver sempre presso di se% omini eccellenti e da ognun pigliar il meglio di cio* che sapevao; che% si* come del lottare, volteggiare e ma- neggiar molte sorti d'armi ha tenuto per guida il nostro messer Pietro Monte, il qual, come sapete, e* il vero e solo maestro d'ogni artificiosa forza e leggerezza, cosi* del ca- valcare, giostrare e qualsivoglia altra cosa ha sempre avuto inanzi agli occhi i piu* perfetti, che in quelle professioni siano stati conosciuti. XVI. Chi adunque vorra* esser bon discipulo , oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimi- gliarsi al maestro e, se possibi fosse, transformarsi in lui. E quando gia* si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal professione e, govemandosi con quel bon giudicio che sempre gli ha da esser guida, audar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia ne' verdi prati sempre tra l'erbe va carpendo i fiori , cosi* il nostro cortegiano avera* da rubare questa grazia da que' che a lui parera* che la tenghino e da ciascun quella parte che piu* sara* laudevole; e non far come un amico nostro, che voi tutti conoscete, che si pensava esser molto simile al re Fer- rando minore d'Aragona , ne% in altro avea posto cura d'imi- tarlo, che nel spesso alzare il cap' o, torzendo una parte della bocca, il qual costume .il re avea contratto cosi* da in- firmita*. E di questi molti si ritrovano, che pensan far assai, pur che sian simili- ad un grand'omo in qualche cosa; e spesso si appigliano a quella che in colui e* sola viciosa. Ma avendo io gia* piu* volte, pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l'hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano piu* che alcuna altra, e cio* e* fuggir quanto piu* si po, e come un asperissimo e peri- coloso scoglio, la affettazione ; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura , che nasconda l'arte e dimostri cio* che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perche% delle cose rare e ben fatte ognun sa la dif- ficulta*, onde in esse la facilita* genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i ca- pegli da* somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch'ella si sia. Pero* si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; ne% piu* in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perche% se e* scoperta, leva in tutto il credito e fa l'omo poco estimato. E ricordomi io gia* aver letto esser stati alcuni antichi oratori eccellentis- simi, i quali tra le altre loro industrie sforzavasi di far credere ad ognuno se% non aver notizia alcuna di lettere; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e piu* tosto secondo che loro porgea la natura e la verita*, che 'l studio e l'arte; la qual se fosse stata conosciuta, ari*a dato dubbio negli animi del populo di non dover esser da quella ingannati. Vedete adunque come il mostrar l"arte ed un cosi* intento studio levi la grazia d'ogni cosa. Qual di voi e* che non rida quado il nostro messer Pierpaulo danza alla fogia sua, con que' saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno , con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi? Qual occhio e* cosi* cieco, che non vegga in questo la disgrazia della affet- tazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti, di quella sprezzata desinvoltura (che% nei mo- vimenti del corpo molti cosi* la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi, mostrando non estimar e pensar piu* ad ogni altra cosa che a quello, per far credere a chi vede quasi di non saper ne% poter errare? XXVII. Quivi non aspettando, messer Bernardo Bibiena disse: -- Eccovi che messer Roberto nostro ha pur trovato chi laudara* la foggia del suo danzare, poiche% tutti voi altri pare che non ne facciate caso; che% se questa eccellenzia consiste nella sprezzatura e mostrar di non estimare e pensar piu* ad ogni altra cosa che a quello che si fa, messer Roberto nel danzare non ha pari al mondo; che% per mostrar ben di non pensarvi si lascia cader la robba spesso dalle spalle e le pantoffole de' piedi, e senza racco#rre ne% l'uno ne% l'altro, tuttavia danza --. Rispose allor il Conte: -- Poiche% voi vo- lete pur ch'io dica, diro* ancor dei vicii nostri. Non v'accor- gete che questo, che voi in messer Roberto chiamate sprez- zatura, e* vera affettazione? perche% chiaramente si conosce che esso si sforza con ogni studio mostrar di non pensarvi , e questo e* il pensarvi troppo; e perche% passa certi tenuini di mediocrita* , quella sprezzatura e* affettata e sta male; ed e* una cosa che a punto riesce al contrario del suo pre- suposito, cioe* di nasconder l'arte. pero* non estimo io che minor vicio della affettazion sia nella sprezzatura, la quale in se% e* laudevole, lasciarsi cadere i panni da dosso, che nella attillatura , che pur medesimamente da se% e* laudevole, il portar il capo cosi* fermo per paura di non guastarsi la zazzera, o tener nel fondo della berretta il specchio e 'l pet- tine nella manica, ed aver sempre drieto il paggio per le strade con la sponga e la scopetta; perche% questa cosi* fatta attillatura e sprezzatura tendono troppo allo estremo ; il che sempre e* vicioso, e contrario a quella pura ed amabile simplicita*, che tanto e* grata agli animi umani. Vedete come un cavalier sia di mala grazia, quando si sforza d'andare cosi* stirato in su la sella e, come noi sogliam dire, alla veneziana , a comparazion d'un altro, che paia che non vi pensi e stia a cavallo cosi* disciolto e sicuro come se fosse a piedi. Quanto piace piu* e quanto piu* e* laudato un gentilom che porti arme, modesto, che parli poco e poco si vanti, che un altro, il quale sempre stia in sul laudar se stesso, e biaste- mando con braveria mostri minacciar al mondo! e niente altro e* questo, che affettazione di voler parer gagliardo. Il medesimo accade in ogni esercizio, anzi in ogni cosa che al mondo fare o dir si possa. XXVIII. Allora il signor Magnifico, -- Questo ancor, -- disse, -- si verifica nella musica, nella quale e* vicio grandissimo far due consonanzie perfette l"una dopo l'altra; tal che il me- desimo sentimento dell'audito nostro l'aborrisce e spesso ama una seconda o settima , che in se% e* dissonanzia aspera ed intollerabile; e cio* procede che quel continuare nelle perfette genera sazieta* e dimostra una troppo affettata armonia; il che mescolando le imperfette si fugge, col far quasi un paragone, donde piu* le orecchie nostre stanno su- spese e piu* avidamente attendono e gustano le perfette, e dilettansi talor di quella dissonanzia della seconda o set- tima, come di cosa sprezzata. -- Eccovi adunque, -- rispose il Conte, -- che in questo no*ce l'affettazione, come nell'altre cose. Dicesi ancor esser stato proverbio presso ad alcuni eccellentissimi pittori antichi troppo diligenzia esser nociva , ed esser stato biasmato Protogene da Apelle, che non sapea levar le mani dalla tavola --. Disse allora messer Cesare: -- Questo medesimo diffetto parmi che abbia il nostro fra Serafino, di non saper levar le mani dalla tavola , almen fin che in tutto non ne sono levate ancora le vivande --. Rise il Conte e suggiunse: -- Voleva dire Apelle che Proto- gene nella pittura non conoscea quel che bastava ; il che non era altro, che riprenderlo d'esser affettato nelle opere sue. Questa virtu* adunque contraria alla affettazione, la qual noi per ora chiamiamo sprezzatura, oltra che ella sia il vero fonte donde deriva la grazia, porta ancor seco un altro omamento, il quale accompagnando qualsivoglia azione umana, per minima che ella sia, non solamente su*bito scopre il saper di chi la fa, ma spesso lo fa estimar molto maggior di quello che e* in effetto ; perche% negli animi delli circun- stanti imprime opinione, che chi cosi facilmente fa bene sappia molto piu* di quello che fa, e se in quello che fa ponesse studio e fatica, potesse farlo molto meglio. E per replicare i medesimi esempi, eccovi che un uom che maneggi l"arme, se per lanzar un dardo, o ver tenendo la spada in mano o altr'arma, si pon senza pensar scioltamente in una attitudine pronta, con tal facilita* che paia che il corpo e tutte le membra stiano in quella disposizione naturalmente e senza fatica alcuna, ancora che non faccia altro, ad ognuno si dimostra esser perfettissimo in quello esercizio. Medesimamente nel danzare un passo solo, un sol movim ento della persona gra- izioso e non sforzato , su*bito manifesta il sapere de chi danza. Un musico, se nel catar pronunzia una sola voce terminata con suave accento in un groppetto duplicato , con tal fa- cilita* che paia che cosi* gli venga fatto a caso, con quel punto solo fa conoscere che sa molto piu* di quello che fa. Spesso ancor nella pittu una linea sola non stentata, un sol colpo di penello tirato f cilmente, di modo che paia che la mano, senza esser guidata da studio o arte alcuna, vada per se stessa al suo termine secondo la intenzion del pittore, scopre chiaramente la eccellenzia dell'artifice, circa la opinion della quale ognuno poi si estende secondo il suo giudicio; e 'l medesimo interviene quasi d'ogni altra cosa. Sara* adunque il nostro cortegiano stimato eccellente ed in ogni cosa avera* grazia, massimamente nei* parlare, se fuggira* i*'affettazione; nel qual errore incorrono molti, e talor piu* che gli altri al- cuni nostri Lombardi; i quali, se sono stati un ano fuor di casa, ritomati su*bito cominciano a parlare romano, talor spagnolo o franzese, e Dio sa come; e tutto questo procede da troppo desiderio di mostrar di aper assai; ed in tal modo l'omo mette studio e diligenzia in acquistar un vicio odip- sissimo. E certo a e sarebbe non piccola fatica, se in questi nostri ragionamenti io volessi usar quelle parole antiche toscane, che gia* sono dalla co suetudine dei Toscani d'oggidi* rifiutate; e con tutto quaesto credo che ognum di me rideria. XXIX. Allor messer Federico, -- Veramente, -- disse, -- ragio- nando tra noi, come or facciamo, forse saria male usar quelle parole antiche toscane; perche%, come voi dite, dari no fatica a chi le dicesse ed a chi le udisse e non senza difficulta* sa- rebbono da molti intese. Ma chi scrivesse, crederei ben io che facesse errore non usaudole perche% da*nno molta grazia ed autorita* alle scritture, e da esse risulta una lingua piu* grave e piena di maesta* che dalle modeme. -- Non so, -- rispose il Conte, -- che grazia o autorita* possan dar alle scritture quelle parole che si deono fuggire, non solamente nel modo del parlare, come or noi facciamo (il che voi stesso confessate), ma ancor in ogni altro che imaginar si possa. Che% se a qualsivoglia omo di bon giudicio occorresse far una orazione di cose gravi nel senato proprio di Fiorenza, che e* ii* capo di Toscana, o ver parlar privatamente con persona di grado in quella citta* di negoci importanti, o ancor con chi fosse dimestichissimo di cose piacevoli, con donne o cavalieri d'amore, o burlando o scherzando in ) feste, giochi, o dove si sia, o in qualsivoglia tempo, loco o proposito, son certo che si guardarebbe d'usar quelle parole antiche toscane; ed usandole, oltre al far far beffe di se% , darebbe non poco fastidio a ciascun che lo ascoltasse. Parmi adunque molto strana cosa usare nello scrivere per bone quelle parole, che si fuggono per viciose in ogni sorte di parlare; e voler che quello che mai non si conviene nel par- lare sia il piu* conveniente modo che usar si possa nello scri- vere. Che% pur, secondo me, la scrittura non e* altro che una forma di parlare che resta ancor poi che l'omo ha parlato , e quasi una imagine o piu* presto vita delle parole, e pero* nel parlare, il qual, su*bito uscita che e* la voce, si disperde, son forse tollerabili alcune cose che non sono nello scri- v'ere - perche% la scrittura conserva le parole e le sottopone al giudicio di chi legge e da* tempo di considerarle matura- mente. E percio* e* ra ionevole che in questa si metta,maggior diligenzia per farla iu* culta e castigata; non pero* di modo che le parole scritte siano dissimili dalle dette, ma che nello scrivere si eleggano delle piu* belle che s'usano nel parlare . E se nello scrivere fosse licito quello che non e* licito nel par- lare, ne nascerebbe un inconveniente al parer mio grandis- simo, che e* che piu* licenzia usar si poria in quella cosa, nella qual si dee usar piu* studio; e la industria che si mette nello scrivere in loco di giovar nocerebbe. Pero* certo e* che quello che si conviene nello scrivere si convien ancor nel parlare ; e quel parlar e* bellissimo, che e* simile ai scritti belli. Estimo ancora che molto piu* sia necessario l'esser inteso nello scrivere che nel parlare; perche% quelli che scrivono non son sempre presenti a quelli che leggono, come quelli che parlano a quelli che"parlano. Pero* io laudarei che l'omo, oltre al 1U66 lL P d'usare e scrivendo e parlando quelle che oggidi* sono in consuetudine in Toscana e negli altri lochi della Italia, e che hanno qualche grazia nella pronuncia. E parmi che chi s'impone altra legge non sia ben sicuro di non incorrere in quella affettazione tanto biasimata, della qual dianzi dicevamo. XXX. Allora messer Federico, -- Signor Conte, -- disse, -- io non posso negarvi che la scrittura non sia un modo di par- lare. Dico ben che, se le parole che si dicono hanno in se% qualche oscurita*, quei* ragionamento non penetra nell'animo di chi ode e passando senza esser inteso, diventa vano; ii* che non interviene nello scrivere, che% se le parole che usa il sorittore portan seco un poco, non diro* di difficulta*, ma d'ac tezza reconditai, e non cosi* nota come quelle che si dicono parlando ordinariamente, da*nno una certa maggior autorita* alla scrittura e fanno che "l lettore va piu* rite- nuto e sopra di se% , e meglio considera e si diletta dello in- gegno e dottrina di chi scrive; e col bon giudicio affaticandosi un poco, gusta quel piacere che s'ha nel conseguir le cose difficili. E se la ignoranzia di chi legge e* tanta, che non possa superar quelle difficulta*, non e* la colpa dello scrittore, ne% per questo si dee stimar che quella lingua non sia bella. Pero*, ello scrivere credo io che si convenga usar le parole tosc e e solamente le usate dagli antichi Toscani, perche% quello e* gran testimonio ed approvato dal tempo che sian bone, e significative de quello perche% si dicono; ed oltre a questo hanno quella grazia e venerazion ch l'antiquita* presta non solamente alle parole, ma agli edifici, alle statue, alle pitture e ad ogni cosa che e* bastante a conservaria; e spesso solamente con quel splendore e dignita* fanno la elo- cuzion bella, dalla virtu* della quale ed eleganzia ogni subietto, per basso che egli sia, po esser tanto adomato, che merita somma laude. Ma questa vostra consuetudine, di cui voi fate tanto caso, a me par molto pericolosa e spesso po esser mala; e se qualche vicio di parlar si ritrova esser invalso in molti ignoranti, non per questo parmi che si debba pigliar per una regula ed esser dagli altri seguitato. Oltre a questo, le con- suetudini sono molto varie, ne% e* citta* nobile in Italia che non abbia diversa maniera di parlar da tutte l'altre. Pero* non vi ristringendo voi a dechiarir qual sia la megliore, potrebbe l'omo attaccarse alla bergamasca cosi* come alla florentina, e secondo voi non sarebbe error alcuno. Parmi adunque che a chi vol fuggir ogni dubbio ed esser ben sicuro, sia necessario proporsi ad imitar uno, il quale di consentimento di tutti sia estimato bono, ed averlo sempre per guida e scudo contra chi vBesse riprendere. e (nel vulgar dico) non penso che abbia da esser altro che il Petrarca e 'l Boccaccio; e chi da questi dui si discosta va tentoni, come chi camina per le tenebre senza lume e pero* spesso erra la strada. Ma noi altri siamo tanto arditi, che non degnamo di far quello che hanno fatto i boni an- il tichi, cioe* attendere alla imitazione, senza la quale estimo io che non si possa scriver bene. E gran testimonio di questo parmi che ci dimostri Virgilio; il quale, benche% con quello ingegno e giudicio tanto divino togliesse la speranza a tutti i posteri che alcun mai potesse ben imitar lui, volse pero* oimitar Omero. XXXI. Allora il signor Gaspar Pallavicino, -- Questa disputazion, -- disse, -- dello scrivere in vero e* ben degna d'esser udita; nientedimeno piu* farebbe al proposito nostro, se voi c'inse' gnaste di che modo debba parlar il cortegiano, perche% parmi che n'abbia maggior bisongo e piu* spesso gli occorra il servirsi del parlare che dello scrivere --. Rispose il Magnifico: -- Anzi a cortegian tato eccellente e cosi* perfetto non e* dubbio che l'uno e l'altro e* necessario a sapere, e che senza queste due condizioni forse tutte l'altre sariano non molto degne di laude; pero*, se il Conte vorra* satisfare al debito suo, insegnera* al cortegiao non solamente il parlare, ma ancor il scriver bene --. Allor il Conte, -- Signor Magnifico, -- disse, -- questa impresa non accettaro* io gia*, che% gran sciocchezza saria la mia voler insegnare ad altri quello che io non so; e, quando ancor lo sapessi, pensar di poter fare in cosi* poche parole quello, che con tanto studio e fatica hanno fatto a pena omini dottissimi, ai scritti de' quali rimet- terei il nostro cortegiano, se pur fossi obligato d'insegnargli a scrivere e parlare --. Disse messer Cesare: -- Il signor Magnifico intende del parlare e scriver vulgare, e non latino; pero* quelle scritture degli omini dotti non sono al proposito nostro; ma bisogna che voi diciate circa questo cio* che ne sapete, che% del resto v"averemo per escusato. -- Io gia* l'ho detto, -- rispose i*l Conte; -- ma, parlandosi della lindgua toscana, forse piu* saria debito del signor Magnifico che d'alcun altro il darne la sentenzia --. Disse il Magnifico: -- Io non posso ne% debbo ragionevohnente contradir a chi dice che la lingua toscana sia piu* bella dell'altre. E* ben vero che molte parole si ritrovano nel Petrarca e nel Boc- caccio, che or son interlassate dalla consuetudine d'oggidi*; e queste io, per me, non usarei mai ne% parlando ne% scrivendo; e credo che essi ancor, se insin a qui vivuti fossero, non le usarebbono piu* --. Disse allor messer Federico: -- Anzi le usarebbono; e voi altri, signori Toscani, dovreste rinovar la vostra lingua e non lassarla perire, come fate; che% ormai si po dire che minor notizia se n'abbia in Fiorenza, che in molti altri lochi della Italia --. Rispose allor messer Ber- nardo: -- Queste parole che non s'usao piu* in Fiorenza sono restate ne' contadini e, come corrotte e guaste dalla vecchiezza, sono dai nobili rifiutate. XXXII . Alora la signora Duchessa, -- Non usciam, -- disse, -- del primo proposito e facciam che 'l conte Ludovico insegni al cortegiano il parlare e scriver bene, e sia o toscano o come si voglia --. Rispose il Conte: -- Io gia*, Signora, ho detto L quello che ne so; e tengo che le medesime regule, che serveno ad insegnar l'uno, servano ancor ad insegnar l'altro. Ma poiche% mel commandate, rispondero* quello che m'occorre I a messer Federico, il quale ha diverso parer dal mio; e forse mi bisognera* ragionar un poco piu* diffusamente che non si conviene; ma questo sara* quanto io posso dire. E primamente dico che, secondo il mio giudicio, questa nostra lingua, che noi chiamiamo vulgare, e* ancor tenera e nova, benche% gia* gran tempo si costumi; perche%, per essere stata la Italia non solamente vessata e depredata, ma lungamente abitata da' barbari, per lo commerzio di quelle nazioni la lingua latina s'e* corrotta e guasta, e da quella corruzione son nate altre lingue; le quai, come i fiumi che dalla, cima dell'Appennino fanno divorzio e scorrono nei dui mari, cosi* si son esse ancor divise ed alcune tinte di latinita* pervenute per diversi ca- mini qual ad una parte e quale ad altra, ed una tinta di bar- barie rimasta in Italia. Questa adunque e* stata tra noi lun- gamente incomposta e varia, per non aver avuto chi le abbia posto cura, ne% in essa scritto, ne% cercato di darle splendor o grazia alcuna; pur e* poi stata alquato piu* culta in Toscana, che negli altri lochi della Italia; e per questo par che 'l suo fiore insino da que' primi tempi qui sia rimaso, per aver servnato quella nazion gentil accenti nella pronunzia ed ordine grammaticale in quello che si convien, piu* che l'altre; ed aver avuti tre nobili scrittori, i quali ingeniosamente e con quelle parole e termini che usava la consuetudine de' loro tempi hano espresso i lor concetti; il che piu* felicemente che agli altri, al parer mio, e* successo al Petrarca nelle cose amorose. Nascendo poi di tempo in tempo, non solamente in Toscana ma in tutta la Italia, tra gli omini nobili e ver- sati nelle corti e nell'arme e nelle lettere, qualche studio di parlare e scrivere piu* elegantemente, che non si faceva in quella prima eta* rozza ed inculta, quando lo incendio delle calamita* nate da' barbari non era ancor sedato, sonsi lassate molte parole, cosi nella citta* propria di Fiorenza ed in tutta la Toscana, come nel resto della Italia, ed in loco di quelle riprese dell'altre, e fattosi in questo quella mutazion che si fa in tutte le cose umane io; il che e* intervenuto sempre ancor delle altre lingue. Che% se quelle prime scritture antiche latine fossero durate insino ad ora, vederemmo che altra- mente parlavao Evandro e Turno e gli altri Latini di que' tempi, che non fecero poi gli uItomi re romani e i primi consuli. Eccovi che i versi che cantavao i Salii pena erano dai posteri intesi; ma, essendo di quel modo dai primi institutori ordinati, non si mutavao per riverenzia della religione. Cosi* successivamente gli oratori e i poeti adarono lassando molte parole usate dai loro antecessori; che% Ani- tonio, Crasso, Ortensio, Cicerone fuggivano molte di quelle di Catone e Viregilio molte d'Ennio; e cosi* fecero gli altri; che, ancor che avessero riverenzia all'antiquita*, non la estimavan pero* tanto, che volessero averle quella obligazion che voi volete che ora le abbiam noi; anzi, dove lor parea, la biasmavano: come Orazio, che dice che i suoi antichi aveano scioccamente laudato Plauto e vol poter acquistare nove parole. E Cicerone in molti lochi riprende molti suoi antecessori; e per biasmare Sergio Galba afferma che le orazioni sue aveano dell'antico; e dice che Ennio ancor sprezzo* in alcune cose i suoi ate- cessori, di modo che, se noi vorremo imitar gli antichi, non gli imitaremo. E Virgilio, che voi dite che imito* Omero, non lo imito* nella lingua. XXXIII. Io adunque queste parole antiche, quanto per me, fuggirei sempre di usare, eccetto pero* che in certi lochi, ed in questi ancor rare volte; e parmi che chi altrimente le usa faccia errore, non meno che chi volesse, per imitar gli antichi, nutrirsi ancora di ghiande, essendosi gia* trovata copia di grano. E perche% voi dite che le parole antiche solamente con quel splendore d'antichita* adoman tanto ogni subietto, per basso ch%egli sia, che possono farlo degno di molta laude, io dico che non solamente di queste parole atiche, ma ne% ancor delle bone a faccio tanto caso, ch%estimi debbano senza %l suco delle belle sentenzie esser prezzate ragionevolmente; perche% il divider le-sentenzie dalle parole e* un divider l%anima dal corpo: la qual cosa ne% nell%uno ne% nell%altro senza distru- zione far si po. Quello adunque che principalmente importa ed e* necessario al cortegiano per parlare e scriver bene, estimo io che sia il sapere; perche% chi non sa e nell%animo non ha cosa che meriti esser intesa, non po ne% dirla ne% scri- verla. Appresso 0 bisogna dispor con bell%ordine quello che si ha a dire o scrivere; poi esprimerlo ben con le parole : le quali, s%io non m%inganno, debbono esser proprie, elette, splendide e ben composte, ma sopra tutto usate ancor dal populo; perche% quelle medesime fanno la grandezza e pompa dell%orazione, se colui che parla ha bon giudicio e diligenzia e sa pigliar le piu* significative di cio* che vol dire ed inalzarle, e come cera formandole ad arbitrio suo collo- carle in tal parte e con tal ordine, che al primo aspetto mostrino e faccian conoscer la dignita* e splendor suo, come tavole di pittura poste al suo bono e natural lume. E questo cosi* dico dello scrivere, come del parlare; al qual pero* si richiedono alcune cose che non son necessarie nello scrivere: come la voce bona, non troppo sottile o molle come di femina, ne% ancor tanto austera ed orrida che abbia del rustico, ma sonora, chiara, soave e ben composta, con la pronunzia espedita e coi modi e gesti convenienti; li quali, al parer mio, consistono in certi movimenti di tutto %l corpo, non affettati ne% violenti, ma temperati con un volto accommodato e con un mover d%occhi che dia grazia e s%ac- cordi con le parole, e piu* che si po significhi ancor coi gesti la intenzione ed affetto di colui che parla. Ma tutte queste cose sarian vane e di poco momento, se le sentenzie espresse dalle parole non fossero belle, ingeniose, acute, elegati e gravi, secondo %l bisogno. XXXIV. -- Dubito, -- disse allora il signor Morello, -- che se questo cortegiano parlera* con tanta eleganzia e gravita*, fra noi si trovaranno di quei che non lo intenderanno. -- Anzi da ognuno sara* inteso, -- rispose il Conte, -- perche% la facilita* non impedisce la eleganzia. Ne% io voglio che egli parli sempre in gravita*, ma di cose piacevoli, di giochi, di motti e di burle, secondo il tempo; del tutto pero* sensatamente e con pron- tezza e copia non confusa; ne% mostri in parte alcuna vanita* o sciocchezza puerile. E quando poi parlera* di cosa oscura o difficile, voglio che e con le parole e con le sentenzie ben distinte esplichi sottilmente la intenzion sua, ed ogni ambi- guita* faccia chiara e piana con un certo* modo diligente senza molestia. Medesimamente, dove occorrera*, sappia parlar con dignita* e veemenzia, e concitar quegli affetti che hanno in se% gli animi nostri, ed accenderli o moverli secondo il bisogno; talor con una simplicita* di quel candore che fa parer che la natura istessa parli, intenerirgli e quasi inebbriargli di dolcezza, e con tal facilita*, che chi ode estimi ch%egli ancor con- pochissima fatica potrebbe conseguir quel grado, e quando ne fa la prova si gli trovi lontanissimo. Io vorrei che %l nostro cortegiano parlasse e scrivesse di tal maniera, e non solamente pigliasse parole splendide ed ele- ganti d%ogni parte della Italia, ma ancora laudarei che talor usasse alcuni di quelli termini e franzesi e spagnoli, che gia* sono dalla consuetudine nostra accettati. Pero* a me non dispia- cerebbe che, occorrendogli, dicesse primor; dicesse accertare, avventurare; dicesse ripassare una persona con ragionamento, volendo intendere riconoscerla e trattarla per aveme perfetta notizia; dicesse un caualier senza rimproccio, attillato, creato d%un principe ed altri tai termini, pur che sperasse esser inteso. Talor vorrei che pigliasse alcune parole in altra significazione che la lor propria e traportandole a pro- posito, quasi le inserisse come rampollo d%albero in piu* felice tronco, per farle piu* vaghe e belle, e quasi per accostar le cose al senso degli occhi propriie, come si dice, farle toccar con mano, con diletto di chi ode o legge. Ne% vorrei che temesse di formame ancor di nove e con nove figure di dire, dedu- cendole con bel modo dai Latini, come gia* i Latini le dedu- cevano dai Greci. XXXV. Se adunque degli omini litterati e di bon ingegno e giudicio, che oggidi* tra noi si ritrovano, fossero alcuni, li quali ponessino cura di scrivere% del modo che s%e* detto in questa lingua cose degne d%esser lette, tosto la vederes- simo culta ed abundante de termini e belle figure, e capace che in essa si scrivesse cosi* bene come in qualsivoglia altra; e se ella non fosse pura toscana antica sarebbe italiana, commune, copiosa e varia, e quasi come un delicioso giar- dino pien di diversi fiori e frutti. Ne* sarebbe questo cosa nova; perche% delle quattro lingue che aveano in consuetu- dine, i scrittori greci, elegendo da ciascuna parole, modi e figure, come ben loro veniva, ne facevano nascere un%altra che si diceva commune, e tutte cinque poi sotto un solo nome chiamavano lingua greca; e benche% la ateniese fosse elegante, pura e facunda piu* che l%altre, i boni scrittori che non erano di nazion ateniesi, non la affettavan tato, che nel modo dello scrivere e quasi all%odor e proprieta* del suo natural parlare non fossero con ciuti; ne% per questo pero* eran sprezzati; anzi quei che vol van parer troppo ateniesi, ne rapportavan biasimo. Tra i scrittori latini acor furono in prezzo a% suoi di* molti non romani, benche% in essi non si vedesse quella% Purita* propria della lingua romana, che rare volte possono acquistar quei che son d%altra nazioue. Gia* non fu rifutato Tito Livio, ancora che colui dicesse aver trovato in esso la patavinita*, ne% Virgilio, per esser stato ripreso che non parlava romao; e, come sapete, furono ancor letti ed estimati in Roma molti scrittori di nazione barbari. Ma noi, molto piu* severi che gli antichi, imponemo a noi stessi certe nove leggi fuor di proposito, ed avendo inanzi agli occhi le strade battute, cerchiamo andar per diverticuli; perche% nella nostra -lingua propria, della quale, come di tutte l%altre, l%officio e* esprimer bene e chiaramente i concetti dell%animo, ci dilettiamo della oscurita*. e, chia- mandola lingua vulgare, volemo in essa usar parole che non solamente non son dal vulgo, ma ne% ancor dagli omini nobili e litterati intese, ne% piu* si usano in parte alcuna; senza aver rispetto che tutti i boni antichi biasmano le parole rifutate dalla consuetudine. La qual voi, al parer mio, non cono- scete bene; perche% dite che, se qualche vicio di parlare e* invalso in molti ignoranti, non per questo si dee chiamar consuetudine, ne% esser accettato per una regula di parlare; e secondo che altre volte vi ho udito dire, volete poi che in loco de Capitolo si dica Campidoglio; per Ieronimo, Giro- lamo; aldace per audace; e per patrone, padrone , ed altre tai parole corrotte e guaste perche% cosi* si trovan scritte da qualche antico Toscano ignorante e perche% cosi* dicono oggidi* i contadini toscani. La bona consuetudine adunque del parlare credo io che nasca dagli omini che hanno ingegno e che con la dottrina ed esperienzia s%hanno guadagnato il bon giudicio, e con quello concorrono e consentono ad accettar le parole che lor paion bone, le quali si conoscono per un certo giudicio naturale e non per arte o regula alcuna. Non sapete voi che le figure del parlare, le quai da*nno tanta grazia e splendor alla orazione, tutte sono abusioni delle regule grammaticali, ma accettate e confirmate dalla usanza, perche%, senza poterne render altra ragione, piaceno ed al senso proprio dell%orecchia par che portino suavita* e dolcezza? E questa credo io che sia la bona consuetudine; della quale cosi* possono essere capaci i Romani, i Napole- tani, i Lombardi e gli altri, come i Toscani. XXXVI. E* ben vero che in ogni lina alcune cose sono sempre bone, come la facilita*, il bell%ordine, l%abundanzia, le belle sentenzie, le clausule numerose; e, per contrario, l%affetta- zione e l%altre cose opposite a queste son male. Ma delle parole son alcune che durano bone un tempo, poi s%invec- chiano ed in tutto perdono la grazia; altre piglian forza e vengono in prezzo perche%, come le stagioni dell%anno spogliao de% fiori e de% frutti la terra e poi di novo d%altri la rivesteno, cosi* il tempo quelle prime parole fa cadere e l%uso altre di novo fa rinascere e da* lor grazia e dignita*, fin che, dall%invidioso morso del tempo a poco a poco con- sumate, giungono poi esse ancora alla lor morte; percio* che, al fine, e noi ed ogni nostra cosa e* mortale. Considerate che della lingua osca non avemo piu* notizia alcuna. La provenzale, che pur mo, si po dir, era celebrata da nobili scrittori, ora dagli abitanti di quel paese non e* intesa. Penso adunque, come ben ha detto il signor Magnifico, che se %l Petrarca e %i* Boccaccio fossero vivi a questo tempo, non usariano molte parole che vedemo ne% loro scritti: pero* non mi par bene che noi quelle imitiamo. Laudo ben somma- mente coloro che sanno imitar quello che si dee imitare; nientedimeno non credo io gia* che sia impossibile scriver bene ancor senza imitare; e massimamente in questa nostra lingua, nella quale possiam esser dalla consuetudine aiutati; il che non ardirei dir nella latina. XXXVII. Allor messer Federico, -- Perche% volete voi, -- disse, -- che piu* s%estimi la consuetudine nella vulgare che nella la- tina? -- Anzi, dell%una e dell%altra, -- rispose il Conte, -- estimo che la consuetudine sia la maestra. Ma perche% qruegli omini, ai quali la lingua latina era cosi* propria come or e* a noi la vulgare, non sono piu* al mondo, bisogna che noi dalle lor scritture impariamo quello, che essi aveano impa- rato dalla consuetudine; ne% altro vol dir il parlar antico che la consuetudine antica di parlare; e sciocca cosa sarebbe amar ii* parlar antico non per altro, che per voler piu* presto parlare come si parlava, che come si parla. -- Dunque, -- rispose messer Federico, -- gli antichi non imitavano? -- Credo, -- disse il Conte, -- che molti imitavano, ma non in ogni cosa. E se Virgilio avesse in tutto imitato Esiodo, non gli seria passato inanzi; ne% Cicerone a Crasso, ne% Ennio ai suoi antecessori. Eccovi che Omero e* tanto antico, che da molti si crede che egli cosi sia il primo poeta eroico di tempo, come ancor e* d%eccellenzia di dire; e chi vorrete voi che egli imitasse? -- Un altro, -- rispose messer Federico, -- piu* antico di lui, del quale non avemmo notizia per la troppo antiquita*. -- Chi direte adunque, -- disse il Conte, -- che imitasse il Petrarca e %l Boccaccio, che pur tre giomi ha si po dir, che son stati al mondo? -- Io nol so, -- rispose messer Federico; -- ma creder si po che essi ancor avessero l%animo indrizzato alla imitazione, benche* noi non sappiam di cui --. Rispose il Conte: -- Creder si po che que% che erano imitati fossero migliori che que% che imitavano; e troppo maraviglia saria che cosi* presto il lor nome e la fama, se eran boni, fosse in tutto spenta. Ma il lor vero maestro cred%io che fosse l%ingegno ed il lor proprio giudicio naturale; e di questo niuno e* che si debba maravigliare, perche% quasi sempre per diverse vie si po tendere alla som- mita* d%ogni eccellenzia. Ne% e* natura alcuna che non abbia in se% molte cose della medesima sorte dissimili l%una dal- l%altra, le quali pero* son tra se% di equal laude degne. Vedete la musica, le armonie della quale or son gravi e tarde, or velocissime e di novi modi e vie; nientedimeno tutte dilet- tano, ma per diverse cause, come si comprende nella maniera del catare di Bidon, la qual e* tanto artificiosa, pronta, veemente, concitata e de cosi* varie melodie, che i spirti di chi ode tutti si commoveno e s%infiammano e cosl sospesi par che si levino insino al cielo. Ne% men Commove nel suo catar il nostro Marchetto Cara, ma con piu* molle ar- monia; che% per una via placida e piena di flebile dolcezza intenerisce e penetra le anime, imprimendo in esse soave- mente una dilettevole passione. Varie cose ancor egualmente piacciono agli occhi nostri, tanto che con difficulta* giudicar si po quai piu* lor sian grate. Eccovi che nella pittura sono eccellentissimi Leonardo Vincio, il Mantegna, Rafaello, Michel Angelo, Georgio da Castel Franco: nientedimeno, tutti son tra se% nel far dissimili, di modo che ad alcun di loro non par che manchi cosa alcuna in quella maniera, perche% si conosce ciascun nel suo stilo esser perfettissimo. Il medesimo e* di molti poeti greci e latini, i quali, diversi nello scrivere, sono pari nella laude. Gli oratori ancor hanno avuto sempre tanta diversita* tra se%, che quasi ogni eta* ha produtto ed apprezzato una sorte d%oratori peculiar di que*l tempo; i quali non solamente dai precessori e suc- cessori suoi, ma tra se% son stati dissimili, come si scrive ne% Greci di Isocrate, Lisia, Eschine e molt%altri, tutti - eccellenti, ma a niun pero* simili forche% a se stessi. Tra i Latini poi quel Carbone, Lelio, Scipione Affricano, Galba, Sulpizio, Cotta, Gracco, Marc%Antonio, Crasso e tanti che saria lungo nominare, tutti boni e l%un dall%altro diversissimi; di modo che chi potesse considerar tutti gli oratori che son stati al mondo, quanti oratori tante sorti di dire trovarebbe. Parmi ancor ricordare che Cicerone in un i*oco introduca Marc%Antonio dir a Sulpizio che molti sono i quali non imitao alcumo e nientedimeno pervengono, al sommo grado della eccellenzia; e parla di certi, i quali aveao introdutto una nova forma e figura di dire, bella, ma inusitata agli altri oratori di quel tempo, nella quale non imitavano se non se stessi; pero* afferma ancor che i maestri debbao considerar la natura dei discipuli e, quella tenendo per guida, -indrizzargli ed aiutargli alla via, che lo Ingegno loro e la natural disposizion gli inclina. Per questo adunque, messer Fredrico mio, credo, se l%omo da se% non ha convenienzia con qualsivoglia autore, non sia ben sfor- zarlo a quella imitazione; perche% la virtu* di quell%ingegno s%ammorza e resta impedita, per esser deviata dalla strada nella quale avrebbe fatto profitto, se non le fosse stata precisa. Non so adunque come sia bene, in loco d%arricchir questa lingua e darle spirito, grandezza e lume, farla povera, esile, umile ed oscura e cercare di metterla in tante an- gustie, che ognuno sia sforzato ad imitare solamente il pe- trarca e %l Boccaccio; e che nella lingua non si debba ancor credere al policiano, a Lorenzo de% Medici, a Francesco Diaceto e ad alcuni altri che pur sono toscani, e forse di non minor dottrina e giudicio che si fosse il Petrarca e %l Boccaccio. E veramente gran miseria saria metter fine e non passar piu* avanti di quello che si abbia fatto quasi il primo che ha scritto, e disperarsi che tanti e cosi* nobili ingegni possano mai trovar piu* che una forma bella di dire in quella lingua, che ad essi e* propria e naturai*e. Ma oggidi* son certi scrupolosi, i quali, quasi con una religion e misterii ineffabili di questa lor lingua toscana, spaventano di modo chi gli ascolta, che inducono ancor molti omini nobili e litterati in tanta timidita*, che non osano aprir la bocca e confessano di non saper parlar quella lingua, che hanno imparata dalle nutrici insino nelle fasce. Ma di questo parmi che abbiam detto pur troppo; pero* seguitiamo ormai il ragionamento del cortegiano. XXXVIII. Allora messer Federico rispose: -- Io vogi*io pur ancor dir questo poco: che e* ch%io gia* non niego che le opinioni e gli ingegni degli omini non siano diversi tra se%, ne% credo che ben fosse che uno, da natura veemente e concitato, si mettesse a scrivere cose placide, ne% meno un altro, severo e grave, a scrivere piacevolezze: perche% in questo parmi ragionevole che ognuno s%accommodi allo instinto suo pro- prio. E di cio*, credo, parlava Cicerone quando disse che i maestri avessero riguardo alla natura dei discipuli per non fare come i mal agricultori, che talor nel terreno che solamente e* fruttifero per le vigne vogliano seminar grano. Ma a me non po caper nella testa che d'una lingua particu- lare, la quale non e* a tutti gli omini cosi propria come i discorsi ed i pensieri e molte altre operazioni, ma una inven- zione contenuta sotto certi termini, non sia piu* ragionevole imitar quelli che parlan meglio, che parlare a caso e che, cosi* come nel latino l'omo si dee sforzar di assimigliarsi alla lingua di Virgilio e di Cicerone, piu* tosto che a quella di Silio o di Comelio Tacito, cosi nel vulgar non sia meglio imitar quella del Petrarca e del Boccaccio, che d"alcun altro; ma ben in essa esprimere i suoi proprii concetti ed in questo attendere, come insegna Cicerone, allo instinto suo naturale; e cosi* si trovera* che quella differenzia che voi dite essere tra i boni oratori, consiste nei sens e non nella lingua --. Allor il Conte, -- Dubito, -- disse, -- che noi entraremo in un gran pelago e lassaremo il nostro primo proposito del cortegano. Pur domando a voi: in che consiste la bonta* di questa lingua? -- Rispose messer Federico: -- Nel servar ben le proprieta* di essa e to#rla in quella signi- ficazione, usando quello stile e que' numeri che hanno fatto tutti quei che hanno scritto bene. -- Vorrei, -- disse il Conte, -- sapere se questo stile e questi numeri di che voi parlate, nascano dalle sentenzie o dalle parole. -- Dalle parole, -- rispose messer Federico. -- Adunque, -- disse il Conte, -- a voi non par che le parole di Silio e di Comelio Tacito siano quelle medesime che usa Virgilio e Cicerone, ne% tolte nella medesima significazione? -- Rispose messer Federico: -- Le medesime son si*, ma alcune mal osservate e tolte diversamente. -- Rispose il Conte: -- E se d'un libro di Coruelio e d'un di Silio si levassero tutte quelle parole che son poste in altra significazion di quello che fa Virgilio e Cicerone, che seriano pochissime, non direste voi poi che Cornelio nella lingua fosse pare a Cicerone, e Silio a Vir- gilio? e che ben fosse imitar quella maniera del dire? XXXIX. Allor la signora Emilia, -- A me par, -- disse, -- che questa vostra disputa sia mo troppo lunga e fastidiosa; pero* fia bene a differirla ad un altro tempo --. Messer Fede- rico pur incominciava a rispondere; ma sempre la signora Emilia lo interrompeva. In ultimo disse il Conte: -- Molti vogliono giudicare i stili e parlar de' numeri e della imita- zione; ma a me non sanno gia* essi dare ad intendere che cosa sia stile ne% numero, ne% in che consista la imitazione, ne% perche% le cose tolte da Omero o da qualche altro stiano tanto bene in Virgilio, che piu* presto paiano illustrate che imitate; e cio* forse procede ch'io non son capace d'in- tendergli. Ma perche% grande argumento che l'om sappia una cosa e* il saperla insegnare, dubito che essi ancora poco la intendano; e che e Virgilio e Cicerone laudino perche% sentono che da molti son laudati, non perche% conoscano la differenzia che e* tra essi e gli altri; che% in vero non consiste in avere una osservazione di due, di tre o di dieci parole usate a modo diverso dagli altri. In Salustio, in Cesare, in Varrone e negli altri boni si trovano usati alcuni termini diversamente da quello che usa Cicerone; e pur l'uno e l'altro sta bene, perche% in cosi frivola cosa non e* posta la bonta* e forza d'una lingua, come ben disse Demostene ad Eschine che lo mordeva, domandandogli d'alcune parole le quali egli aveva usate, e pur non erao attiche, se erano monstri 0 portenti; e Demostene se ne rise, e risposegli che in questo non consistevao le fortune di Grecia. Cosi* io ancora poco mi curarei, se da un toscano fossi ripreso d"aver detto piu* tosto satisfatto che odisfatto, ed onoreuole che orreuole, e causa che cagione, e populo che popolo, ed altre tai cose --. Allor messer Federico si levo* in pie* e disse: -- Ascoltatemi, prego, queste poche parole --. Rispose ridendo la signora Emilia: -- Pena la disgrazia mia a qual di voi per ora parla piu* di questa materia, perche% voglio che la rimettiamo ad un'altra sera. Ma voi, Conte, seguitate il ragionamento del cortegiano; e mostrateci come avete bona memoria, che%, credo, se saprete ritaccarlo ove lo lassaste, non farete poco. -- Signora, -- rispose il Conte, -- il filo mi par tro pur, s'io non m'inganno credo che dicevamo che somma disgrazia a tutte* le cose da* sempre la pestifera affettazione e per contrario grazia estrema la simplicita* e la sprezzatura- a laude della quale e biasmo della affettazione molte altre cose ragionar si potrebbono; ma io una sola ancor dir ne voglio, e non piu*. Gran desiderio universalmente tengon tutte le donne di essere e, quando esser non possono, almen di parer belle; pero*, dove la natura in qualche parte in questo e* mancata, esse si sforzano di supplir con l'artificio. Quind nascre l'acconciarsi la faccia con l'artificio. Quindi pelarsi le ciglia e la fronte, ed usar tutti que' modi e patire que' fastidi, che voi altre done credete che agli omini siano molto secreti, e pur tutti si sanno-. Rise quivi Ma donna Constanza Fregosa e disse:-Voi fareste assai piu* cortesmente seguitar il ragionamento vostro e dir onde nasca la bona grazia e parlar della cortegiana, che voler scoprir i diffetti delle donne senza proposito. Anzi molto a proposito,-rispose il Conte;-perche* questi vostri diffetti di che io parlo vi levano la grazia, perche* d'altro non nascono che da affettazione, per la qual fate conoscere ad ognuno scopertamente il troppo desiderio vostro d'esser belle. Non vi accorgete voi, quanto piu* di grazia tenga una donna, la qual, se pur si acconia, lo fa cosi parcamente e cosi poco, che chi la vede sta in dubbio s'ella e* concia o no, che un'altra, empiastrata tanto, che paia aversi posto alla faccia una maschera, e non osi ridere per non farsela crepare, ne* si muti mai di colore se non quando la mattina si veste; e poi tutto il remanente del giorno stia come s-I d- 1 immobile, comparendo solamente a lume di torze 7 o come mostrano i cauti mercatanti i lor panni, in loco oscuro? Quanto piu* poi di tutte piace una, dico, non brutta che si conosca chiaramente non aver cosa alcuna in su la faccia, benche non sia cosi bianca ne% cosi rossa, ma col suo color nativo pallidetta e talor per vergogna o per altro accidente tinta d'un ingenuo rossore, coi capelli a caso inomati 8 e mal composti e coi gesti simplici e naturali, senza mostrar imdustria ne% studio d'esser bella? Questa e quella sprezzata purita* gratissima agli occhi ed agli animi umani, i quali sempre temono essere dall'arte ingannati. piacciono molto in una donna i bei denti, perche% non essendo cosi scoperti come la faccia, ma per -lo piu del tempo stando nascosi, reder si po che non vi si ponga tanta cura per fargli belli, come nel volto; pur chi ridesse senza proposito e solamente er mostrargli, scopriria l'arte e, benche% belli gli avesse, a tutti pareria disgraziatissimo 9, come lo Egnazio catul- iano io. Il medesimo e delle mani; le quali, se delicate e belle sono, mostrate ignude a tempo, secondo che occorre ope- arle, e non per far veder la lor bellezza, lasciano di se% gran- dissimo desiderio e massimamente revestite di guanti; perche% ar che chi le ricopre non curi e non estimi molto che siano vedute o no, ma cosi* belle le abbia piu* per natura che per tudio o diligenzia alcuna. Avete voi posto cura talor, quando, 0 per le strade andando alle chiese o ad altro loco, o giocando per altra causa, accade che una donna tanto della robba si levaii, che il piede e spesso un poco di gambetta senza ensarvi mostra? non vi pare che grandissima grazia tenga, se ivi si vede con una certa donnesca disposizione leggiadra 7. Torce. d ttill t i i hi in ttiiz divelluto e c iz lit i3? Certo a me piace egli molto e credo a tutti voi altri, perche ognun estima che la attilatura in parte cosi* nascosa e rare volte veduta, sia a quella donna piu* tosto naturale e propria che sforzata, e che ella di cio* non pensi acquistar laude alcuna. XLI. In tal modo si fugge e nasconde l'affettazione, la qual or potete comprender quanto sia contraria, e levi la grazia d'ogni operazion cosi* del corpo come dell'animo i; del quale per ancor 2 poco avemo parlato, ne% bisogna pero lasciarlo; che% si* come l'animo piu* degno e* assai che 'l corpo, cosi ancor merita esser piu culto e piu* omato. E cio* come far si debba nel nostro cortegiao, lasciando li precetti di tanti savi filosofi 3, che di questa materia scrivono e diffiniscono le alrtu* dell'anodo e cosi* sottilinente disputao della dignit~ di quelle, diremo in poche parole, attendendo al nostro proposito, bastar che egli sia, come si dice, omo da bene fortezza e temperanzia d'animo e tutte l'altre condizioni solo esser vero filosofo morale, che vol esser bono; ed a cio gli bisognano pochi altri precetti, che s tal volunta*. E pero* ben dicea Socrate 6 parergli che gi*i ammaestramenti suoi gia* avessino fatto bon frutto, quando per quelli 7 chi si fosse 8 si incitava a voler conoscer ed oimparar la virt*; perche% quelli che son giunti a termine 9 che non desiderano cosa alcuna piu* che l'essere boni, facilmente conseguono la scienzia di tutto quello che a cio* bisogna io; pero* di questo non ragio- 1 naremo piu* avanti. XLII. Ma, oltre alla bonta*, il vero e principal omamento del- l'animo in ciascuno penso io che siano le letterei, benche% i Franzesi solamente conoscano la nobilita* delle arme e tutto il resto nulla estimino 2; di modo che non solamente non apprezzano le lettre, ma le aborriscono, e tutti e litte- rati tengon per vilissimi omini; e pare lor dir gran villania a chi si sia, quando lo chiamano clero 3 --. Allora il Magni- fico Iuliao, -- Voi dite il vero, -- rispose, -- che questo errore 4 gia gran tempo regna tra' Franzesi; ma se la bona sorte vole che monsignor d'Angolem s, come si spera, succeda alla corona 6, estimo che si come la gloria dell'arme fiorisce e risplende in Francia, cosi* vi debba ancor con supremo L omamento fiorir quella delle lettere; perche non e* molto ch'io, ritrovandomi alla corte 7, vidi questo signore e parvemi che, oltre alla disposizion 8 della persona e bellezza di volto, avesse nell"aspetto tanta grandezza, congiunta pero con una certa graziosa umanita* 9, che 'l reame di Francia gli dovesse sempre parer poco io. Intesi da poi da molti gentilomini, e franzesi ed italiani, assai dei nobilissimi costumi suoi, della grandezza dell'animo, del valore e della liberalita; e tra l'altre cose fummi detto che egli sommamente amava ed estimava le lettere ed avea in grandissima osservanziaii tutti e litterati; e dannava i Franzesi proprii dell'esser tanto alieni da questa professione, avendo massimaniente in casa un cosi nobil studioi2 come e quello di Parigi, dove tutto il mondo i3 concorre --. Disse allor il Conte: -- Gran maraviglia e* che in cosi* tenera eta*, solamente per instinto costumi de' superiori )s po esser che, come voi dite, i Fran- zesi siano ancor per estimar le lettere di quella dignita* che sono; il che facilmente, se vorranno intendere, si potra lor persuadere, perche% niuna cosa piu* da natura e desidera- bile agli omini ne% piu* propria che il sapere 16; la qual cosa gran pazzia e* ire o credere che non sia sempre bona. 1 . XLIII. 9 s'io parlassi con essi o con altri che fosseno d'opinion contraria alla mia, mi sforzarei mostrar loro quanto le lettere, le quali veramente da Dio son state agli omini con- cedute per un supremo dono i, siano utili e necessarie alla vita e dignita* nostra; ne% mi mancheriano esempi di tanti eccellenti capitani antichi, i quali tutti giunsero 2 l'oma- mento delle lettere alla virtu dell'arme. Che%, come sapete, Alessandro ebbe in tanta venerazione Omero 3, che la IlfQde sempre si teneva a capo del letto; e non solamente a questi studi, ma We speculazioni filosofice diede gradisseima opera sotto la disciplina d'Aristotele. Alcibiade le bone condinioni sue accrebbe e fece maggiori con le lettere e con gli ammaestramenti di Socrate 4. Cesare quanta opera desse ai studi, ancor fanno testimonio quelle cose s che da esso divvinamente scritte si ritrovano. Scipion Affricano dicesi che mai di mano non si levava i libri di Senofonte 6, dove insti- tuisce sotto 'l nome di Ciro un perfetto re 7. Potrei d-irvi di Lucullo 8, di Silla 9, di Pompeo 10, di Bruto 11 e dl molt'al- tri Romani e Greci; ma solamente ricordaro* che ani- bale 12, tanto eccellente capitano, ma pero di natura feroce ed alieno da ogni umanita*, infidele e despregiator degli omini e degli dee, pur ebbe notizia di lettre e cognizion della lingua greca; e, s'io non erro, parmi aver letto gia* che esso un libro pur in lingua greca lascio da se% composto 13. Ma questo dire a voi e* superfluo, che% ben so io che tutti conoscete quanto s'ingannano i Francesi pensando che le lettre nuocciano all'arme. Sapete che delle cose grandi ed arrischiate nella guerra il vero stimulo e* la gloria14; e chi per guadagno o per altra causa a cio* si move, oltre che mai non fa cosa bona, non merita esser chiamato gentilomo, ma vilvilssimo mercante. E che la vera gloria sia quella che si commenda 15 al sacro tesauro delle lettre, ognuno po com- prendere, eccetto quegli infelici che gustate non l'hanno. ual animo e cosi demesso 16, tmiido ed um1le, che leggendo 1 atti e le grandezze di Cesare, d'alssandro, di Scipione, 1 Annibale e di tanti altri, non s'infiammi d'un ardentis- o desiderio d'esser simile a queui e non posponga questa -ta caduca di dui gomi per acquistar quella famosa quasi rpetua 17, la quale, a dlspetto della morte, viver lo fa piu* eiaro assai che pri? Ma chi non sente la dolcezza delle -- tere, saper acor non po quata sia l grandezza della loria cosi* lungamente da esse conservata, e solamente quella isura con la eta d'un qmo, o di dul, perche di piu* oltre non .en memoria; pero* questa breve tanto estimar non po, anto faria quella quasi perpetua, se per sua desgrazia on gli fosse vetato 18 il conoscerla; e non estinandola tanto, gionevol cosa e* ancor credere che tanto non si metta a ericulo per conseguirla come chi la conosce. Non vorrei a* che qualche avversario mi adducesse gli effetti contran er rifutar la mia opinione, allegandomi gli Italiani col r saper lettere aver mostrato poco valor nell'arme da un empo in qua19, il che pur troppo e* piu* che vero; ma certo n si poria dir la colpa d'alcuni pochi aver dato, oltre al ;rave danno, perpetuo biasmo a tutti gli altri, e la vera usa delle nostre ruine e della virtu prostrata, se non morta, iegli -ami nostri, esser da quelli proceduta; ma assai piu* noi saria vergognoso il publicarla 20, che a' Franzesi il ion saper lettere. Pero meglio e passar con silenzio quello e senza dolor ricordar non si po 21; e, fuggendo questo proposito, nel quale contra mia voglia entrato sono, tornar al nostro cortegiano. XLIV. Il qual voglio che nelle lettre sia piu che mediocremente emdito, almeno in questi studi che chiamano d'umanita* i; e non solamente della lingua latina, ma ancor della greca abbia cognizione, per le molte e varie cose che in quella divinamente scritte sono 2. Sia versato nei poeti e non meno negli oratori ed istorici ed ancor esercitato nel scriver versi e prosa, massimamente in questa nostra lingua vulgareI che%, oltre al contento che egli stesso pigliara*, per questo mezzo non gli mancheran mai piacevoli intertenimenti con donne 3, le quali per ordinario amano tali cose. E se, o per altre facende o per poco studio, non giungera* a tal perfe- zione 4 che i suoi scritti siano degni di molta laude, sia cauto in supprimergli 5 per non far ridere altuni di se%, e soIa- mente 16 mostri ad amico 7 di chi 8 fidar si possa; perche% alrneno in tanto li giovaranno, che per quella esercitazion ) sapra* giudicar le cose altrui9; che% invero rare volte interviene I che chi non e assueto 10 a scrivere, per erudito che egli sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed industrie -' de' scrittori, ne% gustar la dolcezza ed eccellenzia de' stili. " e quelle intrinseche awertenzie ii che spesso si trovano ne li antichi- Ed oltre a cio, farannolo questi studi copioso e, come rispose Aristippo 12 a quel tiranno 13 ardito in parlar sicuramente con ognuno. Voglio ben pero* che 'l nostro cortegiano fisso si tenga nell'animo un precetto: cioe* che in -- questo ed in ogni altra cosa sia sempre awertito 14 e timido piu presto 15 che audace, e gardi diinon persuadersi falsa- mente di saper quello che non sa: perche% da natura tutti siamo avidi troppo piu che non si devria di laude, e piu amao le orecchie nostre la melodia delle parole che ci laudano, che qualunque altro soavissimo canto o suono; e pero spesso, come voci di sirene 16, sono causa di sommergere chi a tal fallace armonia bene non se le ottura. Conoscendo questo pericolo, si e* ritrovato tra gli antichi sapienti chi ha scritto tbri, in qual modo possa l'omo conoscere il vero amico dal- l'adulatore 17. Ma questo che giova, se molti, anzi infiniti son quelli che manifestamente comprendono esser adulati, e pur amano chi gli adula ed hanno in odio chi dice lor il vero 18? e spesso, parendogli che chi lauda sia troppo parco in dire, essi medesimi lo aiutano e di se stessi dicono tali cose, che lo impudentissirno adulator se ne vergoga? La- sciamo questi ciechi nel lor errore e facciamo che "l nostro cofiegiao sia di cosi bon gudicio, che non si lasci dar ad intendere il nero per lo bianco, ne% presuma di se%, se non quanto ben chiaramente conosce esser vero; e massima- mente in quelle cose, che nel suo gioco19, se ben avete a memoria, messer Cesare ricordo* che noi piu* volte avevamo usate per instrumento di far impazzir molti. Anzi, per non errar, se ben conosce le laudi che date gli sono esser vere, non le consenta 20 cosi* apertamente, ne% cosi* senza contra- dizione le confermi; ma piu tosto modestamente quasi le nieghi, mostrando sempre e tenendo in effetto per sua prin- cipal professione l'arme 21 e l'altre bone condizioni tutte per ornamento di quelle; e massimamente tra i soldati, per non tar come coloro che ne' studi voglion parere omini di guerra e tra gli omini di guerra litterati. In questo modo, per le ragioni che avemo dette, fuggira l'affettazione 22 e le cose mediocri che fara* parranno grandissime. "lli. rispose quiri messer Pietro Bembo: -- Io non so, Conte, come voi vogliate che questo cortegiano, essendo litterato e con tante altre virtuose qualita*, tenga ogni cosa per oma- mento dell'arme, e non l'arme e 'l resto per omamento delle lettere i; le quali senza altra compagnia 2 tanto son di dignita* aU ar1ne superiori 3, quanto l'animo al corpo, per appartenere propriamente la operazion 4 d'esse all'animo, cosi come all'animo ed al corpo appartiene la operazion dell'arme. Ma non voglio, messer pietro, che voi di tal causa siate giudice, perche% sareste troppo suspetto 6 ad ima delle parti; ed essendo gia* stata questa disputazione lungamente agitata -- da omin- i sapientissimi, non e* bisogno rimdovarla; ma io la tengo pe difMita j in favore dell"arme e voglio che 'l nostro cortegiao, poich"io posso ad abitrio mio formarlo, esso ancor cosi la estimi. E se voi sete di contrario parer, aspettate d'udode una disputazion, nella qual cosi* sia licito a cin dikende la ragion dell'arme operar 8 l'arme, come quelliche diffendon le lettre oprano in tal diffesa le medesime lettre; che% se ognuno si valera* de' suoi instmienti, vedrete che i litterati perderanno. -- Ah, -- disse messer Pietro, -- voi dianzi avete dannati i Franzesi che poco apprezzan le lettre e detto quanto lume di gloria esse mostrano agli omini e come gli facciano immortali; ed or pare che abbiate mutata sentenzia 9. Non vi ricorda che Giunto Alessanrdo alla famosa tomba del fero Achille, sospirando risse: -- 0 fortunato, che si chiara tromba , trovasti e chi ri te 53 alto scrissel 1o. E se Alessandro ebbe inavidia ad11 Achille non de' suoi fatti 12 ma della fortuna che prestato gli avea tanta felicita* che le cose sue fosseno celebrate da Omero13 com re d si po che estimasse piu* le lettre d'Omero, che l'arme d'Achille. Qual altro giudice adunque o qual altra sentenzia aspet- tate voi della dignita* 14 dell'arme e delle lettre, che quella che fu data da un de' piu* gran capitani che mai sia stato? XLVI. Rispose allora il Conte: -- Io biasmo i Franzesi che esti- man le lettre nuocere alla profession dell'arme e tengo che a niun piu* si convenga l'esser litterato che ad un om di guerra; e queste due condinioni concatenate i e l'una dal' l'altra aiutate, il che e* convenientissodo, voglio che siano nel nostro cortegiano; ne% per questo parmi esser mutato d'opinione. Ma, come ho detto, disputar non voglio qual d'esse sia piu* degna di laude. Basta che i litterati quasi mai non pigliano a laudare se non omini grandi e fatti glo- riosi 2, i quali da se% meritano laude per la propria essenzial virtute donde nascono; oltre a cio sono nobilissima materia dei scrittori; il che e grande ornamento ed in parte causa di perpetuare i scritti, li quali forse non sariano tanto letti ne% apprezzati se mancasse loro il nobile suggetto 3, ma vani e di poco momento. E se Alessandro ebbe invidia ad Achillie per esser laudato da chi fu, non conchiude pero questo4 che estimasse piu* le lettre che l'are; nelle quali se tato si fosse conosciuto lontano da Achille, come nel scrivere estimava che dovessero esser da Omero tutti quelli che di lui fossero per scrivere, son certo che molto prima averia desiderato il ben fare in se% che il ben dire in altri5. Pero* questa credo io che fosse una tacita laude di se stesso ed un desiderar quello che aver non gli pareva, cioe* la suprema eccellenzia d'un scrittore, e non quello che gia si prosu- meva aver conseguito, cioe* la virt dell"arme, nella quale non estimava che Achille punto gli fosse superiore; onde chiamollo fortunato, quasi accennando che, se la fama sua per lo inanzi6 non fosse tanto celebrata al mondo come quella, che era per cosi divin poema chiara ed illustre, non procedesse perche% il valore ed i meriti non fossero tanti e di tanta laude degni, ma nascesse dalla fortuna, la quale avea parato inanti7 ad Achille quel miraculo di natura 8 per gloriosa tromba dell'opere sue; e forse ancor volse eccitar qualche nobile ingegno a scrivere di se%, mostrando per questo dovergli esser tanto grato, quanto amava e venerava i sacri monumenti delle lettre, circa le quali omai si ee parlato a bastanza. -- Anzi troppo, -- rispose il signor Ludovico Pio; -- perche% credo che al- mondo non sia possibile ritrovar un vaso tanto grande 9, che fosse capace di tutte le cose, che voi volete che stiao in questo cortegiano --. Allor il Conte, -- Aspettate un poco, -- disse, -- che molte altre ancor ve ne hanno da essere --. Rispose pietro da Napoli: B -- A questo modo il Grasso de' Mealci10 avera* gran van' taggo da 11 messer Pietro Bembo. XLVII. Ij Rise quivi1 ognuno; e ricominciando il Conte, -- Si- gnori, -- disse, -- avete a sapere ch'io non mi contento del cortegiano s'egli non e* ancor musico e se, oltre allo inten- dere ed esser sicuro a libro 2, non sa di varii instunmenti 3; perche%, se ben pensiamo, niuno riposo de fatiche e medicina d'animi infermi ritrovar si po piu* onesta e laudevole nel- l'ocio 4, che questa; e massimamente nelle corti, dove, oltre al refrigerio 5 de' fastidi che ad ognuno la musica presta, molte cose si fanno per satisfar alle donne, gli animi delle quali, teneri e moin, facilmente sono dalll'armonia penetrati e di dolcezza ripieni. Pero non e* maraviglia se nei tempi antichi e nei presenti sempre esse state sono a' musici incli- nate ed hanno avuto questo per gratissimo cibo d'animo --. Allor il signor Gaspar, -- La musica penso, -- disse, -- che insieme con molte altre vanita* sia alle donne conveniente si*, e forse ancor ad alcuni che hanno similitudine d'omini 6, ma non a quein che veramente sono; i quali non deono con delicie effeminare gli animi ed indurgli in tal modo a temer la morte. -- Non dite, -- rispose il Conte; -- perch'io v'en- traro* in un gran pelago di laude della musica; e ricordaro* -- quanto ,sempre appresso gli antichi sia stata celebrata e tenuta per cosa sacra , e sia stato opinione di sapientissimi filosofi il mondo esser composto di musica e i cieli nel mo- versi far armonia, e l'anima nostra pur con la medesima ragion esser formata, e pero* destarsi e quasi vivificar le sue virtu* per la musica. Per il che se scrive Alessadro alcuna volta esser stato da quella cosi ardentemente incitato, che quasi contra sua voglia gli bisognava levarsi dai convivu*- e correre all'arme; poi, mutando il musico la sorte del suono, mitigarsi e tomar dall'arme ai convivii. E dirovvi il severo Socrate, gia* vecchissimo, aver imparato a sonare la citara. E ricordomi aver gia* inteso che Platone ed Aristotele vogliono che l'om bene instituito sia ancor musico, e con infinite ragioni mostrano la forza della musica in noi essere grandissima, e per molte cause, che or saria lungo a dir, doversi necessariamente imparar da puerizia; non tanto per quella superficial melodia che si sente, ma per esser sufficiente ad indur in noi un novo abito bono ed un costume tendente alla virtu*, il qual fa l'animo piu* capace di felicita*, secondo che lo esercizio corporale fa il corpo piu* gagliardo; e non solamente non nocere alle cose civili e della guerra, ma loro giovar sommamente. Licurgo ancora nelle severe sue leggi la musica approvo* E leggesi i Lacedemonii bellicosissimi ed i Cretensi aver usato nelle battaglie citare ed altri instrumenti molli ; e molti eccel- lentissimi capitani antichi , come Epaminonda, aver dato opera alla musica-; e quelli che non ne sapeano come Temi- stocle, esser stati molto meno apprezzati. Non avete voi letto che delle prime discipline che insegno* il bon vecchio Chirone nella tenera eta* ad Achille, il quale egli nutri dallo latte e dalla culla, fu la musica - e volse il savio maestro che le mani, che aveano a sparger tanto sangue troiano, fossero spesso occupate nel suono della citara? Qual soldato adunque sara* che si vergogni d'imitar Achille, lasciando molti altri famosi capitani ch"io potrei addurre ? Pero* non vogliate voi privar il nostro cortegiano della musica, la qual non solamente gli animi umani indolcisce, ma spesso le fiere fa diventar mansuete ; e chi non la gusta si po tener per certo ch'abbia i spiriti discordanti l'un dall'altro . Eccovi quanto essa po, che gia* trasse un pesce a lassarsi cavalcar da un omo per mezzo il procelloso mare . Questa veggiamo operarsi ne' sacri tempii nello rendere laude e grazie a Dio ; e credibil cosa e* che ella grata a lui sia ed egli a noi data l'abbia per dolcissimo alleviamento delle fatiche e fastidi nostri. Onde spesso i duri lavoratori de' campi sotto l'ar- dente sole ingannano la lor noia col rozzo ed agreste can- tare. Con questo la inculta contadinella, che inanzi al giomo a filare o a tessere si lieva, dal sonno si diffende e la sua fatica fa piacevole ; questo e* iocundissimo trastullo dopo le piogge, i venti e le tempeste ai miseri marinari; con questo consolansi i stanchi peregrini dei noiosi e lunghi viaggi e spesso gli afflitti prigionieri delle catene e ceppi. Cosi*, per -- maggiore argumento che d'ogni fatica e molestia umana la modulazione , benche% inculta, sia grandissimo refrigerio, pare che la natura alle nutrici insegnata l'abbia per rimedio precipuo del pianto continuo de' teneri fanciulli; i quali al suon di tal voce s'inducono a riposato e placido sonno, scordadosi le lacrime cosl proprie, ed a noi per presagio del rimanente della nostra vita in quella eta* da natura date . XLVIII. Or quivi tacendo un poco il Conte, disse il Magnifico Iulidano: -- Io non son gia* di parer conforme al signor Gaspar; anzi estimo per le ragioni che voi dite e per molte altre esser la musica non solamente omamento, ma necessaria al cor- tegiano . Vorrei ben che dechiaraste in qual modo questa e l'altre qualita* che voi gli assignate siano da esser operate , ed a che tempo e con che maniera; perche% molte cose che da se% meritano laude, spesso con l'operarle fuor di tempo diventano inettissime e, per contrario, alcune che paion di poco momento, usandole bene, sono pregiate assai . XLIX. Allora il Conte, -- Prima che a questo proposito entriamo, voglio, -- disse, -- ragionar d'un'altra cosa, Ia quale io, percio* che di molta importanza la estimo, penso che dal nostro cortegiano per alcun modo non debba esser lasciata addietro : e questo e* il saper disegnare ed aver cognizion dell'arte propria del dipingere . Ne% vi maravigliate s'io desidero questa parte, la qual oggidi forsi par mecanica e poco conveniente a gentilomo; che% ricordomi aver letto che gli antichi, massimamente per tutta Grecia, voleano che i fanciulli nobili- nelle scole alla pittura dessero opera come a cosa onesta e necessaria, e fu questa ricevuta nel primo grado dell'arti liberali ; poi per publico editto vetato che ai servi non s'insegnasse . presso ai Romani ancor s'ebbe in onor grandissimo; e da questa trasse il cognome la casa nobilissima de' Fabii, che% il primo Fabio fu cogno- minato Pittore, per esser in effetto eccellentissimo pittore e tanto dedito alla pittura, che avendo dipinto le mura del tempio della Salute, gli inscrisse il nome suo; parendogli che, benche% fosse nato in una famiglia cosi* chiara ed onorata di tanti tituli di consulati, di triunfi e d'altre dignita* e fosse litterato e perito nelle leggi e numerato tra gli oratori, potesse ancor accrescere splendore ed ornamento alla fama sua lassando memoria d'essere stato pittore. Non mancarono acor molti altri di chiare famiglie celebrati in quest'arte; della qual, oltra che in se% nobilissima e degna sia, si traggono -- molte utilita*, e massimamente nella guerra , per disegnar paesi, siti, fiumi, ponti, ro*cche, fortezze e tai cose; le quali, se ben nella memoria si servassero, il che pero* e* assai difficile, altrui mostrar non si possono. E veramente chi non estima questa arte parmi che molto sia dalla ragione alieno; che% la machina del mondo, che noi veggiamo coll'amplo cielo di chiare stelle tanto splendido e nel mezzo la terra dai mari cinta, di monti, valli e fiumi variata e di si diversi alberi e vaghi fiori e d'erbe omata, dir si po che una nobile e gran pittura sia, per man della natura e di Dio composta; la qual chi po imitare parmi esser di gran laude degno; ne% a questo pervenir si po senza la cognizion di molte cose, come ben sa chi lo prova. Pero* gli antichi e l'arte e gli arti*fici aveano in grandissimo pregio, onde pervenne in colmo di summa eccellenzia ; e di cio* assai certo argomento pigliar si po dalle statue antiche di marmo e di bronzo, che ancor si veggono . E benche% diversa sia la pittura dalla statuaria pur I"una e l'altra da un medesimo fonte, che e* il bon disegno , nasce. Pero*, come le statue sono divine, cosi* acor creder si po che le pitture fossero; e tanto piu*, quanto che di maggior artificio capaci sono . Allor la signora Emilia, rivolta a Ioan Cristoforo Ro- mano, che ivi con gli altri sedeva, -- Che vi par, -- disse, -- di questa sentenzia ? confermarete voi, che la pittura sia capace di maggior artificio che la statuaria ? -- Rispose Ioan Cristoforo: -- , Signora, estimo che la statuaria sia di piu* fatica, di piu* arte e di piu* dignita*, che non e* la pittura --. Suggiunse il Conte: -- Per esser le statue piu* durabili, si poria forse dir che fossero di piu* dignita*; perche%, essendo fatte per memoria , satisfanno piu* a quello effetto per che son fatte, che la pittura. Ma oltre alla memoria, sono ancor e la pittura e la statuaria fatte per ornare ed in questo la pittura e* molto superiore; la quale se non e* tato diutuma , per dir cosi, come la statuaria, e* pero* molto longeva , e tanto che dura e* assai piu* vaga --. Rispose allor Ioan Cristoforo: -- Credo io veramente che voi par- liate contra quello che avete nell'animo e cio* tutto fate in grazia del vostro Rafaello , e forse ancor parvi che la eccel- lenzia che voi conoscete in lui della pittura sia tanto suprema, che la marmoraria non possa giungere a quel grado: ma considerate che questa e* laude d"un artifice, e non del- l'arte --. Poi suggiunse: -- Ed a me par bene, che l'una e l'altra sia una artificiosa imitazion di natura; ma non so gia* come possiate dir che piu* non sia imitato il vero, e quello proprio che fa la natura, in una figura di marmo o di bronzo, nella qual sono le membra tutte tonde , formate e misurate come la natura le fa, che in una tavola, nella qual non si vede altro che la superficie e que' colori che in- gaunao gli occhi; ne% mi direte gia*, che piu* propinquo al vero non sia l'essere che 'l parere . Estodo poi che la marmoraria sia piu* difficile, perche% se un error vi vien fatto, non si po piu* correggere, che% 'l marmo non si ritacca, ma bisogna rifar un'altra figura; il che nella pittura non accade, che% mille volte si po mutar, giongervi e sminuirvi , miglioradola sempre. Disse il Conte ridendo: -- Io non parlo in grazia de Rafaello ; ne% mi dovete gia* riputar per tanto ignorante, che non conosca la eccellenzia di Michel Angelo e vostra e degli altri nella marmoraria; ma io parlo dell'arte, e non degil arti*fici. E voi ben dite vero che e l'una e l'altra e* imitazion della natura; ma non e* gia* cosi, che la pittura appaia e la statuaria sia. Che%, avvenga che le statue siano tutte tonde come il vivo e la pittura solamente si veda nella superficie, alle statue mancano molte cose che non mancano alle pit- ture, e massimamente i lumi e I'ombre ; perche% altro lume fa la came ed altro fa il marmo; e questo naturalmente imita il pittore col chiaro e scuro, piu* e meno, secondo il bisogno; il che non po far il marmorario. E se ben il pittore non fa la figura tonda, fa que' musculi e membri tondeggiati di sorte che vanno a ritrovar quelle parti che non si veggono con tal maniera, che benissimo comprender si po che 'l pittor ancor quelle conosce ed intende. Ed a questo bisogna un altro artificio maggiore in far quelle membra che scor- tano e diminuiscono a proporzion della vista con ragion di prospettiva; la qual per forza di linee misurate , di colori, di lumi e d ombre vi mostra ancora in una superficie di muro dritto il piano e ' lontano, piu* e meno come gli piace, Parm poi che di poco momento sia la imitazione dei colori naturali in contrafar le cami, i panni e tutte l'altre cose colorate? Questo far non po gia* il marmorario, ne% meno -- esprimer la graziosa vista degli occhi neri o azzurri, col splendor di que' raggi amorosi. Non po mostrare il color de' capegli flavi . non lo splendor dell'arme, non una oscura notte, non una tempesta di mare, non que' lampi e saette, non lo incendio d'una citta*, non il nascere dell'aurora di color di rose, con quei raggi d'oro e di porpora; non po in somma mostrare cielo, mare, terra, monti, selve, prati, giardini, fiumi, citta* ne% case; il che tutto fa il pittore. LII. Per questo parmi la pittura piu* nobile e piu* capace d'artificio che la marmoraria, e penso che presso agli atichi fosse di suprema eccellenzia come l'altre cose; il che si conosce ancor per alcune piccole reliquie che restao, massimamente nelle grotte di Roma , ma molto piu* chiaramente si po comprendere per i scritti atichi , nei quali sono tate ono- rate e frequenti menzioni e delle opre e dei maestri; e per quelli intendesi quanto fossero appresso gra signori e le republiche sempre onorati. Pero* si legge che Alessadro amo* sommamente Apelle Efesio e tanto, che avendogli fatto ritrar nuda una sua carissima donna ed intendendo il bon pittore per la maravigliosa bellezza di quella restame ardentissimamente inamorato, senza rispetto alcuno gliela dono*: liberalita* veramente degna d'Alessandro, non sola- mente donar tesori e stati, ma i suoi proprii affetti e deside*ri; e segno di grandissimo amor verso Apelle, non avendo avuto rispetto, per compiacer a lui, di dispiacere a quella donna che sommamente amava; la qual creder si po che molto si dolesse di cambiar un tanto re con un pittore. Narransi ancor molti altri segni di benivolenzia d'Alessandro verso d'Apelle; ma assai chiaramente dimostro* quanto lo estimasse, avendo per publico commandamento ordinato che niun altro pittore osasse far la imagine sua . Qui potrei dirvi le contenzioni di molti nobili pittori con tanta laude e maraviglia quasi del mondo; potrei dirvi con quanta solen- nita* gli imperadori antichi omavano di pitture i lor triunfi e ne' lochi pubi*ici le dedicavano, e come care le compara- vano ; e che siansi gia* trovati alcuni pittori che donavano l'opere sue, parendo loro che non bastasse oro ne% argento per pagarle ; e come tanto pregiata fusse una tavola di Protogene che, essendo Demetrio a campo a Rodi, e pos- sendo intrar dentro appiccandole il foco dalla banda dove sapeva che era quella tavola, per non abbrusciarla resto* di darle la battaglia e cosi non prese la terra ; e Metrodoro , filosofo e pittore eccellentissimo, esser stato da' Ateniesi mandato a Lucio Paulo per ammaestrargli i figlioli ed or- nargli il triunfo che a far avea. E molti nobili scrittori hanno acora di questa arte scritto i(; il che e* assai gran segno is -- per dimostrare in quanta estimazione ella fosse; ma non voglio che in questo ragionamento piu* ci estendiamo. Pero* basti solamente dire che al nostro cortegiao conviensi ancor della pittura aver notizia, essendo onesta ed utile ed ap- prezzata in que' tempi che gli omini erao di molto maggior valore, che ora non sono ; e quando mai altra utilita* o piacer non se ne traesse, .oltre che giovi a saper giudicar la eccel- lenzia delle statue antiche e modeme, di vasi, d'edifici, di medaglie, di camei , d'entagli e tai cose, fa conoscere ancor la bellezza dei corpi vivi , non solamente nella delicatura de' volti, ma nella proporzion di tutto il resto, cosi* degli omini come di ogni altro animale. Vedete adunque come lo avere cognizione della pittura sia causa di gradissimo pia- cere. E questo pensino quei che tanto godono contemplando le bellezze d'una donna che par lor essere in paradiso, e pur non sanno dipingere; il che se sapessero, arian molto maggior contento, perche% piu* perfettamente conosceriao quella bel- lezza, che nel cor genera lor tanta satisfazione . Rise quivi messer Cesare Gonzaga e disse: -- Io gia* non son pittore; pur certo so aver molto maggior piacere di ve- dere alcuna donna, che non ari*a, se or tornasse vivo, quello eccellentissimo Apelle che voi poco fa avete nominato --. Rispose il Conte: -- Questo piacer vostro non deriva intera,- mente da quella bellezza, ma dalla affezion che voi forse a quella donna portate; e, se volete dir il vero, la prima volta che voi a quella donna miraste, non sentiste la millesima parte del piacere che poi fatto avete , benche% le bellezze fossero quelle medesime; pero* potete comprender quanto piu* parte nel piacer vostro abbia l'affezion che la bellezza. -- Non nego questo, -- disse messer Cesare; -- ma secondo che 'l piacer nasce dalla affezione, cosi* l'affezion nasce dalla bel- lezza; pero* dir si po che la bellezza sia pur causa del piacere --. Rispose il Conte: -- Molte altre cause ancor spesso infiam- mano gli animi nostri, oltre alla bellezza: come i costumi, il sapere, il parlare, i gesti e mill'altre cose, le quali pero* a qualche modo forse esse ancor si potriano chiamar bellezze; ma sopra tutto il sentirsi essere amato; di modo che si po ancor senza quella bellezza, di che voi ragionate, amare ardcntissimamente ; ma quegli amori che solamente nascono dalla bellezza che superficialmente vedemo nei corpi, senza dubbio daranno molto maggior piacere a chi piu* la conoscera*, che a chi meno. Pero*, tomando al nostro propo- sito, penso che molto piu* godesse Apelle contemplando la bellezza di Campaspe , che non faceva Alessandro; perche% facilmente si po creder che l'amor dell'uno e dell'altro deri- vasse solamente da quella bellezza; e che deliberasse forse ancor Alessandro per questo rispetto donarla a chi gli parve che piu* perfettamente conoscer la potesse. Non avete voi letto che quelle cinque fanciulle da Crotone, le quali tra l'altre di quel populo elesse Zeusi pittore per far de tutte cinque una sola figura eccellentissima di bellezza, furono celebrate da molti poeti, come quelle che per belle erano state approvate da colui, che perfettissimo giudicio di bel- lezza aver dovea? LIV. Quivi, mostrando messer Cesare non restar satisfatto, ne% voler consentir per modo alcuno che altri che esso medesimo potesse gustare quel piacere ch'egli sentiva di contemplar la bellezza d'una donna, ricomincio* a dire; ma in quello s'udi* un gran calpestare di piedi con strepito di parlar alto; e cosi* rivolgendosi ognuno, si vide alla porta della stanza comparire un splendor di torchi e su*bito drieto giunse con molta e nobil compagnia il signor Prefetto , il qual ritomava, avendo accompagnato il Papa una parte del camino; e gia* allo entrar del palazzo, dimandando cio* che facesse la signora Duchessa, aveva inteso di che sorte era il gioco di quella sera e 'l carico imposto al conte Ludovico di parlar della cortegiania; pero* quanto piu* gli era possibile studiava il passo , per giungere a tempo d'udir qualche cosa. Cosi*, su*bito fatto reverenzia alla signora Duchessa e fatto seder gli altri, che tutti in piedi per la venuta sua s'erano levati, si pose ancor esso a seder nel cerchio con alcuni de' suoi gentilomini; tra i quali erano il marchese Febus e Ghirardino fratelli da Ceva , messer Ettor Romano , Vincenzio Cal- meta , Orazio Florido e molti altri; e stando ognun senza parlare, il signor Prefetto disse: -- Signori, troppo nociva sarebbe stata la venuta mia qui, s'io avessi impedito cosi* bei ragionamenti, come estimo che sian quelli che ora tra voi passavano; pero* non mi fate questa ingiuria di privar voi stessi e me di tal piacere --. Rispose allor il conte Lu- dovico: -- Anzi, signor mio, penso che 'l tacer a tutti debba esser molto piu* grato che 'l parlare; perche%, essendo tal fatica a me piu* che agli altri questa sera toccata, oramai m'ha stanco di dire, e credo tutti gli altri d'ascoltare, per non esser stato il ragionamento mio degno di questa com- pagnia, ne% bastante alla grandezza della materia di che io aveva carico; nella quale avendo io poco satisfatto a me stesso, penso molto meno aver satisfatto ad altrui. Pero* a voi, Signore, e* stato ventura il giungere al fine; e bon sara* mo dar la impresa di quello che resta ad un altro che succeda nel mio loco , percio* che, qualunque egli si sia, so che si portera* molto meglio ch'io non farei se pur seguitar volessi, essendo oramai stanco come sono. LV. -- Non supportaro* io, -- respose il Magnifico Iuliano, -- per modo alcuno esser defraudato della promessa che fatta m'avete; e certo so che al signor Prefetto ancor non despiacera* lo intender questa parte. -- E qual promessa? -- disse il Conte. Rispose il Magnifico: -- Di dechiararci -- in qual modo abbia il cortegiano da usare quelle bone con- dizioni, che voi avete detto che convenienti gli sono --. Era il signor Prefetto, benche% di eta* puerile , saputo e di- screto piu* che non parea che s'appartenesse agli ani teneri, ed in ogni suo movimento mostrava con la grandezza del- l'animo una certa vivacita* dello ingegno, vero pronostico dello eccellente grado di virtu* dove pervenir doveva. Onde su*bito disse: -- Se tutto questo a dir resta, parmi esser assai a tempo venuto; perche% intendendo in che modo dee il cortegiano usar quelle bone condizioni, intendero* ancora quali esse siano e cosi* verro* a saper tutto quello che infin qui e* stato detto. Pero* non rifutate, Conte, di pagar questo debito d'una parte del quale gia* sete uscito . -- Non arei da pagar tanto debito, -- rispose il Conte, -- se le fatiche fossero piu* egualmente divise , ma lo errore e* stato dar auto- rita* di commandar ad una signora troppo parziale; -- e cosi*, ridendo, si volse alla signora Emilia, la qual su*bito disse: -- Della mia parzialita* non dovreste voi dolervi; pur, poiche% senza ragion lo fate, daremo una parte di questo onor, che voi chiamate fatica, ad un altro; -- e rivoltasi a messer Federico Fregoso, -- Voi, -- disse, -- proponeste il gioco del cortegiao; pero* e* ancor ragionevole che a voi tocchi il dime una parte: e questo sara* il satisfare alla domanda del signor Magnifico, dechiarando in qual modo e maniera e tempo il cortegiano debba usar le sue bone condizioni, ed operar quelle cose che 'l Conte ha detto che se gli convien volendo vo separare il modo e 'l tempo e la maniera dalle quello che separar non si po , perche% queste cose son quelle che fanno le condizioni bone e l'operar bono. Pero* avendo il Conte detto ta'-nto e cosi* bene ed ancor parlato qualche cosa di queste circonstanzie, e preparatosi nell'animo il resto che egli avea a dire, era pur ragionevole che seguitasse insin al fine --. Rispose la signora Emilia: -- Fate voi cunto d'es- sere il Conte e dite quello che pensate che esso direbbe; e cosi* sara* satisfatto al tutto . LVI. Disse allor il Calmeta: -- Signori, poiche% l'ora e* tarda, accio* che messer Federico non abbia escusazione alcuna di non dir cio* che sa, credo che sia bono differire il resto del ragionamento a domani; e questo poco tempo che ci avanza si dispensi in qualche altro piacer senza ambizione --. Cosi* confermando ognuno, impose la signora Duchessa a madonna Margherita e madonna Costanza Fregosa che danzassero. Onde su*bito Barletta , musico piacevolissimo e danzator eccellente, che sempre tutta la corte teneva in festa, comincio* a sonare suoi instrumenti; ed esse resesi per mano, ed avendo prima danzato una bassa ballarono una roegarze con estrema grazia e singular piacer di chi le vide; poi, perche% gia* era passata gran pezza della notte -- la signora Duchessa si levo* in piedi; e cosi ognuno reverente- mente presa licenzia, se ne andarono a dormire. IL SECONDO LIBRO DEL CORTEGIANO DEL CONTE BALDESAR CASTIGLIONE A MESSER ALFONSO ARIOSTO I. Non senza maraviglia ho piu* volte considerato onde nasca un errore, il quale, percio* che universalmente ne' vecchi si vede, creder si po che ad essi sia proprio e naturale; e questo e* che quasi tutti laudano i tempi passati e biasmano i presenti , vituperando le azioni e i modi nostri e tutto quello che essi nella lor gioventu* non facevano; affermando ancor ogni bon costume e bona maniera di vivere, ogni virtu*, in somma ogni cosa, andar sempre di mal in peggio. E ve- ramente par cosa molto aliena dalla ragione e degna di ma- raviglia che la eta* matura, la qual con la lunga esperienzia suol far nel resto il giudicio degli omini piu* perfetto, in questo lo corrompa tanto, che non si avveggano che, se 'l mondo sem- pre andasse peggiorando e che i padri fossero generalmente migliori che i figlioli, molto prima che ora saremmo giunti a quest'ultimo grado di male, che peggiorar non po. E pur vedemo che non solamente ai di* nostri, ma ancor nei tempi passati, fu sempre questo vicio peculiar di quella eta*; il che per le scritture de molti autori antichissimi chiaro si com- prende e massimamente dei comici , i quali piu* che gli altri esprimeno la imagine della vita umana. La causa adunque di questa falsa opinione nei vecchi estimo io per me ch'ella sia perche% gli anni fuggendo se ne portan seco molte commo- dita* , e tra l'altre levano dal sangue gran parte degli spiriti vitali; onde la complession si muta e divengono debili gli organi, per i quali l'anima opera le sue virtu*. Pero* dei cori nostri in quel tempo, come allo autunno le foglie degli alberi , caggiono i suavi fiori di contento e nei* loco dei sereni e chiari pensieri entra la nubilosa e turbida tristizia, di mille calamita* compagnata, di modo che non solamente il corpo, ma l'animo ancora e* infermo; ne% dei passati piaceri riserva altro che una tenace memoria e la imagine di quel caro tempo della tenera eta*, nella quale quando ci ritro- vamo, ci pare che sempre il cielo e la terra ed ogni cosa faccia festa e rida intomo agli occhi nostri, e nel pensiero come in un delizioso e vago giardino fiorisca la dolce prima- vera d'allegrezza. Onde forse saria utile, quando gia* nella fredda stagione comincia il sole della nostra vita, spo- gliandoci de quei piaceri, andarsene verso l'occaso , per- dere insieme con essi ancor la loro memoria e trovare, come disse Temistocle, un'arte che a scordar insegnasse ; perche% -- tanto sono fallaci i sensi del corpo nostro, che spesso ingan- nano ancora il giudicio della mente. Pero* parmi che i vecchi siano alla condizion di quelli, che partendosi dal porto tengon gli occhi in terra e par loro che la nave stia ferma e la riva si parta, e pur e* il contrario; che% il porto, e medesima- mente il tempo ed i piaceri, restano nel suo stato, e noi con la nave della mortalita* fuggendo n'andiamo l'un dopo l'ai*tro per quei* procelloso mare che ogni cosa assorbe e devora, ne% mai piu* ripigi*iar terra ci e* concesso, anzi, sempre da con- trari venti combattuti, al fine in qualche scoglio la nave rompemo. Per esser adunque l'animo senile subietto dispro- porzionato a molti piaceri, gustar non gli po; e come ai febrecitanti, quando dai vapori corrotti hanno il pai*ato guasto, paiono tutti i vini amarissimi, benche% preciosi e delicati siano, cosi* ai vecchi per la loro indisposizione, alla qual pero* non manca il desiderio, paiono i piaceri insipidi e freddi e molto differenti da quelli che gia* provati aver si ricordano, benche% i piaceri in se% siano li medesimi; pero* sentendosene privi, si dolgono e biasmano il tempo presente come malo, non discernendo che quella mutazione da se% e non dal tempo procede; e, per contrario, recandosi a memoria i passati piaceri, si arrecano ancor il tempo nel quale avuti gli hanno, e pero* lo laudano come bono perche% pare che seco porti un odore di quello che in esso sentiamo quando era presente; perche% in effetto gli animi nostri hanno in odio tutte le cose che state sono compagne de' nostri dispiaceri ed amano quelle che state sono compagne dei piaceri . Onde accade che ad uno amante e* carissimo talor vedere una finestra, benche% chiusa, perche% alcuna volta quivi ara* avuto grazia di contemplare la sua donna ; medesimamente vedere uno anello, una lettera, un giardino o altro loco o qualsivoglia cosa, che gli paia esser stata consapevol testi- monio de' suoi piaceri; e per lo contrario, spesso una camera ornatissima e bella sara* noiosa a chi dentro vi sia stato pri- gione o patito vi abbia qualche altro dispiacere. Ed ho gia* io conosciuto alcuni, che mai non beveriano in un vaso simile a quello, nel quale gia* avessero, essendo infermi, preso be- vanda medicinale ; perche%, cosi come quella finestra, o l anello o la lettera, all'uno rappresenta la dolce memoria che tanto gli diletta, per parergli che quella gia* fosse una parte de' suoi piaceri, cosi all'altro la camera o 'l vaso par che insieme con la memoria rapporti la infirmita* o la prigionia. Questa medesima cagion credo che mova i vecchi a laudare il passato tempo e biasmar il presente. II. Pero* come del resto, cosi parlano ancor delle corti, affer- mando quelle di che essi hanno memoria esser state molto piu* eccellenti e piene di omini singulari, che non son quelle che oggidi veggiamo; e su*bito che occorrono tai ragionamenti, cominciano ad estollere con infinite laudi i cortegiani del duca Filippo , o vero del duca Borso ; e narrano i detti di Nicolo* piccinino ; e ricordano che in quei tempi non si saria trovato, se non rarissime volte, che si fosse fatto un omicidio ; e che non erano combattimenti, non insidie, non inganni, ma una certa bonta* fidele ed amorevole tra tutti, una sicurta* leale; e che nelle corti allor regnavano tati boni -- costumi, tanta onesta*, che i cortegiani tutti erano come re- ligiosi; e guai a quello che avesse detto una mala parola al- l'altro o fatto pur un segno men che onesto verso una donna; e per lo contrario dicono in questi tempi esser tutto l'op- posito; e che non solamente tra i cortegiani e* perduto quel- l'amor fratemo e quel viver costumato, ma che nelle corti non regnano altro che invidie e malivolenzie, mali costumi e dissolutissima vita in ogni sorte di vicii; le donne lascive senza vergogna, gli omini effemminati. Dannano ancora i ve- stimenti, come disonesti e troppo molli. In somma riprendono infinite cose, tra le quali molte veramente meritano ripren- sione, perche% non si po dir che tra noi non siano molti mali omini e scelerati, e che questa eta* nostra non sia assai piu* copiosa di vicii che quella che essi laudano . Parmi ben che mal discemano la causa di questa differenzia e che siano sciocchi, perche% vorriano che al mondo fossero tutti i beni senza male alcuno; il che e* impossibile, perche%, essendo il male contrario al bene e 'l bene al male , e* quasi necessario che per la opposizione e per un certo contrapeso l'un sostenga e fortifichi l'altro, e mancando o crescendo l'uno, cosi manchi o cresca l'altro perche% niuno contrario e* senza l'altro suo contrario. Chi non sa che al mondo non saria la giustizia, se non fossero le ingiurie? la magnanimita*, se non fossero li pusilanimi? la continenzia, se non fosse la incontinenzia? la sanita*, se non fosse la infirmita*? la verita*, se non fosse la bugia? la felicita*, se non fossero le disgrazie? Pero* ben dice Socrate appresso Platone maravigliarsi che Esopo non abbia fatto uno apologo, nel quale finga, Dio, poiche% non avea mai potuto unire il piacere e 'l dispiacere insieme, avergli attaccati con la estremita*, di modo che 'l principio dell'uno sia il fin dell'altro; perche% vedemo niuno piacer poterci mai esser grato, se 'l dispiacere non gli precede . Chi po aver caro il riposo, se prima non ha sentito l'affanno della stracchezza? chi gusta il mangiare, il bere e 'l dormire, se prima non ha patito fame, sete e sonno? Credo io, adunque, che le passioni e le infirmita* siano date dalla natura agi*i omini non principalmente per fargli soggetti ad esse, perche% non par conveniente che quella, che e* madre d'ogni bene, dovesse di suo proprio consiglio determinato darci tanti mali; ma facendo la natura la sanita*, il piacere e gli altri beni, conseguentemente dietro a questi furono congiunte le in- firmita*, i dispiaceri e gli altri mali. Pero*, essendo le virtu* state al mondo concesse per grazia e dono della natura, su*bito i vicii, per quella concatenata contrarieta*, necessaria- mente le furono compagni; di modo che sempre, crescendo o mancando l'uno, forza e* che cosi l'altro cresca o manchi. pero* quando i nostri vecchi laudano le corti passate, perche% non aveano gli omini cosi viciosi come alcuni che hanno le nostre, non conoscono che quelle ancor non gli aveano cosi* virtuosi come alcuni che hanno le nostre; il che non e* maraviglia, perche% niun male e* tanto malo, quanto quello che nasce dal seme corrotto del bcne ; e pero* producendo -- adesso la natura molto miglior ingegni che non facea allora, si* come quelli che si voltano al bene fanno molto meglio che non facean quelli suoi, cosi* ancor quelli che si voltano al male fanno molto peggio . Non e* adunque da dire che quelli che restavano di far male per non saperlo fare, meritassero in quel caso laude alcuna; perche% avvenga che facessero poco male, faceano pero* il peggio che sapeano. E che gli ingegni di que' tempi fossero generalmente molto inferiori a que' che son ora, assai si po conoscere da tutto quello che d'essi si vede, cosi* nelle lettere, come nelle pitture, statue, edifici ed ogni altra cosa. Biasimano ancor questi vecchi in noi molte cose che in se% non sono ne% bone ne% male, solamente perche% essi non le faceano; e dicono non convenirsi ai giovani passeggiar per le citta* a cavallo, massimamente nelle mule; portar fodre di pelle, ne% robbe lunghe nel verno; portar berretta, finche% almeno non sia l'omo giunto a diece- otto anni ed altre tai cose: di che veramente s'ingannano; perche% questi costumi, oltra che sian commodi ed utili, sono dalla consuetudine introdutti ed universalmente piac- ciono, come allor piacea l'andar in giornea con le calze aperte e scarpette pulite e, per esser galante, portar tutto di un sparvieri in pugno senza proposito, e ballar senza toccar la man della donna, ed usar molti altri modi, i quali, come or sariano goffissimi, allor erano prezzati assai. Pero* sia licito ancor a noi seguitar la consuetudine de' nostri tempi, senza esser calunniati da questi vecchi, i quali spesso, volendosi laudare, dicono: -- Io aveva vent'anni, che ancor dormiva con mia madre e mie sorelle, ne% seppi ivi a gran tempo che cosa fossero donne; ed ora i fanciulli non hanno a pena asciutto il capo, che sanno piu* malizie che in que' tempi non sapeano gli omini fatti --, ne% si avveg- gono che, dicendo cosi*, confirmano i nostri fanciulli aver piu* ingegno che non aveano i loro vecchi. Cessino adunque di biasmar i tempi nostri, come pieni de vicii perche%, le- vando quelli, levariano ancora le virtu*; e ricordinsi che tra i boni antichi, nel tempo che fiorivano al mondo quegli animi gloriosi e veramente divini in ogni virtu* e gli ingegni piu* che umani, trovavansi ancor molti sceleratissimi; i quali, se vivessero, tanto sariano tra i nostri mali eccellenti nel male, quato que' boni nel bene; e de cio* fanno piena fede tutte le istorie. IV. Ma a questi vecchi penso che omai a bastanza sia risposto. pero* lasciaremo questo discorso, forse ormai troppo diffuso ma non in tutto for di proposito; e bastandoci aver dimostrato le corti de' nostri tempi non esser di minor laude degne che quelle che tanto laudano i vecchi, attenderemo ai ragiona- menti avuti sopra il cortegiano, per i quali assai facilmente comprender si po in che grado tra l'altre corti fosse quella d'Urbino, e quale era quel Principe e quella Signora a cui servivano cosi* nobili spiriti, e come fortunati si potean dir tutti quelli, che in tal commerzio viveano. Venuto adunque il seguente giomo, tra i cavalieri e le donne della corte furono molti e diversi ragionamenti sopra la disputazion della precedente sera; il che in gran parte nasceva perche% il signor prefetto, avido di sapere cio* che detto s'era, quasi ad ognun ne dimandava e, come suol sempre intervenire, variamente gli era risposto; pero* che alcuni laudavano una cosa, alcuni un'altra, ed ancor tra molti era discordia della sentenzia a propria del Conte, che% ad ognuno non erano restate nella memoria cosi compiutamente le cose dette. Pero* di questo quasi tutto 'l giorno si parlo*; e come prima incomincio* a farsi notte, volse il signor Prefetto che si mangiasse e tutti i gentilomini condusse seco a cena; e su*bito fomito di magiare, n'ado* ll stanza della si- gnora Duchessa; la quale vedendo tanta compagnia, e piu* per tempo che% consueto non era, disse: -- Gran peso parmi, messer Federico, che sia quello che posto e* sopra le spalle vostre, e grade aspettazione quella a cui corrisponder dovete --. Quivi non aspettando che messer Federico rispon- desse: -- E che gran peso e* pero* questo? -- disse l'Unico Aretino: -- Chi e* tanto sciocco, che quando sa fare una cosa non la faccia a tempo conveniente? -- Cosi di questo par- landosi, ognuno si pose a sedere nel loco e modo usato, con attentissima aspettazion del proposto ragionamento. VI. Allora messer Federico, rivolto all'Unico, -- A voi adunque non par, -- disse, -- signor Unico, che faticosa parte e gran carico mi sia imposto questa sera, avendo a dimostrare in qual modo e maniera e tempo debba il cortegiano usar le sue bone condicioni, ed operar quelle cose che gia* s'e* detto convenirsegli? -- A me non par gran cosa, -- rispose l'Unico; -- e credo che basti in tutto questo dir che 'l cortegiano sia di bon giudicioi, come iersera ben disse ll Conte esser ,ie- cessario; ed essendo cosi, penso che senza altri precetti: debba poter usar quello che egli sa a tempo e con bona ma- 9. T"--:"tO. 5. Del sol:to. 6. s: all"de a:l'argome'to del l:b. II, ch" sa"3 s"lto, app"t", da: FreZoso. 7. All'U'(co la q"cst)one ~--b" ":o"a " t'l", ":, da "0' --":ta" una sp"c:nca tratta':o'e: ma vedremo cl" sVb(to messer Fed":co conf"- tera (1 s"peTc:ale argome'ta" del n--ato" a"et:". VI. - 1. C:od sagg)o ed accofio. conseguir quello che cerca essendogli aperto il pensiero con qualche precetto e mostratogli le vie e quasi i lochi dove fondar si debba, che se solamente attendesse al gene- rale. VII. Avendo adunque il Conte iersera con tanta copia e bel modo ragionato della cortegiania, in me veramente ha mosso non poco timor e dubbio di non poter cosi* ben satisfare a questa nobil audienzia in quello che a me tocca a dire, come esso ha fatto in quello che a lui toccava. Pur, per farmi participe piu* ch'io posso della sua laude ed esser sicuro di non errare almen in questa parte, non gli contradiro* in cosa alcuna. Onde, consentendo con le opinioni sue, ed oltre al resto circa la nobilita* del cortegiano e lo ingegno e la di- sposizion del corpo e grazia dell'aspetto, dico che per acquistar laude meritamente e bona estimazione appresso ognuno, e grazia da quei signori ai quali serve, parmi necessario che e' sappia componere tutta la vita sua e valersi delle sue bone qualita* universalmente nella conversazion de tutti gli omini senza acquistarne invidia; il che quato in se% difficil sia, considerar si po dalla rarita* di quelli che a tal termine giunger si veggono; perche% in vero tutti da natura siamo pronti piu* a biasmare gli errori, che a laudar le cose ben fatte, e par che per una certa innata malignita* molti, ancor che chiaramente conoscano il bene, si sforzano con ogni studio ed industria di trovarci dentro o errore o almen similitudine d'errore. pero* e* necessario che 'l nostro corte- giano in ogni sua operazion sia cauto, e cio* che dice o fa sempre accompagni con prudenzia; e non solamente ponga cura d'aver in se% parti e condizioni eccellenti, ma il tenor della vita sua ordini con tal disposizione, che 'l tutto cor- risponda a queste parti, e si vegga il medesimo esser sempre ed in ogni cosa tal che non discordi da se stesso, ma faccia un corpo solo di tutte queste bone condizioni; di sorte che ogni suo atto risulti e sia composto di tutte le virtu*, come dicono i Stoici esser officio di chi e* savio; benche% pero* in ogni operazion sempre una virtu* e* la principale; ma tutte sono talmente tra se% concatenate, che vanno ad un fine e ad ogni effetto tutte possono concorrere e servire. Pero* bisogna che sappia valersene, e per lo paragone e quasi contrarieta* dell'una talor far che l'altra sia piu* chiaramente conosciuta, come i boni pittori, i quali con l'ombra fanno apparere e mostrano i lumi de' rilevi, e cosi col lume profundano l'ombre dei piani e compagnano i colori diversi insieme di modo, che per quella diversita* l'uno e l'altro meglio si dimostra, e 'l posar delle figure contrario l'una all'altra le aiuta a far quell'officio che e* intenzion del pittore. Onde la man- suetudine e* molto maravigliosa in un gentilomo il qual sia valente e sforzato nell'arme; e come quella fierezza par maggiore accompagnata dalla modestia, cosi la modestia accresce e piu* compar per la fierezza. Pero* il parlar poco, il far assai e 'l non laudar se stesso delle opere laudevoli, dissimulandole di bon modo, accresce l'una e l'altra virtu* in persona che discretamente sappia usare questa maniera; e cosi inteorviene di tutte l'altre bone qualita*. Voglio adunque che 'l nostro cortegiano in cio* che egli faccia o dica usi alcune regole universali, le quali io estimo che brevemente con- tengano tutto quello che a me s'appartien di dire; e per la prima e piu* importante fugga, come ben ricordo* il Conte iersera, sopra tutto l'affettazione. Appresso consideri ben che cosa e* quella che egli fa o dice e 'l loco dove la fa, in presenzia di cui, a che tempo, la causa perche% la fa, la eta* sua, la professione, il fine dove tende e i mezzi che a quello condur lo possono; e cosi con queste avvertenzie s'accom- modi discretamente a tutto quello che fare o dir vole, vIII Poi che cosi ebbe detto messer Federico, parve che fermasse un poco. Allor su*bito, -- Queste vostre regule, -- disse il signor Morello da Ortona, -- a me par che poco inse- gnino; ed io per me tanto ne so ora, quanto prima che voi ce le mostraste; benche% mi ricordi ancor qualche altra volta averle udite da' frati co' quali confessato mi sono, e parmi che le chiamino ((le circonstanzie ) --. Rise allor messer Federico e disse: -- Se ben vi ricorda, volse iersera il Conte che la prima profession del cortegiano fosse quella del- 1'arme e largamente parlo* di che modo far la doveva; pero* questo non replicaremo piu*. Pur sotto la nostra regula si potra* ancor intendere, che ritrovandosi il cortegiano nella scaramuzza o fatto d'arme o battaglia di terra o in altre cose tali, dee discretamente procurar di appartarsi dalla moltitudine e quelle cose segnalate ed ardite che ha da fare, farle con minor compagnia che po ed al conspetto de tutti i piu* nobili ed estimati omini che siano nell'esercito, e massimamente alla presenzia e, se possibil e*, inanzi agli occhi proprii del suo re o di quel signore a cui serve; perche% in vero e* ben conveniente valersi delle cose ben fatte. Ed io estimo che si* come e* male cercar gloria falsa e di quello che non si merita, cosi sia ancor male defraudar se stesso del debito onore e non cercame quella laude, che sola e* vero premio delle virtuose fatiche. Ed io ricordomi aver gia* conosciuti di quelli, che, avvenga che fossero valenti, pur in questa parte erano grossieri; e cosi* metteano la vita a pericolo per andar a pigliar una mandra di pecore, come per esser i primi che montassero le mura d'una terra com- battuta; il che non fara* il nostro cortegiano, se terra* a me- moria la causa che lo conduce alla guerra, che dee esser solamente l'onore. E se poi se ritrovera* armeggiare nei spettaculi publici, giostrando, torneando, o giocando a canne, o facendo qualsivoglia altro esercizio della persona, ricor- dandosi il loco ove si trova ed in presenzia di cui, procurera* esser nell'arme non meno attillato e leggiadro che sicuro: e pascer gli occhi dei spettatori di tutte le cose che gli parra* che possano aggiungergli grazia; e porra* cura d a- ver cavallo con vaghi guarnimenti, abiti ben intesi, motti appropriati, invenzioni ingeniose, che a se% tinno gli occhi de' circonstanti, come calamita il ferro. Non sara* mai degli ultimi che compariscano a mostrarsi, sapendo che i populi, e massimamente le donne, mirano con molto maggior attenzione i primi che gli ultimi, perche% gli occhi e gli animi, che nel principio son avidi di quella novita*, notano ogni minuta cosa e di quella fanno impres- sione; poi per la continuazione non solamente si saziano, ma ancora si stancano. Pero* fu un nobile istrione antico, il qual per questo rispetto sempre voleva nelle fabule esser il primo che a recitare uscisse. Cosi* ancor, parlando pur d'arme, il nostro cortegiano ara* risguardo alla pro- fession di coloro con chi parla, ed a questo accommodarassi, altramente ancor parlandone con omini, altramente con donne; e se vorra* toccar qualche cosa che sia in laude sua propria, lo fara* dissimulatamente, come a caso e per tran- sito e con quella discrezione ed avvertenzia, che ieri ci mostro* il conte Ludovico. IX. Non vi par ora, signor Morello, che le nostre regule possano insegnar qualche cosa? Non vi par che quello amico nostro, del qual pochi di* sono vi parlai, s'avesse in tutto scordato con chi parlava e perche%, quando, per intertenere una gentildonna, la quale per prima mai piu* non aveva veduta, nel principio del ragionar le comincio* a dire che avea morti tanti omini e come era fiero e sapea giocar di spada a due mani? ne% se le levo* da canto, che venne a volerle insegnar come s'avessero a riparar alcuni colpi di accia essendo armato, e come disarmato, ed a mostrarle -- prese di pugnale; di modo che quella meschina stava in su la croce e parvele un'ora mill'anni levarselo da canto, temendo quasi che non ammazzasse lei ancora come quegli altri. In questi errori incorrono coloro che non hanno ri- guardo alle circonstanzie, che voi dite aver intese dai frati. Dico adunque che degli esercizi del corpo sono alcuni che quasi mai non si fanno se non in publico, come il gio- strare, il tomeare, il giocare a canne e gli altri tutti che dependono dall'arme. Avendosi adunque in questi da ado- perare il nostro cortegiano, prima ha da procurar d'esser tanto bene ad ordine di cavalli, d'arme e d'abbigliamenti, che nulla gli manchi; e non sentendosi ben assettato del tutto, non vi si metta per modo alcuno; perche%, non facendo bene, non si po escusare che questa non sia la profession sua. Appresso dee considerar molto in presenzia di chi si mostra e quali siano i compagni; perche% non saria conve- niente che un gentilom andasse ad onorare con la persona sua una festa di contado, dove i spettatori e i compagni fossero gente ignobile. Disse allor il signor Gasparo Pallavicino: -- Nel paese nostro di Lombardia non s'hanno questi rispetti; anzi molti gentilomini giovani trovansi, che le feste ballano tutto 'l di nel sole coi villani e con essi giocano a lanciar la barra, lottare, correre e saltare; ed io non credo che sia male, perche% ivi non si fa paragone della nobilita*, ma della forza e destrezza, nelle quai cose spesso gli omini di villa non vaglion meno che i nobili; e par che quella domesti- chezza abbia in se% una certa liberalita* amabile. -- Quel ballar nel sole, -- rispose messer Federico, -- a me non piace per modo alcuno, ne% so che guadagno vi si trovi. Ma chi vol pur lottar, correr e saltar coi villani, dee, al parer mio, farlo in modo di provarsi e, come si suol dir, per gentilezza, non per contender con loro; e dee l'omo esser quasi sicuro di vincere, altramente non vi si metta; perche% sta troppo male e troppo e* brutta cosa e fuor della dignita* vedere un gentilomo vinto da un villano, e massimamente alla lotta; pero* credo io che sia ben astenersene, almeno in presenzia di molti, perche% il guadagno nel vincere e* pochissimo e la perdita nell'esser vinto e* grandissima. Fassi ancor il gioco della palla quasi sempre in publico; ed e* uno di que' spet- taculi, a cui la moltitudine apporta assai oruamento. Voglio adunque che questo e tutti gli altri, dall'armeggiare in fora, faccia il nostro cortegiano come cosa che sua pro- fessione non sia e di che mostri non cercar o aspettar laude alcuna, ne% si conosca che molto studio o tempo vi metta, avvenga che eccellentemente lo faccia; ne% sia come alcuni che si dilettano di musica e parlando con chi si sia, sempre che si fa qualche pausa nei ragionamenti, comin- ciano sotto voce a cantare; altri caminando per le strade e per le chiese vanno sempre ballando; altri, incontrandosi in piazza o dove si sia con qualche amico suo, si metton su*bito in atto di giocar di spada o di lottare, secondo che piu* si dilettano --. Quivi disse messer Cesare Gonzaga: -Meglio fa un cardinale giovane che avemo in Roma, il quale, perche% si sente aiutante della persona, conduce tutti quelli che lo vanno a visitare, ancor che mai piu* non gli abbia veduti, in un suo giardino ed invitagli con gran- dissima instanzia a spogliarsi in giuppone e giocar seco a saltare. XI. Rise messer Federico; poi suggiunse: -- Sono alcuni altri esercizi, che far si possono nel publico e nel privato, come e* il danzare; ed a questo estimo io che debba aver rispetto il cortegiano; perche% danzando in presenzia di molti ed in loco pieno di populo parmi che si gli convenga servare una certa dignita*, temperata pero* con leggiadra ed aerosa dolcezza di movimenti; e benche% si senta leggerissimo e che abbia tempo e misura assai, non entri in quelle pre- stezze de' piedi e duplicati rebattimenti, i quali veggiamo che nel nostro Barletta stanno benissimo e forse in un gen- tilom sariano poco convenienti; benche% in camera priva- tamente, come or noi ci troviamo, penso che licito gli sia c questo, e ballar moresche e brandi; ma in publico non cosi, fuor che travestito, e benche% fosse di modo che ciascun lo conoscesse, non da* noia; anzi per mostrarsi in tai cose nei spettaculi publici, con arme e senza arme, non e* miglior via di quella; perche% lo esser travestito porta seco una certa liberta* e licenzia, la quale tra l'altre cose fa che l'omo po pigliare forma di quello in che si sente valere, ed usar dili- genzia ed attillatura circa la principal intenzione della cosa in che mostrar si vole, ed una certa sprezzatura circa quello che non importa, il che accresce molto la grazia: come saria vestirsi un giovane da vecchio, ben pero* con abito disciolto, per potersi mostrare nella gagliardia; un cavaliero in forma di pastor selvatico o altro tale abito, ma con perfetto cavallo, e leggiadramente acconcio secondo quella intenzione; perche% su*bito l'animo de' circonstanti corre ad imaginar quello che agli occhi al primo aspetto s'ap- presenta; e vedendo poi riuscir molto maggior cosa che non prometteva quell'abito, si diletta e piglia piacere. Pero* ad un principe in tai giochi e spettaculi, ove inter- venga fizione di falsi visaggi, non si converria il voler mantener la persona del principe proprio, perche% quel piacere che dalla novita* viene ai spettatori mancheria in gran parte, che% ad alcuno non e* novo che il principe sia il principe; ed esso, sapendosi che, oltre allo esser principe, vol avere ancor forma di principe, perde la liberta* di far tutte quelle cose che sono fuor della dignita* di principe; e se in questi giochi fosse contenzione alcuna, massimamente con arme, poria ancor far credere di voler tener la persona di principe per non esser battuto, ma riguardato dagli altri; oltra che, facendo nei giochi quel medesimo che dee -- far da dovero quando fosse bisogno, levaria l'autorita* al vero e pareria quasi che ancor quello fosse gioco; ma in tal caso, spogliandosi il principe la persona di principe e mescolandosi egualmente con i minori di se%, ben pero* di modo che possa esser conosciuto, col rifutare la grandezza piglia un'altra maggior grandezza, che e* il voler avanzar gli altri non d'autorita* ma di virtu*, e mostrar che 'l valor suo non e* accresciuto dallo esser principe. XII. Dico adunque che 'l cortegiano dee in questi spettaculi d'arme aver la medesima avvertenzia , secondo il grado suo. Nel volteggiar poi a cavallo, lottar, correre e saltare, piacemi molto fuggir la moltitudine della plebe, o almeno lasciarsi veder rarissime volte; perche% non e* al mondo cosa tanto eccellente, della quale gli ignoranti non si sazieno e non tengan poco conto, vedendola spesso. Il medesimo giudico della musica; pero* non voglio che 'l nostro cortegiano faccia come molti, che su*bito che son giunti ove che sia, e alla presenzia ancor di signori de' quali non abbiano notizia alcuna, senza lasciarsi molto pregare si metteno a far cio* che sanno e spesso ancor quel che non sanno; di modo che par che solamente per quello effetto siano andati a farsi vedere e che quella sia la loro principal professione. Venga adunque il cortegiano a far musica come a cosa per passar tempo e quasi sforzato, e non in presenzia di gente igno- bile, ne% di gran moltitudine; e benche% sappia ed intenda cio* che fa, in questo ancor voglio che dissimuli il studio e la fatica che e* necessaria in tutte le cose che si hanno a far bene, e mostri estimar poco in se stesso questa condizione, ma, col farla eccellentemente, la faccia estimar assai dagli altri. XIII. Allor il signor Gaspar Pallavicino, -- Molte sorti di mu- sica, -- disse, -- si trovano, cosi di voci vive, come di instru- menti; pero* a me piacerebbe intendere qual sia la migliore tra tutte ed a che tempo debba il cortegiano operarla. -- Bella musica, -- rispose messer Federico, -- parmi il cantar bene a libro sicuramente e con bella maniera; ma ancor molto piu* il cantare alla viola perche% tutta la dolcezza consiste quasi in un solo, e con molto maggior attenzion si nota ed intende il bel modo e l'aria non essendo occupate le orecchie in piu* che in una sol voce, e meglio ancor vi si disceme ogni piccolo errore; il che non accade cantando in compagnia perche% l"uno aiuta l'altro. Ma sopra tutto parmi gratissimo il cantare alla viola per recitare; il che tanto di venusta* ed efficacia aggiunge alle parole, che e* gran mara- viglia. Sono ancor armoniosi tutti gli instrumenti da tasti, perche% hanno le consonanzie molto perfette e con facilita* vi si possono far molte cose che empiono l'animo di musicale dolcezza. E non meno diletta la musica delle quattro viole -- da arco, la quale e* soavissima ed artificiosa. Da* omamento e grazia assai la voce umana a tutti questi instrumenti, de' quali voglio che al nostro cortegian basti aver notizia; e quanto piu* pero* in essi sara* eccellente, tanto sara* meglio, senza impacciarsi molto di quelli che Minerva refiuto* ed Alcibiade, perche% pare che abbiano del schifo. Il tempo poi nel quale usar si possono queste sorti di musica estimo io che sia, sempre che l'omo si trova in una domestica e cara compagnia, quando altre facende non vi sono; ma sopra tutto conviensi in presenzia di donne, perche% quegli aspetti indolciscono gli animi di chi ode e piu* i fanno pene- trabili dalla suavita* della musica, e ancor svegliano i spiriti di chi la fa; piacemi ben, come ancor ho detto, che si fugga la moltitudine, e massimamente degli ignobili. Ma il condi- mento del tutto bisogna che sia la discrezione; perche% in effetto saria impossibile imaginar tutti i casi che occorrono; e se il cortegiano sara* giusto giudice di se stesso, s'accommo- dera* bene ai tempi e conoscera* quando gli animi degli auditori saranno disposti ad udire, e quando no; conoscera* l'eta* sua; che% in vero non si conviene e dispare assai vedere un omo di qualche grado, vecchio canuto e senza denti, pien di rughe, con una viola in braccio sonando, cantare in mezzo d'una compagnia di donne, avvenga ancor che mediocremente lo facesse, e questo, perche% il piu* delle volte cantando si dicono parole amorose e ne' vecchi l"amor e* cosa ridicula; benche% qualche volta paia che egli si diletti, tra gli altri suoi miracoli, d'accendere in dispetto degli anni i cori agghiacciati. XIV. Rispose allora il Magnifico: -- Non private, messer Fede- rico, i poveri vecchi di questo piacere; perche% io gia* ho conosciuti omini di tempo , che hanno voci perfettissime c mani dispostissime agli instrumenti , molto piu* che alcuni giovani. -- Non voglio, -- disse messer Federico, -- privare i vecchi di questo piacere, ma voglio ben privar voi e queste donne del ridervi di quella inezia ; e se vorranno i vecchi cantare alla viola, faccianlo in secreto e solamente per levarsi dell'animo que' travagliosi pensieri e gravi molestie di che la vita nostra e* piena, e per gustar quella divinita* ch'io credo che nella musica sentivano Pitagora e Socrate. E se bene non la eserciteranno, per aver fattone gia* nel- l'animo un certo abito la gustaran molto piu* udendola, che chi non ne avesse cognizione; perche%, si* come spesso le braccia d'un fabro, debile nel resto, per esser piu* esercitate sono piu* gagliarde che quelle de un altro omo robusto, ma non assueto a faticar le braccia, cosi* le orecchie esercitate nell'armonia molto meglio e piu* presto la discemeno e con molto maggior piacere la giudicano, che l"altre, per bone ed acute che siano, non essendo versate nelle varieta* delle consonanzie musicali; perche% quelle modulazioni non entrano, ma senza lassare gusto di se% via trapassano da canto l'orecchie non assuete d'udirle; avvenga che insino le fiere sentono qualche dilettazion della melodia. Questo e* adunque il piacer, che si conviene ai vecchi pigliare della musica. Il medesimo dico del danzare; perche% in vero questi esercizi si deono lasciare prima che dalla eta* siamo sforzati a nostro dispetto lasciargli. -- Meglio e* adunque, -- rispose quivi il signor Morello quasi adirato, -- esclu- dere tutti i vecchi e dir che solamente i giovani abbian da esser chiamati cortegiani --. Rise allor messer Federico, e disse: -- Vedete voi, signor Morello, che quelli che amano queste cose, se non son giovani, si studiano d'apparere; e pero* si tingono i capelli e fannosi la barba due volte la set- timana; e cio* procede che la natura tacitamente loro dice che tali cose non si convengono se non a' giovani --. Risero tutte le donne, perche% ciascuna comprese che quelle parole toccavano al signor Morello; ed esso parve che un poco se ne turbasse. XV. MIa sono ben degli altri intertenimenti con donne, -- suggiunse su*bito mcsser Federico, -- che si convengono ai vecchi. -- E quali? -- disse el signor Morello; -- dir le favole? -- E questo ancor, -- rispose messer Federico. -- ala ogni eta*, come sapete, porta seco i suoi pensieri ed ha qualche peculiar virtu* e qualche peculiar vicio; che% i vecchi, come che siano ordinariamente prudenti piu* che i giovani, piu* continenti e piu* sagaci, sono anco poi piu* par- latori, avari, difficili, timidi; sempre cridano in casa, asperi ai figlioli, vogliono che ognun faccia a modo loro; e per con- trario i giovani, aimosi, liberali, sinceri, ma pronti alie risse, volubili, che amano e disamano in un punto, dati a tutti i lor piaceri, nimici a chi lor ricorda il bene. Ma di tutte le eta* la virile e* piu* temperata, che gia* ha lassato le parti male della gioventu* ed ancor non e* pervenuta a quelle della vecchiezza. Questi adunque, posti quasi nelle estre- mita*, bisogna che con la ragion sappiano correggere i -- vicii che la natura porge. pero* deono i vecchi guardarse dal molto laudar se stessi e dall'altre cose viciose che avemo detto esser loro proprie, e valersi di quella prudenzia e cognizion che per lungo uso avranno acquistata, ed esser quasi oraculi a cui ognun vada per consiglio, ed aver grazia in dir quelle cose che sanno, accommodatamente ai pro- positi, accompagnando la gravita* degli anni con una certa temperata e faceta piacevolezza. In questo modo saranno boni cortegiani ed interterrannosi bene con omini e con donne ed in ogni tempo saranno gratissimi, senza cantare o danzare; e quando occorrera* il bisogno, mostreranno il valor loro nelle cose d'importanzia. XVI. Questo medesimo rispetto e giudicio abbian i giovani, non gia* di tener lo stile dei vecchi, che% quello che all'uno conviene non converrebbe in tutto all'altro, e suolsi dir che ne' giovani troppa saviezza e* mal segno, ma di corregger in se% i vicii naturali. Pero* a me piace molto veder un giovane, e massimamente nell'arme, che abbia un poco del grave e del taciturno; che stia sopra di se%, senza que' modi inquieti che spesso in tal eta* si veggono; perche% par che abbian non so che di piu* che gli altri giovani. Oltre a cio* quella maniera cosi* riposata ha in se% una certa fierezza riguardevole, perche% par mossa non da ira ma da giudicio, e piu* presto governata dalla ragione che dallo appetito; e questa quasi sempre in tutti gli omini di gran core si conosce; e medesimamente vedemola negli animali bruti, che hanno sopra gli altri nobilita* e fortezza, come nello leone e nella aquila; ne% cio* e* fuor di ragione, perche% quel movimento impetuoso e su*bito, senza parole o altra dimostrazion di collera, che con tutta la forza unitamente in un tratto, quasi come scoppio di bombarda, erumpe dalla quiete, che e* il suo contrario, e* molto piu* violento e furioso che quello che, crescendo per gradi, si riscalda a poco a poco. Pero* questi che, quando son per far qualche impresa, parlan tanto e saltano, ne% pos- sono star fermi, pare che in quelle tali cose si svampino e, come ben dice il nostro messer Pietro Monte, fanno come i fanciulli, che andando di notte per paura cantano, quasi che con quel cantare da se stessi si facciano animo. Cosi adunque come in un giovane la gioventu* riposata e matura e* molto laudevole, perche% par che la leggerezza, che e* vizio peculiar di quella eta*, sia temperata e corretta, cosi* in un vecchio e* da estimare assai la vecchiezza verde e viva, perche% pare che "l vigor dell'animo sia tanto, che riscaldi e dia forza a quella debile e fredda eta* e la mantenga in quello stato mediocre), che e* la miglior parte della vita nostra. XVII. Ma in somma non bastaranno ancor tutte queste condi- zioni del nostro cortegiano per acquistar uella uni l -- grazia de' signori, cavalieri e donne, se non ara* insieme una gentil ed amabile manera nel conversare cottidiano- e di que- sto credo veramente che sia difficile dar regola alcuna per le infinite e varie cose che occorrono nel conversare, essendo che tra tutti gli omini del mondo non si trovano dui, che siano d"animo totalmente simili. Pero* chi ha da accommo- darsi nel conversare con tanti, bisogna che si guidi col suo giudicio proprio e, conoscendo le differenzie dell'uno e del- l'altro, ogni di* muti stile e modo, secondo la natura di quelli con chi a conversar si mette. Ne% io per me altre regole circa cio* dare gli saprei eccetto le gia* date, le quali sin da fan- ciullo, confessandosi, imparo* il nostro signor Morello --. Rise quivi la signora Emilia e disse: -- Voi fuggite troppo la fatica, messer Federico: ma non vi verra* fatto, che% pur Signora non avessi che dire? -- rispose messer Federico. Disse la signora Emilia: -- Qui si vedera* il vostro ingegno; e se e* vero quello ch'io gia* ho inteso, essersi trovato omo tanto ingenioso ed eloquente, che non gli sia mancato subietto per comporre un libro in laude d'una mosca, altri in laude della febre quartana, un altro in laude del calvizio, non da* il core a voi ancor di saper trovar che dire per una sera sopra la cortegiania? -- Ormai, -- rispose messer Federico, -- tato ne avemo ragionato, che ne sariao fatti doi libri; ma poiche% non mi vale escusazione, diro* pur fin che a voi paia ch'io abbia satisfatto, se non all'obligo, almeno al poter mio. XVIlI. Io estimo che la conversazione, alla quale dee principal- mente attendere il cortegiano con ogni suo studio per farla grata, sia quella che avera* col suo principe; e benche% questo nome di conversare importi una certa parita*, che pare che non possa cader tra'l signore e 'l servitore, pur noi per ora la chiamaremo cosi*. Voglio adunque che 'l cortegiano, oltre lo aver fatto ed ogni di* far conosccre ad ognuno se% esser di quel valore che gia* avemo detto, si volti con tutti i pen- sieri e forze dell'animo suo ad amare e quasi adorare il prin- cipe a chi serve sopra ogni altra cosa; e le voglie sue e costumi e modi tutti indrizzi a compiacerlo --. Quivi non aspet- tando piu*, disse Pietro da Napoli: -- Di questi cortegiani oggidi* trov'arannosi assai, perche' mi pare che in poche parole ci abbiate dipinto un nobile adulatore. -- Voi vi ingannate assai, -- rispose messer Federico; -- perche% gli adulatori non amano i signori ne% gli amici, il che io vi dico che voglio che sia principalmente nel nostro cortegiano; e 'l compia- cere e secondar le voglie di quello a chi si serve si po far senza adulare, perche% io intendo delle voglie che siano ragio- nevoli ed oneste, o vero di quelle che in se% non sono ne% bone ne% male, come saria il giocare, darsi piu* ad uno esercizio che ad un altro; ed a questo voglio che il cortegiano si ac- commodi, se ben da natura sua vi fosse alieno, di modo che, sempre che 'l signore lo vegga, pensi che a parlar gli abbia di cosa che gli sia grata; il che interverra*, se in costui sara* il bon giudicio per conoscere cio* che piace al principe, e lo ingegno e la prudenzia per sapersegli accommodare, e la deliberata volunta* per farsi piacer quello che forse da natura gli despiacesse; ed avendo queste avvertenze, inanzi al principe non stara* mai di mala voglia ne% melanconico, ne% cosi* tacitumo, come molti che par che tenghino briga coi patroni, che e* cosa veramente odiosa. Non sara* male*- dico, e specialmente dei suoi signori; il che spesso inter- viene, che% pare che nelle corti sia una procella che porti seco questa condizione che sempre quelli che sono piu* beneficati dai signori, e da bassissimo loco ridutti in alto stato, sempre si dolgono e dicono mal d'essi; il che e* disconveniente, non solamente a questi tali, ma ancor a quelli che fossero mal trattati. Non usara* il nostro cortegiano prosonzione sciocca- non sara* apportator di nove fastidiose; non sara* inavver- tito in dir talor parole che offendano in loco di voler com- piacere; non sara* ostinato e contenzioso, come alcuni, che par che non godano d'altro che d'essere molesti e fasti- diosi a guisa di mosche e fanno profession di contradire dispettosamente ad ognuno senza rispetto; non sara* cian- ciatore, vano o bugiardo, vantatore ne% adulatore inetto, ma modesto e ritenuto, usando sempre, e massimamente in publico, quella reverenzia e rispetto che si conviene al ser- vitor verso il signor; e non fara* come molti i quali, incontran- dosi con qualsivoglia gran principe, se pur una sol volta gli hanno parlato, se gli fanno inanti con un certo aspetto ridente e da amico, cosi* come se volessero accarezzar un suo equale, o dar favor ad un minore di se%. Rarissime volte o quasi mai non domandera* al signore cosa alcuna per se stesso, accio* che quel signor, avendo rispetto di negarla cosi* a lui stesso, talor non la conceda con fastidio, che e* molto peggio. Domandando ancor per altri, osservera* discretamente i tempi e domandera* cose oneste e ragio- nevoli; ed assettara* talmente la petizion sua, levandone quelle parti che esso conoscera* poter dispiacere e facili- tando con destrezza le difficulta*, che 'l signor la conce- dera* sempre, o se pur la negara*, non credera* aver offeso colui a chi non ha voluto compiacere: perche% spesso i signori, poi che hanno negato una grazia a chi con molta importu- nita* la domanda, pensano che colui che l'ha domandata con tanta instanzia la desiderasse molto; onde, non avendo potuto ottenerla, debba voler male a chi gliel'ha negata; e per questa credenza essi cominciano ad odiare quel tale, e mai piu* nol possono vedere con bon occhio. XIX. Non cerchera* d'intromettersi in camera o nei lochi secreti -- col signore suo non essendo richiesto, se ben sara* di molta autorita*; perche% spesso i signori, quando stanno privata- mente, amano una certa liberta* di dire e far cio* che lor piace, e pero* non vogliono essere ne% veduti ne% uditi da persona da cui possano esser giudicati; ed e* ben conveniente. Onde quelli che biasimano i signori che tengono in camera persone di non molto valore in altre cose che in sapergli ben servire alla persona, parmi che facciano errore, perche% non so per qual causa essi non debbano aver quella liberta* per relassare gli animi loro, che noi ancor volemo per relassare i nostri. Ma se 'l cortegiano, consueto di trattar cose importanti, si ritrova poi secretamente in camera, dee vestirsi un'altra persona, e differir le cose severe ad altro loco e tempo ed attendere a ragionamenti piacevoli e grati al signor suo, per non impedirgli quel riposo d'animo. Ma in questo ed in ogni altra cosa sopra tutto abbia cura di non venirgli a fastidio ed aspetti che i favori gli siano offerti, piu* presto che uccellargli cosi* scopertamente come fan molti, che tanto avidi ne sono, che pare che, non conseguendogli, abbiano da perder la vita; e se per sorte hanno qualche disfavore, o vero veggono altri esser favoriti, restano con tanta angonia, che dissimular per modo alcuno non possono quella invidia; onde fanno ridere di se% ognuno e spesso sono causa che i signori dian favore a chi si sia solamente per far lor dispetto. Se poi ancor si ritrovano in favor che passi la mediocrita*, tanto si inebriano in esso, che restano impediti d'allegrezza; ne% par che sappian cio* che si far delle mani ne% dei piedi e quasi stanno per chiamar la brigata che venga a vedergli e congratularsi seco, come di cosa che non siano consueti mai piu* d'avere. Di questa sorte non voglio che sia il nostro cortegiano. Voglio ben che ami i favori, ma non pero* gli estimi tanto, che non paia poter anco star senz'essi; e quando gli consegue, non mostri d'esservi dentro novo ne% forestiero, ne% maravigliarse che gli siano offerti; ne% gli rifuti di quel modo che fanno alcuni, che per vera ignoranzia restano d'accettargli e cosi* fanno vedere ai circonstanti che se ne conoscono in- degni. Dee ben l'omo star sempre un poco piu* rimesso che non comporta il grado suo; e non accettar cosi* facil- mente i favori ed onori che gli sono offerti, e rifutargli mode- stamente, mostrando estimargli assai, con tal modo pero*, che dia occasione a chi gli offerisce d'offerirgli con molto maggior instanzia; perche% quanto piu* resistenzia con tal modo s'usa nello accettargli, tanto piu* pare a quel principe che gli concede d'esser estimato e che la grazia che fa tanto sia maggiore, quanto piu* colui che la riceve mostra apprez- zarla e piu* di essa tenersi onorato. E questi sono i veri e sodi favori, e che fanno l'omo esser estimato da chi di fuor li vede; perche%, non essendo mendicati, ognun Pre- sume che nascano da vera virtu*; e tanto piu*, quanto sono accompagnati dalla modestia. XX. Disse allor messer Cesare Gonzaga: -- Parmi che abbiate rubato questo passo allo Evangelio, dove dice: (( Quando sei invitato a nozze, va' ed asse*ttati nell'infimo loco, accio* che, venendo colui che t'ha invitato, dica: Amico, ascendi piu* su; e cosi* ti sara* onore alla presenzia dei convitati )) --. Rise messer Federico e disse: -- Troppo gran sacrilegio sa- rebbe rubare allo Evangelio; ma voi siete piu* dotto nella Sacra Scrittura ch'io non mi pensava; -- poi suggiuisse. -- Vedete come a gran pericolo si mettano talor quelli che temerariamente inanzi ad un signore entranto in ragiona- mento, senza che altri li ricerchi; e spesso quel signore, per far loro scomo, non risponde e volge il capo ad un"altra mao, e se pur risponde loro, ognun vede che lo fa con fastidio. Per aver adunque favore dai signori, non e* miglior via che meritargli; ne% bisogna che l'omo si confidi vedendo un altro che sia grato ad un principe per qualsivoglia cosa di dover, per imitarlo, esso ancor medesimamente venire a quel grado; perche% ad ognun non si convien ogni cosa e trovarassi talor un omo, il qual da natura sara* tanto pronto alle facezie, che cio* che dira* portera* seco il riso e parera* che sia nato solamente per quello; e s'un altro che abbia manera di gravita*, avvenga che sia di bonissimo ingegno, vorra* mettersi far il medesimo, sara* freddissimo e disgraziato, di sorte che fara* stomaco a chi l'udira* e riuscira* a punto quell'asino, che ad imitazion del cane volea scherzar col patrone. pero* bisogna che ognun conosca se stesso e le forze sue ed a quello s'accommodi, e consideri quali cose ha da imitare e quali no. XXI. -- Prima che piu* avanti passate, -- disse quivi Vincenzio ( Calmeta, -- s'io ho ben inteso, parmi che dianzi abbiate detto che la miglior via per conseguir favori sia il meritargli; e che piu* presto dee il cortegiano aspettar che gli siano offerti, che prosuntuosamente ricercargli. Io dubito assai che questa regula sia poco al proposito e parmi che la esperienzia ci faccia molto ben chiari del contrario; perche% oggidi* pochissimi sono favoriti da' signori, eccetto i prosuntuosi; e so che voi potete esser bon testimonio d'alcuni, che, ritrovandosi in poca grazia dei lor pri*ncipi, solamente con la prosunzione si son loro fatti grati; ma quelli che per modestia siano asce- si, io per me non cognosco ed a voi ancor do* spacio di pen- sarvi, e credo che pochi ne trovarete. E se considerate la corte di Francia, la qual oggidi* e* una delle piu* nobili de Cristianita*, trovarete che tutti quelli che in essa hanno grazia universale tengon del prosuntuoso; e non solamente l'uno con l'altro, ma col re medesimo. -- Questo non dite gia*, -- rispose messer Federico; -- anzi in Francia sono modestissimi e cortesi gentilomini; vero e* che usano una certa liberta* e domestichezza senza cerimonia, la qual ad essi e* propria e naturale; e pero* non si dee chiamar prosunzione, perche% in quella sua cosi fatta maniera, benche% ridano e piglino piacere dei prosuntuosi, pur apprezzano molto quelli che loro paiono aver in se% valore e modestia --. Rispose il Calmeta: -- Guardate i Spagnoli i quali par che siano maestri della cortegiania e considerate quanti ne trovate, che con donne e con signori non siano prosuntuosissimi; e tanto piu* de% Franzesi, quanto che nel -- primo aspetto mostrano grandissima modestia: e veramente in cio* sono discreti perche%, come ho detto, i signori de% nostri tempi tutti favoriscono que% soli che hanno tai costumi. XXII. Rispose allor messer Federico: -- Non voglio gia* compor- tar, messer Vincenzio, che voi questa nota diate ai signori de% nostri tempi; perche% pur ancor molti sono che amano la modestia, la quale io non dico pero* che sola basti per far l%uom grato; dico ben, che quando e* congiunta con un gran valore, onora assai chi la possede; e se ella di se stessa tace, l%opere laudevoli parlano largamente, e son molto piu* mara- vigliose che se fossero compagnate dalla prosunzione e teme- rita*. Non voglio gia* negar che non si trovino molti Spagnoli prosuntuosi; dico ben che quelli che sono assai estimati, per il piu* sono modestissimi. Ritrovansi poi ancor alcun%altri tanto freddi che fuggono il consorzio degli omini troppo fuor di modo, e passano un certo grado di mediocrita*, tal che si fanno estimare o troppo timidi o troppo superbi; e questi per niente non laudo, ne% voglio che la modestia sia tanto asciutta ed a*rrida, che diventi rusticita*. Ma sia il corte- giano, quando gli vien in proposito, facundo e nei discorsi de% stati prudente e savio, ed abbia tanto giudicio% che sappia accommodarsi ai costumi delle nazioni ove si ritrova; poi nelle cose piu* basse sia piacevole e ragioni ben d%ogni cosa; ma sopra tutto tenda sempre al bene: non invidioso, non maldicente; ne% mai s%induca a cercar grazia o favor per via viciosa, ne% per mezzo di mala sorte --. Disse allora il Calmeta: -- Io v%assicuro che tutte l%altre vie son molto piui dubbiose e piu* lunghe, che non e* questa che voi biasimate; perche% oggidi*, per replicarlo un%altra volta, i signori non amano se non que% che son volti a tal camino. -- Non dite cosi, -- rispose allor messer Federico, -- perche% questo sarebbe troppo chiaro argumento che i signori de% nostri tempi fossero tutti viciosi e mali; il che non e*, perche% pur se ne trovano alcuni di boni. Mia se %l nostro cortegiano per sorte sua si trovera* essere a servicio d%un che sia vicioso e maligno, su*bito che lo conosca, se ne levi, per non provar quello estremo affanno che senton tutti i boni che serveno ai mali. -- Bisogna pregar Dio, -- rispose il Calmeta, -- che ce gli dia boni, perche% quando s%hanno e* forza patirglii tali, quali sono; perche% infiniti rispetti astringono ii chi e* gentilomo, poi che ha cominciato a servire ad un patrone, a non lasciarlo; ma la disgrazia consiste nel principio; e sono i cortegiani in questo caso alla condizion di que% mal av- venturati uccelli, che nascono in trista vallei. -- A me pare, -- disse messer Federico, -- che %l debito debba valer piu* che tutti i rispetti; e purche% un gentilomo non lassi il patrone quando fosse in su la guerra o in qualche avver- sita*, di sorte che si potesse credere che cio* facesse per secondar la fortuna, o per parergli che gli mancasse quel mezzo del qual potesse trarre utilita*, da ogni altro tempo credo che possa con ragion e debba levarsi da quella servitu*, che tra i boni sia per dargli vergogna; perche% ognun presume che -- chi serve ai boni sia bono e chi serve ai mali sia malo. XXIII. -- Vorrei, -- disse allor il signor Ludovico pio, -- che voi mi chiariste un dubbio ch%io ho nella mente; il qual e*, se un gentilomo, mentre che serve ad un principe, e* obligato ad ubidirgli in tutte le cose che gli commanda, ancor che fossero disoneste e vituperose. -- In cose disoneste non siamo noi obligati ad ubedire a persona alcuna, -- respose messer Federico. -- E come, -- replico* il signor Ludovico, -- s%io staro* ai* servizio d%un principe il qual mi tratti bene, e si confidi ch%io debba far per lui cio* che far si po, comman- dandomi ch%io vada ad ammazzare un omo, o far qualsivoglia altra cosa, debbo io rifutar di farla? -- Voi dovete, -- rispose messer Federico, -- ubidire al signor vostro in tutte le cose che a lui sono utili ed onorevoli, non in quelle che gli sono di danno e di vergogna; pero* se esso vi comandasse che faceste un tradimento, non solamente non sete obligato a farlo, ma sete obligato a non farlo, e per voi stesso, e per non esser miniistro della vergogna del signor vostro. Vero e* che molte cose paiono al primo aspetto bone, che sono male, e molte paiono male, e pur son bone. Pero* e* licito talor per servicio de% suoi signori ammazzare non un omo, ma diece milia, e far molt%altre cose, le quali, a chi non le consi- derasse come si dee, pareriano male, e pur non sono --. Rispose allor il signor Gaspar pallavicino: -- Deh, per vostra fe%, ragionate un poco sopra questo, ed insegnateci come si possan discemer le cose veramente bone dalle apparenti. -- Perdonatemi, -- disse messer Federico; -- io non voglio entrar qua, che% troppo ci saria che dire, ma il tutto si rimetta alla discrezion vostra. XXIV. -- Chiaritemi almen un altro dubbio, -- replico* il signor Gasparo. -- E che dubbio? -- disse messer Federico. -- Questo, -- rispose il signor Gasparo: -- Vorrei sapere, essen- domi imposto da un mio signor terminatamente quello ch%io abbia a fare in una impresa o negocio di qualsivoglia sorte, s%io, ritrovandomi in fatto, e parendomi con l%ope- rare piu* o meno o altrimenti di quello che m%e* stato imposto, poter fare succedere la cosa piu* prosperamente o con piu* utilita* di chi m%ha dato tal carico, debbo io govemarmi secondo quella prima norma senza passar i termini del comandamento, o pur far quello che a me pare esser meglio? -- Rispose allora messer Federico: -- Io, circa questo, vi darei la sentenzia con lo esempio di Manlio Torquato che in tal caso per troppo pieta* uccise il figliolo, se lo estimasse degno di molta laude, che in vero non l%estimo; benche% ancor non oso biasmarlo, contra la opinion di tanti seculi: perche% senza dubbio e* assai pericolosa cosa desviare dai comanda- menti de% suoi maggiori, confidandosi piu* del giudicio di se stessi che di quegli ai quali ragionevolmente s%ha da ube- dire; perche% se per sorte il pensier vien fallito e la cosa suc- ceda male, incorre l%omo nell%error della disubidienza e ruina quello che ha da far senza via alcuna di escusazione o spe- ranza di perdono; se ancor la cosa vien secondo il desiderio, bisogna laudame la ventura e contentarsene. Pur con tal modo s%introduce una usanza d%estimar poco i comanda- menti de% superiori; e per esempio di quello a cui sara* successo bene, il quale forse sara* prudente ed ara* discorso con ragione ed ancor sara* stato aiutato dalla fortuna, vor- ranno poi mille altri ignoranti e leggeri pigliar sicurta* nelle cose importantissime di far a lor modo, e per mostrar d%esser savi ed aver autorita* desviar dai comandamenti de% signori: il che e* malissima cosa, e spesso causa d%infiniti errori. Ma io estimo che in tal caso debba quello a cui tocca considerar maturamente, e quasi porre in bilancia il bene e la commo- dita* che gli e* per venire del fare contra il commandamento ponendo che %l disegno suo gli succeda secondo la speranza; dall%altra banda, contrapesare il male e la incommodita* che gliene nasce, se per sorte, contrafacendo al commanda- mento, la cosa gli vien mal fatta; e conoscendo che %l danno possa esser maggiore e di piu* importanzia succedendo il male, che la utilita* succedendo il bene, dee astenersene e servar a puntino quello che imposto gli e*; e per contrario, se la utilita* e* per esser di piu* importanzia succedendo il bene, che %l danno succedendo il male, credo che possa ragio- nevolmente mettersi a far quello che piu* la ragione e %l giudicio suo gli detta, e lasciar un poco da canto quella propria forma del commandamento; per fare come i boni mercatanti, li quali per guadagnare l%assai, avventurano il poco, ma non l%assai per guadagnar il poco. Laudo ben che sopra tutto abbia rispetto alla natura di quel signore a cui serve e secondo quella si govemi; perche% se fosse cosi* austera, come di molti che se ne trovano, io non lo consi- gliarei mai, se amico mio fosse, che mutasse in parte alcuna l%ordine datogli: accio* che non gl%intravenisse quel che si scrive esser intervenuto ad un maestro ingegnero d%Ateniesi, al quale, essendo Publio Crasso Muziano in Asia e volendo combattere una terra, mando* a dimandare un de% dui alberi da nave che esso in Atene avea veduto, per far uno ariete da battere il muro, e disse voler il maggiore. L%ingegnero, come quello che era intendentissimo, conobbe quel mag- giore esser poco a proposito per tal effetto; e per esser il minore piu* facile a portare ed ancor piu* conveniente a far quella machina, mandollo a Muziano. Esso, intendendo come la cosa era ita, fecesi venir quel povero ingegnero e doman- datogli perche% non l%avea ubidito, non volendo ammettere ragione alcuna che gli dicesse, lo fece spogliar nudo e battere e frustare con verghe tanto che si mori, parendogli che in loco d%ubidirlo avesse voluto consigliarlo; si* che con questi cosi* severi omini bisogna usar molto rispetto. XXV. Ma lasciamo da canto omai questa pratica de% signori e vengasi alla conversazione coi pari o poco diseguali; che% ancor a questa bisogna attendere per esser universalmente piu* frequentata e trovarsi l%omo piu* spesso in questa, che in quella de% signori. Benche% son alcuni sciocchi, che se fossero in compagnia del maggior amico che abbiano al mondo, incontrandosi con un meglio vestito, su*bito a quel si attaccano; se poi gli ne occorre un altro meglio, fanno pur il medesimo. E quando poi il principe passa per le piazze, chiese, o altri lochi publici, a forza di cubiti si fanno far strada a tutti, tanto che se gli metteno al costato; e se ben non hanno che dirgli, pur lor voglion parlare e tengono lunga la diceria, e rideno, e batteno le mani e %l capo, per mostrar ben aver facende di importanzia, accio* che %l populo gli vegga in favore. Ma poiche% questi tali non si degnano di parlare se non coi signori, io non voglio che noi degnamo parlar d%essi. XXVI. Allora il Magnifico Iuliano, -- Vorrei, -- disse, -- messer Federico, poiche% avete fatto menzion di questi che s%ac- compagnano cosi* voluntieri coi ben vestiti, che ci mostraste di qual manera si debba vestire il cortegiano e che abito piu* se gli convenga, e circa tutto l%omamento del corpo in che modo debba govemarsi; perche% in questo veggiamo infi- nite varieta*; e chi si veste alla franzese, chi alla spagnola, chi vol parer tedesco; ne% ci mancano ancor di quelli che si vestono alla foggia de% Turchi; chi porta la barba, chi no. Saria adunque ben fatto saper in questa confusione eleggere il meglio --. Disse messer Federico: -- Io in vero non saprei dar regula determinata circa il vestire, se non che l%uom s%accommodasse alla consuetudine dei piu*; e poiche%, come voi dite, questa consuetudine e* tanto varia e che gli Italiani tanto son vaghi d%abbigliarsi alle altrui fogge, credo che ad ognuno sia licito vestirsi a modo suo. Ma io non so per qual fato intervenga che la Italia non abbia, come soleva avere, abito che sia conosciuto per italiano; che%, benche% lo aver posto in usanza questi novi faccia parer quelli primi goffissimi, pur quelli forse erano segno di liberta*, come questi son stati augurio di servitu*; il quale ormai parmi assai chiaramente adempiuto. E come si scrive che, avendo Dario l%anno prima che combattesse con Alessandro fatto acconciar la spada che egli portava a canto, la quale era persiana, alla foggia di Macedonia, fu interpretato dagli indovini che questo significava, che coloro, nella foggia de- quali Dario avea tramutato la forma della spada persiana. verriano a dominar la Persia; cosi l%aver noi mutato gli abiti italiani nei stranieri parmi che significasse, tutti quelli, negli abiti de% quali i nostri erano traformati, dever venire a subiugarci; il che e* stato troppo piu* che vero, che% ormai non resta nazione che di noi non abbia fatto preda, tanto che poco piu* resta che predare e pur ancor di predar non -- si resta. XXVII. Ma non voglio che noi entriamo in ragionamenti di fastidio; pero* ben sara* dir degli abiti del nostro cortegiano; i quali io estimo che, pur che non siano fuor della consue- tudine, ne% contrari alla professione, possano per lo resto tutti star bene, pur che satisfacciano a chi gli porta. Vero e* ch%io per me amerei che non fossero estremi in alcuna parte, come talor sol essere il franzese in troppo grandezza e %l tedesco in troppo piccolezza, ma come sono e l%uno e l%altro corretti e ridutti in meglior forma dagli Italiani. Piacemi ancor sempre che tendano un poco piu* al grave e riposato, che al vano; pero* parmi che maggior grazia abbia nei vestimenti il color nero, che alcun altro; e se pur non e* nero, che almen tenda al scuro; e questo intendo del vestir ordinario, perche% non e* dubbio che sopra l%arme piu* si convengan colori aperti ed allegri, ed ancor gli abiti festivi, trinzati, pomposi e superbi. Medesimamente nei spettacuh- publici di feste, di mascare e di tai cose; perche% cosi divisati portan seco una certa vivezza ed alacrita*, che in vero ben s%accompagna con l%arme e giochi; ma nel resto vorrei che mostrassino quel riposo che molto serva la nazion spagnola, perche% le cose estrinseche spesso fan testimonio delle intrinseche --. Allor disse messer Cesare Gonzaga: -- Questo a me daria poca noia perche%, se un gen- tilom nelle altre cose vale, il vestire non gli accresce ne% scema mai riputazione --. Rispose messer Federico: -- Voi dite il vero. Pur qual e* di noi che, vedendo passeggiar un genti- lomo con una robba addosso quartata di diversi colori , o vero con tante stringhette e fettuzze annodate e fregi traversati, non lo tenesse per pazzo o per buffone? -- Ne% pazzo, ne% buffone, -- disse messer Pietro Bembo, -- sarebbe costui tenuto da chi fosse qualche tempo vivuto nella Lom- bardia perche% cosi vanno tutti. -- Adunque, -- rispose la signora Duchessa ridendo, -- se cosi vanno tutti, opporre non se gli dee per vizio, essendo a loro questo abito tanto conveniente e proprio quanto ai Veneziani il portar le maniche a co*meo ed ai Fiorentini il capuzzo. -- Non parlo io, -- disse messer Federico, -- piu* della Lombardia che degli altri lochi, perche% d%ogni nazion se ne trovano e di sciocchi e d%avveduti. Ma per dir cio* che mi par d%importanzia nel vestire, voglio che %l nostro cortegiano in tutto l%abito sia pulito e delicato ed abbia una certa conformita* di modesta attillatura, ma non pero* di manera feminile o vana ne* piu* in una cosa che nell%altra, come molti ne vedemo che pongon tanto studio nella capigliara, che si scordao il resto; altri fan professione de denti, altri di barba altri di borzachini, altri di berrette, altri di cuffie; e coai* interven che quelle poche cose piu* culte paiono lor pre- state, e tutte l%altre che sono sciocchissime si conoscono per le loro. E questo tal costume voglio che fugga il nostro cortegiano, per mio consiglio; aggiungendovi ancor che debba fra se stesso deliberar cio* che vol parere e di quella -- sorte che desidera esser estimato, della medesima vestirsi, e far che gli abiti lo aiutino ad esser tenuto per tale ancor da quelli che non l%odono parlare, ne% veggono far opera- zione alcuna. -- A me non pare, -- disse allor el signor Gaspar Palla- vicino, -- che si convenga, ne% ancor che s%usi tra persone di valore giudicar la condicion degli omini agli abiti, e non alle parole ed alle opere, perche% molti s%ingannariano; ne% senza causa dicesi quel proverbio che l%abito non fa %l monaco. -- Non dico io, -- rispose messer Federico, -- che per questo solo s%abbiano a far i giudi*ci resoluti delle con- dizion degli omini, ne% che piu* non si conoscano per le parole e per l%opere che per gli abiti; dico ben che ancor l%abito non e* piccolo argomento della fantasia di chi lo porta, avvenga che talor possa esser falso; e non solamente questo, ma tutti i modi e costumi, oltre all%opere e parole, sono giudicio delie qualita* di colui in cui si veggono. -- E che cose trovate voi, -- rispose il signor Gasparo, -- sopra le quali noi possiam far giudicio, che non siano ne% parole ne% opere? -- Disse allor messer Federico: -- Voi sete troppo sottile loico. Ma per dirvi come io intendo, si trovano alcune operazioni che poi che son fatte restano ancora, come l%edificare, scrivere ed altre simili; altre non restano, come quelle di che io voglio ora intendere: pero* non chiamo in questo proposito che %l passeggiare, ridere, guardare e tai cose, siano operazioni; e pur tutto questo di fuori da* notizia spesso di quel dentro. Ditemi, non faceste voi giudicio che fosse un vano e legger omo quello amico nostro, del quale ragionammo pur questa mattina, su*bito che lo vedeste passeggiar con quel torzer di capo, dimenandosi tutto, ed invitando con aspetto benigno la brigata a cavarsegli la berretta? Cosi ancora quando vedete uno che guarda troppo intento con gli occhi stupidi a foggia d%insensato, o che rida cosi* scioccamente come que% mutoli gozzuti delle montagne di Bergamo, avvenga che non parli o faccia altro, non lo tenete voi per un gran babuasso? Vedete adunque che questi modi e costumi, che io non intendo per ora che siano operazioni, fanno in gran parte che gli omini siano conosciuti. XXIX. Ma un%altra cosa parmi che dia e lievi molto la riputa- zione, e questa e* la elezion degli amici coi quali si ha da tenere intrinseca pratica; perche% indubitatamente la ragion vol che di quelli che sono con stretta amicizia ed indissolubil compagnia congiunti, siano ancor le volunta*, gli animi, i giudi*ci e gli ingegni conformi. Cosi*, chi conversa con igno- ranti o mali e* tenuto per ignorante o malo; e per contrario chi conversa con boni e savi e discreti e* tenuto per tale; -- che% da natura par che ogni cosa volentieri si congiunga col suo simile. pero* gran riguardo credo che si convenga aver nel cominciar queste amicizie, perche% di dui stretti amici chi conosce l%uno, su*bito imagina l%altro esser della mede- sima condizione --. Rispose allor messer Pietro Bembo: -- Del restringersi in amicizia cosi* unanime, come voi dite, parmi veramente che si debba aver assai riguardo, non sola- mente per l%acquistar o perdere la riputazione, ma perche% oggidi* pochissimi veri amici si trovano, ne% credo che piu* siano al mondo quei Piladi ed Oresti, Tesei e Piritoi, ne% Scipioni e Lelii; anzi non so per qual destin interviene ogni di* che dui amici, i quali saranno vivuti in cordialissimo amore molt%anni, pur al fine l%un l%altro in qualche modo s%ingannano, o per malignita*, o per invidia, o per legge- rezza, o per qualche altra mala causa; e ciascun da* la colpa al compagno di quello, che forse l%mo e l%altro la merita. Pero* essendo a me intervenuto piu* d%una volta l%esser in- gannato da chi piu* amava e da chi sopra ogni altra persona aveva confidenzia d%esser amato, ho pensato talor da me a me che sia ben non fidarsi mai di persona del mondo, ne% darsi cosl in preda ad amico, per caro ed amato che sia, che senza riserva l%omo gli comunichi tutti i suoi pensieri come farebbe a se stesso; perche% negli animi nostri sono tante latebre e tanti recessi, che impossibil e* che prudenzia umana possa conoscer quelle simulazioni, che dentro nascose vi sono. Credo adunque che ben sia amare e serve l%un piu* che l%altro, secondo i meriti e %l valore; ma non pero* assicurarsi tanto con questa dolce esca d%amicizia, che poi tardi se n%abbiamo a pentire. XXX. Allor messer Federico, -- Veramente, -- disse, -- molto maggior saria la perdita che %l guadagno, se del consorzio umano si levasse quel supremo grado d'amicizia che, secondo me, ci da* quanto di bene ha in se% la vita nostra; e pero* io per alcun modo non voglio consentirvi che ragionevol sia, anzi mi daria il core di concludervi, e con ragioni evi- dentissime, che senza questa perfetta amicizia gli omini sariano molto piu* infelici che tutti gli altri animali; e se alcuni guastano, come profani, questo santo nome d%amicinia, non e* pero* da estirparla cosi* degli animi nostri e per colpa dei mali privar i boni di tanta felicita*. Ed io per me estimo che qui tra noi sia piu* di un par di amici, l%amor de% quali sia indissolubile e senza inganno alcuno, e per durar fin alla -- morte con le voglie conformi, non meno che se fossero quegli antichi che voi dianzi avete nominati; e cosi* interviene quando, oltre alla inclinazion che nasce dalle stelle, l%omo s%elegge amico a se% simile di costumi; e %l tutto intendo che sia tra boni e virtuosi, perche% l%amicizia de% mali non e* amicizia. Laudo ben che questo nodo cosi* stretto non com- prenda o leghi piu* che dui, che% altramente forse saria peri- coloso; perche%, come sapete, piu* difficilmente s%accordano tre instromenti di musica insieme, che dui. Vorrei adunque che %l nostro cortegiano avesse un precipuo e cordial amico, se possibil fosse, di quella sorte che detto avemo; poi, secondo %l valore e meriti, amasse, onorasse ed osservasse tutti gli altri, e sempre procurasse d%intertenersi piu* con gli esti- mati e nobili e conosciuti per boni, che con gli ignobili e di poco pregio; di manera che esso ancor da loro fosse amato ed onorato; e questo gli verra* fatto se sara* cortese, umano, liberale, affabile e dolce in compagnia, officioso e diligente nel servire e nell%aver cura dell%utile ed onor degli amici cosi* assenti come presenti, supportando i lor diffetti naturali e supportabili, senza rompersi con essi per piccol causa, e correggendo in se stesso quelli che amorevolnente gh saranno ricordati; non si anteponendo mai agli altri con cercar i primi e i piu* onorati lochi, ne% con fare come alcuni che par che sprezzino il mondo e vogliano con una certa austerita* molesta dar legge ad ognuno; ed oltre allo essere contenziosi in ogni minima cosa e fuor di tempo, riprender cio* che essi non fanno e sempre cercar causa di lamentarsi degli amici; il che e* cosa odiosissima. XXXI. Quivi essendosi fermato di parlare messer Federico, -- Vorrei, -- disse il signor Gasparo Pallavicino, -- che voi ragionaste un poco piu* minutamente di questo conversar con gli amici che non fate; che% in vero vi tenete molto al generale e quasi ci mostrate le cose per transito. -- Come per transito? -- rispose messer Federico. -- Vorreste voi forse che io vi dicessi ancor le parole proprie che si avessero ad usare? non vi par adunque che abbiamo ragionato a bastanza di questo? -- A bastanza parmi, -- rispose el signor Gasparo. -- Pur desidero io d%intendere qualche particu- larita* ancor della foggia dell%intertenersi con omini e con donne; la qual cosa a me par di molta importanzia, consi- derato che %l piu* del tempo in cio* si dispensai nelle corti; e se questa fosse sempre uniforme, presto verria a fastidio. -- A me pare, -- rispose messer Federico, -- che noi abbiam dato al cortegiano cognizion di tante cose, che molto ben po variar la conversazione ed accommodarsi alle qualita* delle persone con le quai ha da conversare, presuponendo che egli sia di bon giudicio e con quello si govemi, e secondo i tempi talor intenda nelle cose gravi, talor nelle feste e giochi. -- E che giochi? -- disse il signor Gasparo. Rispose allor messer Federico ridendo: -- Dimandiamone consiglio a fra Serafino, che ogni di ne trova de% novi. -- Senza mot- teggiare, -- replico* il signor Gasparo, -- parvi che sia vicio nel cortegiano il giocare alle carte ed ai dadi? -- A me no, -- disse messer Federico, -- eccetto a cui nol facesse troppo assiduamente e per quello lasciasse l%altre cose di maggior importanzia, o veramente non per altro che per vincer denari, ed ingannasse il compagno e perdendo mo- strasse dolore e dispiacere tanto grande, che fosse argo- mento d%avarizia --. Rispose il signor Gasparo: -- E che -- dite del gioco de% scacchi? -- Quello certo e* gentile interte- nimento ed ingenioso, -- disse messer Federico, -- ma parmi che un sol diffetto vi si trovi; e questo e* che se po sapeme troppo, di modo che a cui vol esser eccellente nel gioco de' scacchi credo bisogni consumarvi molto tempo e mettevi tanto studio, quanto se volesse imparar qualche nobil scienzia, o far qualsivoglia altra cosa ben d'importanzia; e pur in ultimo con tanta fatica non sa altro che un gioco; pero* in questo penso che intervenga una cosa rarissima, cioe* che la mediocrita* sia piu* laudevole che la eccellenzia --. Rispose il signor Gasparo: -- Molti Spagnoli trovansi eccellenti in questo ed in molti altri giochi, i quali pero* non vi mettono molto studio, ne% ancor lascian di far l%altre cose. -- Credete, -- rispose messer Federico, -- che gran studio vi mettano, benche% dissimulatamente. Ma quegli altri giochi che voi dite, oltre agli scacchi, forse sono come molti ch%io ne ho veduti fare pur di poco momento, i quali non serveno se non a far maravigliare il vulgo; pero* a me non pare che meri- tino altra laude ne% altro premio, che quello che diede Ales- sandro Magno a colui che, stando assai lontano, cosi* ben infilzava i ceci in un ago. XXXII. Ma perche% par che la fortuna, come in molte altre cose, cosi* ancor abbia grandissima forza nelle opinioni degli omini, vedesi talor che un gentilomo, per ben condizionato che egli sia e dotato di molte grazie, sara* poco grato ad un signore e, come se dice, non gli ara* sangue, e questo senza causa alcuna che si possa comprendere; pero* giungendo alla pre- senzia di quello e non essendo dagli altri per prima conosciuto, benche% sia arguto e pronto nelie risposte e si mostri bene nei gesti, nelle manere, nelle parole ed in cio* che si conviene, quel signore poco mostrara* d%estimarlo, anzi piu* presto gli fara* qualche scomo; e da questo nascera* che gli altri su*bito s%accommodaranno alla volunta* del signore e ad ognun parera* che quel tale non vaglia, ne% sara* persona che l%apprezzi o stimi, o rida de% suoi detti piacevoli, o ne tenga conto al- cuno; anzi cominciaranno tutti a burlarlo e dargli la caccia; ne% a quel meschino basteran bone risposte, ne% pigliar le cose come dette per gioco che% insino a% paggi si gli metteranno attorno, di sorta che, se fosse il piu* valoroso uomo del mondo, sara* forza che resti impedito e burlato. E per con- trario se %l principe se mostrara* inclinato ad un ignoran- tissimo, che non sappia ne% dir ne% fare, saranno spesso i co- stumi e i modi di quello, per sciocchi ed inetti che siano, laudati con le esclamazioni e stupore da ognuno, e parera* che tutta la corte lo ammiri ed osservi, e ch%ognun rida de% suoi motti e di certe arguzie contadinesche e fredde, che piu* presto devrian mover vomito che riso: tanto son fermi -- ed ostinati gli omini nelle opinioni che nascono da% favori e disfavori de% signori. Pero* voglio che %l nostro cortegiano, il meglio che po, oltre al valore s%aiuti ancora con ingegno ed arte; e sempre che ha d'andare in loco dove sia novo e non conosciuto, procuri che prima vi vada la bona opinion di se% che la persona, e faccia che ivi s%intenda che esso in altri lochi, appresso altri signori, donne e cavalieri, sia ben estimato; perche% quella fama che par che nasca da molti giudici genera una certa ferma credenza di valore, che poi, trovando gli animi cosi* disposti e preparati, facilmente con l%opere si mantiene ed accresce; oltra che si fugge quel fa- stidio ch%io sento, quando mi viene domandato chi sono e quale e* il nome mio. XXXIII. -- Io non so come questo giovi, -- rispose messcr Ber- nardo Bibiena; -- perche% a me piu* volte e* intervenuto e, credo, a molt%altri, che avendomi formato nell%animo, per detto di persone di giudicio, una cosa esser di molta eccel- lenzia prima che veduta l%abbia, vedendola poi, assai mi e* mancata e di gran lunga restato son ingannato di quello ch%io estimava; e cio* d'altro non e* proceduto che dall%aver troppo creduto alla fama ed aver fatto nell%animo mio un tanto gran concetto, che, misurandolo poi col vero, l%effetto, avvenga che sia stato grande ed eccellente, alla comparazion di quello che imaginato aveva, m%e* parso piccolissimo, Cosi* dubito ancor che possa intervenir del cortegiano. Pero* non so come sia bene dar queste aspettazioni e mandar innanzi quella fama; perche% gli animi nostri spesso formano cose alle quali impossibil e* poi corrispondere, e cosi* piu* se ne perde che non si guadagna --. Quivi disse messer Federico: -- Le cose che a voi ed a molt'altri riescono minori assai che la fama, son per il piu* di sorte, che l%occhio al primo aspetto le po giudicare; come se voi non sarete mai stato a Napoli o a Roma, sentendone ragionar tanto ima- ginarete piu* assai di quello che forse poi alla vista vi riuscira*; ma delle condizioni degli omini non intervien cosi*, perche% quello che si vede di fuori e* il meno. Pero* se %l primo giomo, sentendo ragionare un gentilomo, non comprenderete che in lui sia quel valore che avevate prima imaginato, non cosi* presto vi spogliarete della bona opinione come in quelle cose delle quali l%occhio su*bito e* giudice, ma aspettarete di di in di scoprir qualche altra nascosta virtu* tenendo pur ferma sempre quella impressione che v%e* nata dalle parole di tanti; ed essendo poi questo (come io presupongo che sia il nostro cortegiano) cosi* ben qualificato, ogn%ora meglio vi confermara* a credere a quella fama, perche% con l%opere ve ne dara* causa, e voi sempre estimarete qualche cosa piu* di quello che vederete. XXXIV. E certo non si po negar che queste prime impressioni non abbiano grandissima forza e che molta cura aver non vi si debba; ed accio* che comprendiate quanto importino-, dicovi che io ho a% miei di* conosciuto un gentilomo, il quale, avvenga che fosse di assai gentil aspetto e di modesti -- costumi ed ancor valesse nell%arme, non era pero* in alcuna di queste condizioni tato eccellente, che non se gli trovas- sino molti pari ed ancor superiori. Pur, come la sorte sua volse, intervenne che una donna si volto* ad amarlo ferven- tissimamente; e crescendo ogni di* questo amore per la dimo- strazion di correspondenzia che faceva il giovane, e non vi essendo modo alcun da potersi parlare insieme, spinta la donna da troppo passione, scoperse il suo desiderio ad un%altra donna, per mezzo della quale sperava qualche commodita*. Questa ne% di nobilta* ne% di bellezza non era punto inferior alla prima; onde intervenne che sentendo ragionare cosi* affettuosamente di questo giovane, il qual essa mai non aveva veduto, e conoscendo che quella donna, la quale ella sapeva ch%era discretissima e d%ottimo giudicio, l%amava estre- mamente, su*bito imagino* che costui fosse il piu* bello e %l piu* savio e %l piu* discreto ed in somma il piu* degno omo da esser amato, che al mondo si trovasse; e cosi*, senza vederlo, tanto fieramente se ne innamoro*, che non per l%amica sua ma per se stessa comincio* a far ogni opera per acquistarlo e farlo a se% corrispondente in amore; il che con poca fatica le venne fatto, perche% in vero era donna piu* presto da esser pregata, che da pregare altrui. Or udite bel caso. Non molto tempo appresso occorse che una lettera, la qual scrivea questa ultima donna allo amante, pervenne in mano d%un%altra pur nobilissima e di costumi e di bellezza rarissima, la quale essendo, come e* il piu* delle donne, curiosa e cupida di saper secreti, e massimamente d%altre donne a erse uesta lettera, e legendola comprese ch%era scritta con estremo affetto d%amore; e le parole dolci e piene di foco che ella lesse, prima la mossero a compassion di quella donna, perche% molto ben sapea da chi veniva la lettera ed a cui andava; poi tanta forza ebbero, che rivolgendole nell%animo e considerando di che sorte doveva esser colui che avea potuto indur quella donna a tanto amore, su*bito essa ancor se ne innamoro*; e fece quella lettera forse maggior effetto, che non averia fatto se dal giovane a lei fosse stata mandata. E come talor interviene che %l veneno in qualche vivanda preparato per un signore ammazza il primo che %l gusta, cosi* questa meschina, per esser troppo ingorda, bevve% quel veneno amoroso che per altrui era preparato. Che vi debbo io dire? la cosa fu assai palese ed ando* di modo, che molte donne oltre a queste, parte per far dispetto all%altre, parte per far come l%altre, posero ogni industria e studio per goder dell%amore di costui e ne fecero per un tempo alla grappa, come i fanciulli delle cerase; e tutto procedette dalla prima opinione che prese quella donna, vedendolo tanto amato da un%altra. XXXV. Or quivi ridendo rispose il signor Gasparo Pallavicino: -- Voi per confirmare il parer vostro con ragione m%alle- gate opere di donne, le quali per lo piu* son fuori d%ogni ragione; e se voi voleste dir ogni cosa, questo cosi favorito da tante donne dovea essere un nescio e da poco omo in effetto; perche% usanza loro e* sempre attaccarsi ai pegiori e, come le pecore, far quello che veggon fare alla prima, o bene o male che si sia; oltra che son tanto invidiose tra se%, che se costui fosse stato un monstro, pur averia voluto rubarsilo l%una all'altra --. Quivi molti cominciorono, e -- quasi tutti, a voler contradire al signor Gasparo; ma la signora Duchessa impose silenzio a tutti; poi, pur ridendo, disse: -- Se %l mal che voi dite delle donne non fosse tanto alieno dalla verita*, che nel dirlo piu* tosto desse carico e vergogna a chi lo dice che ad esse, io lassarei che vi fosse risposto; ma non voglio che col contradirvi con tante ragioni come si poria, siate rimosso da questo mal costume, accio* che del peccato vostro abbiate gravissima pena; la qual sara* la mala opinion che di voi pigliaran tutti quelli, che di tal modo vi sentiranno ragionare --. Allor messer Federico, -- Non dite, signor Gasparo, -- rispose, -- che le donne siano cosi fuor di ragione, se ben talor si moveno ad amar piu* per l%altrui giudicio che per lo loro; perche% i signori e molti savi omini spesso fanno il medesimo; e se licito e* dir il vero, voi stesso e noi altri tutti molte volte, ed ora ancor, credemo piu* alla altrui opinione che alla nostra propria. E che sia %l vero, non e* ancor molto tempo, che essendo appresentati qui alcuni versi sotto %l nome del Sanazaro, a tutti parvero molto eccellenti e furono laudati con le maraviglie ed esclamazioni; poi, sapendosi per certo che erano d%un altro, persero su*bito la reputazione e parvero men che mediocri. E cantandosi pur in presenzia della signora Duchessa un mottetto, non piacque mai ne% fu estimato per bono, fin che non si seppe che quella era compo- sizion di josquin de Pris. Ma che piu* chiaro segno volete voi della forza della opinione? Non vi ricordate che, bevendo voi stesso d%un medesimo vino, dicevate talor che era per- fettissimo, talor insipidissimo? e questo perche% a voi era persuaso che eran dui vini, l%un di Rivera di Genoa e l%altro di questo paese; e poi ancor che fu scoperto l%errore, per modo alcuno non volevate crederlo, tanto fermamente era confermata nell%animo vostro quella falsa opinione, la qual pero* dalle altrui parole nasceva. XXXVI. Deve adunque il cortegiano por molta cura nei prin- clpi di dar bona impression di se% e considerar come dannosa e mortal cosa sia lo incorrer nel contrario; ed a tal pericolo stanno piu* che gli altri quei che voglion far profession d%esser molto piacevoli, ed aversi con queste sue piacevolezze acqui- stato una certa liberta*, per la qual lor convenga e sia licito e fare e dire cio* che loro occorre cosi* senza pensarvi.. Pero* spesso questi tali entrano in certe cose, delle quai non sapendo uscire, voglion poi aiutarsi col far ridere; e quello ancor fanno cosi* disgraziatamente che non riesce, tanto che inducono in grandissimo fastidio chi gli vede ed ode, ed essi restano freddissimi. Alcuna volta, pensando per quello esser arguti e faceti, in presenzia d%onorate donne e spesso a quelle medesime, si mettono a dir sporchissime e diso- marchese Febus, che spesso l'ha vedute in Francia, e forse gli e* intravenuto 2 --. Rispose il marchese Febus: -- Io non ho vedutq far cosa in Fracia di queste, che non si faccia ancor in Italia3, ma ben cio* che hanno di bon gli Italiai, nei vestimenti, nel festeggiare, bachettare, armeg- giare ed in ogni altra cosa che a cortegian si convenga, tutto l'hano dai Franzesi. -- Non dico io, -- rispose messer Fede- rico, -- che ancor tra' Franzesi non si trovino de' gent-rliis- simi e modesti cavalieri; ed io per me n'ho conosciuti molti veramente degni d'ogni laude; ma pur alcuni se ne trovan poco riguardati 4; e, parlando generalmente, a me par che con gli Italiani piu* si confaccian 5 nei costumi i spagnoli che i Frazesi, perche% quella gravita* riposata 6 peculiar dei Spagnoli mi par molto piu* conveniente a noi altri che la pronta vivacita*, la qual nella nazion franzese quasi in ogni movimnto si conosce 7; il che in essi non disdice, anzi ha grazia, perche% loro e* cosi* naturale e propria, che non si vede in loro affettazione alcuna. Trovansi ben molti Italiani che vorriao pur sforzarsi de imitare quella manera; e non sanno far altro che crollar la testa parlando, e far riverenze in traverso 8 di mala grazia, e quando passeggian per la terra 9 caminar tanto forte 10, che i staffieri11 non possano lor tener drideto; e con questi modi par loro esser bon Franzesi, ed aver di quella liberta* ; la qual cosa in vero rare volte riesce, eccetto a quelli che son nutriti in Francia e da fanciWi hanno presa 13 quella manera. Il medesimo intervien del saper diverse lingue; il che io laudo molto nel cortegiano, e massimamente la spagnola e la franzese 11, perche il com- merzio dell'una e dell"altra nazion e* molto frequente in Italia e con noi sono queste due piu* conformi15 che alcuna dell'altre; e que' dui principi 16, per esser potentissimi nella guerra e splendidissimi nella pace, sempre hanno la corte -- piena di nobili cavalieri, che per tutto 'l mondo si spargono; ed a noi pur bisogna conversar con loro. XXXVIII. Or io non voglio seguitar piu minutamente in i dir cose troppo note, come che 'l nostro cortegian non debba far profession d'esser gran mangiatore, ne bevitore, ne% dissoluto in alcun mal costume, ne% laido 2 e mal assettato nel vivere, con certi modi da contadino, che chiamano 3 la zappa e l'aratro mille miglia di lontano; perche% chi e* di tal sorte, non solamente non s'ha da sperar che divenga bon corte- giao, ma non se gli po dar esercizio 4 conveniente, altro che di pascer le pecore. E per concluder dico, che bon saria che 'l cortegian sapesse perfettamente cio* che detto avemo convenirsigli, di sorte che tutto 'l possibile a lui fosse facile ed ognuno di lui si maravigliasse, esso di niuno; intendendo pero* che in questo non fosse una certa durezza5 superba ed inumana, come hanno alcuni, che mostrano non mara- vigliarsi delle cose che famio gli altri, perche essi presumon poterle far molto meglio, e col tacere le disprezzano, come indegne che di lor si parli; e quasi voglion far segno che niimo altro sia non che lor pari, ma pur capace d'intendere e massimamente la spagnola e la franzese 11, perchg il com. merzio dell'una e dell'altra nazion e* molto frequente in Italia e con noi sono queste due piu* conformi che alcuna dell'altre; e que' dui principi , per esser potentissimi nella guerra e splendidissimi nella pace, sempre hanno la corte piena di nobili cavalieri, che per tutto 'l mondo si spargono; ed a noi pur bisogna conversar con loro. XXXVIII. Or io non voglio seguitar piu minutamente in dir cose troppo note, come che 'l nostro cortegian non debba far profession d'esser gran mangiatore, ne% bevitore, ne% dissoluto in alcun mal costume, ne% laido 2 e mal assettato nel viverc, con certi modi da contadino, che chiamano la zappa e l'aratro mille miglia di lontano; perche% chi e* di tal sorte, non solamente non s'ha da sperar che divenga bon corte- giao, ma non se gli po dar esercizio conveniente, altro che di pascer le pecore. E per concluder dico, che bon saria che 'l cortegian sapesse perfettamente cio* che detto avemo convenirsigli, di sorte che tutto 'l possibile a lui fosse facile ed ognuno di lui si maravigliasse, esso di niuno; intendendo pero* che in questo non fosse una certa durezza superba ed inumana, come hanno alcuni, che mostrano non mara- vigliarsi delle cose che fanno gli altri, perche% essi presumon poterle far molto meglio, e col tacere le disprezzano, come indegne che di lor si parli; e quasi voglion far segno che niimo altro sia non che lor pari, ma pur capace d'intendere la profundita del saper loro. Pero deve il cortegian fuggir questi modi odiosi e con umanita* e benivolenzia lauda1 ancor le bone opere degli altri; e benche% esso si senta ammi- rabile e di grah lunga superior a tutti, mostrar pero* di non estimarse per tale. Ma perche% nella natura umana rarissime volte e forse mai non si trovano queste cosi compite per- fezioni, non dee l'omo che si sente in qualche parte manco7 diffidarse pero* di se stesso, ne% perder la speranza di giungere a bon grado, avvenga che non possa conseguir quella per- r fetta e suprema eccellenzia dove egli aspira; perche% in ogni arte son molti lochi , laudevoli oltr'al primo; e chi tende alla summita*, rare volte interviene che non passi il mezzo 10. Voglio adunque che 'l nostro cortegiano, se in qualche cosa oltr'all'arme si trovara eccellente, se ne vaglia e se ne onori di bon modo; e sia tanto discreto e di bon giu- dicio, che sappia tirar ii con destrezza e proposito le persone a vedere ed udir quello, in che a lui par d"essere eccellente, mostrando sempre farlo non per ostentazione, ma a caso, e pregato d'altrui piu* presto che di volunta sua; ed in ogni cosa che egli abbia da far o dire, se possibil e*, sempre venga premeditato 12 e preparato, mostrando pero* il tutto esser all'improviso. Ma le cose nelle quai si sente mediocre, tocchi per transito, senza fondarsici molto 13, ma di modo che si possa credere che piu assai ne sappia di cio ch'egli mostra; come talor alcuni poeti che accennavan cose sut- tilissime di filosofia o d'altre scienzie, e per avventura n'in- tendevan poco. Di quello poi di che si conosce totalmente ignorante non voglio che mai faccia professione alcuna, ne cerchi d'acquistarne fama; anzi, dove occorre, chiaramente confessi di non saperne. -- Questo, -- disse il Caimeta -- icoletto ' il qual" essendo eccellentissimo filosofo, nee 'T d -u* leggi che volare2 benche% un odestaq di p d vesse deliberato dargli di quelle una lettura 3, non volse nai, a persuasion di molti scolari, desingannar quel podesta confessargli di non saperue, sempre dicendo, non si accordar n questo con la opinione di Socrate, ne esser cosa da filo- fo il dir mai di non sapere4. -- Non dico io, -- rispose neser Federico, -- che 'l cortegian da se stesso, senza che tri lo ricerchi, vada a dir di non sapere; che a me ancor on piace questa sciocchezza d'accusar o disfavorir se mede- o; e pero talor mi rido di certi omini, che ancor senza ecessita narrano volentieri alcune cose, le quali, benche% se siano intervenute senza colpa loro, portan pero* seco n'ombra d'infamia; come faceva un cavalier che tutti cono- te, il qual, sempre che udiva far menzion del fatto d"arme ie si fece in parmegiana contra 'l re Carlo s, subito comin- va a dir in che modo egli era fuggito, ne% parea che di ieila giomata altro avesse veduto o inteso; parlandosi poi na certa giostra famosa, contava pur sempre come egli a caduto; e spesso ancor parea che nei ragionamenti an- sse cercando di far venire a proposito il poter narrar che ja notte, andando a parlar ad una donna, avea ricevuto molte bastonate. Queste sciocchezze non voglio io che ca iI nostro cortegiano, ma parmi ben che offerendosegli asion di mostrarsi in cosa di che non sappia punto, debba fuggirla 6; e se pur la necessita lo strinmge, confessar chiara- mente di non sapeme, piu* presto che mettersi a quel rischio; e cosi fuggira* un biasimo che oggidi meritano molti i quali, non so per qual loro perverso instinto o giudicio fuor di ragione, sempre si mettan a far quel che non sanno e lascian quel che sanno. E per confirmazion 7 di questo, io conosco uno eccellentissimo musico B, il qual, lasciata la musica, s'd dato totalmente a compor versi e credesi in quello esser grandissimo omo, e fa ridere ognun di se% e omai ha perduta ancor la musica 9. Un altro de' prii pittori del mondo iQ sprezza quell'arte dove e rarissimo ed e*ssi posto ad imparar filosofia, nella quale ha cosi* strani concetti e nove chimere, che esso con tutta la sua pittura non sapria depingerle. G di questi tali infiniti si trovano. Son bene alcuni, i quajI, conoscendosi avere eccellenzia in una cosa, fanno pimcipal professione d'un'altra, della qual pero* non sono ignoranti; ma ogni volta che loro occorre mostrarsi in quella dove si senton valere, si mostran gagliardamente; e vien lor talor fatto che la brigata, vedendogli valer tanto in quello che non e sua professione, estima che vaglian molto piu in quello di che fan professione. Quest'arte, s'ella e compagnata da bon giudicio, non mi dispiace punto. Rispose allor il signor Gaspar Pallavicino: -- Questa a me non par arte, ma vero inganno; ne% credo chc si convenga, a chi vol esser omo da bene, mai lo ingannare. -- Questo, -- disse messer Federico, -- e* piu* presto un ornamento, il quale accompagna quella cosa che colui fa, che ingenno; e se pur e* inganno, non e* da diasimare. Non direte voi ancora, che di dui che maneggian l'arme quel che batte il compagno lo inganna! e questo e* perche% ha piu* arte che l'altro. E se voi avete una gioia, la qual dislegata mostri esser bella, venendo poi alle mai d'un bon orefice, che col legarla bene la faccia parer molto piu* bella, non direte voi che quello orefice inganna gli occhi di chi la vede! E pur di quello inganno merita laude, perche% col bon giudicio e con l'arte le maestrevoli mani spesso aggiungon grazia ed omamento allo avorio o vero allo argento, o vero ad una bella pietra circondandola di fin oro. Non diciamo adunque che l'arte o tal inganno, se pur voi lo volete cosi* chiamare, meriti biasimo alcuno. Non e* ancor disconveniente che un omo che si senta valere in una cosa, cerchi destramente occasion di mostrarsi in quella, e medesimamente nasconda le parti che gli paian poco laudevoli, il tutto pero* con una certa avvertita dissimulazione. Non vi ricorda come, senza mostrar di cercarle,- ben pigliava l'occasioni il re Ferrando di spo- gliarsi talor in giuppone, e questo perche% si sentiva dispo- sitissimo e perche% non avea troppo bone mani, rare volte o quasi mai non si cavava i guanti? e pochi erano che di questa sua awertenza s'accorgessero. Parmi ancor aver letto che Iulio Cesare portasse volentieri la laurea per nascondere il calvizio. Ma circa questi modi bisogna esser molto prudente e di bon giudicio, per non uscire de' termini; perche% molte volte l'omo per fuggir un errore incorre nell'altro e per voler acquistar laude acquista bia- simo. XLI. E* adunque securissima cosa nel modo del vivere e nel conversare govemarsi sempre con una certa onesta medio- crita*, che nel vero e* grandissimo e fermissimo scudo contra la invidia, la qual si dee fuggir quanto piu* si po. Voglio ancor che 'l nostro cortegiano si guardi di non acquistar nome di bugiardo, ne% di vano; il che talor interviene a quegli ancora che nol meritano; pero* ne' suoi ragionamenti sia sempre avvertito di non uscir della verisimilitudine e di non dir ancor troppo spesso quelle verita* che hanno faccia di men- zogna, come molti che non parlan mai se non di miracoli e voglion esser di tanta autorita*, che ogni incredibil cosa a loro sia creduta. Altri nel principio d'una amicizia, per acquistar grazia col novo amico, il primo di* che gli parlano giurano non aver persona al mondo che piu* amino che lui, e che vorrebben voluntier morir per fargli servizio e tai cose for di ragione; e quando da lui si partono, fanno le viste di piangere e di non poter dir parola per dolore; cosi*, per volere esser tenuti troppo amorevoli, si fanno estimar bugiardi e sciocchi adulatori. Ma troppo lungo e faticoso saria voler discorrer tutti i vicii che possono occorrere nel modo del conversare; pero* per quello ch'io desidero nel cortegiano basti dire, oltre alle cose gia* dette, che 'l sia tale, che mai non gli manchin ragionamenti boni e commodati a quelli co' quali parla, e sappia con una certa dolcezza recrear gli animi degli auditori e con motti piacevoli e facezie discretamente indurgli a festa e riso, di sorte che, senza venir mai a fastidio o pur a saziare, continuamente diletti. XLII. Io penso che ormai la signora Emilia mi dara* licenzia di tacere; la qual cosa s'ella mi negara*, io per le parole mie medesime saro* convinto non esser quel bon cortegiano di cui ho parlato; che% non solamente i boni ragionamenti, i quali ne% mo ne% forsi mai da me avete uditi, ma ancor questi mei, come voglia che si siano, in tutto mi mancono --. Allor disse ridendo il signor Prefetto: -- Io non voglio che questa falsa opinion resti nell'animo d'alcun di noi, che voi non siate bonissimo cortegiano; che% certo il desiderio vostro di tacere piu* presto procede dal voler fuggir fatica, che da mancarvi ragionamenti. Pero*, accio* che non paia che in compagnia cosi* degna, come e* questa, e ragionamento tanto eccellente, si sia lassato a drieto parte alcuna, siate contento d'insegnarci come abbiamo ad usar le facezie delle quali avete or fatta menzione, e mostrarci l'arte che s'appar- tiene a tutta questa sorte di parlar piacevole per indurre riso e festa con gentil modo, perche% in vero a me pare che importi assai e molto si convenga al cortegiano. -- Signor mio, -- rispose allor messer Federico, -- le facezie e i motti sono piu* presto dono e graza di natura che d'arte; ma bene in questo si trovano alcune nazioni pronte piu* l'una che l'altra come i Toscani, che in vero sono acutissimi. Pare ancor che ai Spagnoli sia assai proprio il motteggiare. Tro- vansi ben pero* molti, e di queste e d'ogni altra nazione, i quali per troppo loquacita* passan talor i termini e diven- tano insulsi ed inetti, perche% non han rispetto alla sorte delle persone con le quai parlano, al loco ove si trovano, al tempo, alla gravita* ed alla modestia, che essi proprii mantenere devriano. XLIII. Allor il signor Prefetto rispose: -- Voi negate che nelie facezie sia arte alcuna; e pur, dicendo mal di que' che non servano in esse la modestia e gravita* e non hanno rispetto al tempo ed alle persone con le quai parlano, parmi che dimostriate che ancor questo insegnar si possa ed abbia in se% qualche disciplina. -- Queste regule, Signor mio, -- ri- spose messer Federico, -- son tanto universali, che ad ogni cosa si confanno e giovano. Ma io ho detto nelle facezie non esser arte, perche% di due sorti solamente parmi che se ne trovino: delle quai l'una s'estende nel ragionar lungo e continuato; come si vede di alcun'omini, che con tanto bona grazia e cosi* piacevolmente narrano ed esprimono una cosa che sia loro intervenuta, o veduta o udita l'abbiano, che coi gesti e con le parole la mettono inanzi agli occhi e quasi la fan toccar con mano; e questa forse, per non ci aver altro vocabulo, si poria chiamar (( festivita* )), o vero (( urbanita* )). L'altra sorte di facezie e* brevissima e consiste solamente nei detti pronti ed acuti, come spesso tra noi se n'odono, e de' mordaci; ne% senza quel poco di puntura par che abbian grazia; e questi presso agli antichi ancor si nominavano (( detti)); adesso alcuni le chiamano (( arguzie )). Dico adunque che nel primo modo, che e* quella festiva narrazione, non e* bisogno -- arte alcuna perche% la natura medesima crea e forma gli omini atti a narrare piacevohnente; e da* loro il volto, i gesti, la voce e le parole appropriate ad imitar cio* che vogliono. Nell'altro, delle arguzie, che po far l'arte? con cio* sia cosa che quel salso detto dee esser uscito ed aver dato in brocca, prima che paia che colui che lo dice v'abbia potuto pensare; altramente e* freddo e non ha del bono. Pero* estimo che 'l tutto sia opera dell'ingegno e della natura --. Riprese allor le parole messer Pietro Bembo e disse: -- Il signor prefetto non vi nega quello che voi dite, cioe* che la natura e lo in- gegno non abbiano le prime parti, massimamente circa la invenzione; ma certo e* che nell'animo di ciascuno, sia pur l'omo di quanto bono ingegno po essere, nascono dei con- cetti boni e mali, e piu* e meno; ma il giudicio poi e l'arte i lima e corregge, e fa elezione dei boni e rifiuta i mali. Pero*, lasciando quello che s'appartiene allo ingegno, dechiarateci quello che consiste nell'arte; cioe* delle facezie e dei motti che inducono a ridere, quai son convenienti al cortegiano e quai no, ed in qual tempo e modo si debbano usare; che% questo e* quello che 'l signor Prefetto v'addimanda. XLIV. Allor messer Federico, pur ridendo, disse: -- Non e* alcun qui di noi al qual io non ceda in ogni cosa, e massimamente nacque un detto di severo biasimo 8 uno di modesta laude 9 ed un altro di gioco mordace 10. XlVIII. Tomando adunque a dechiarir le sorti delle facezie ap- partenenti al proposito nostro, dico che, secondo me, di tre maniere se ne trovano, avvenga che messer Federico sola- mente di due abbia fatto menzione; cioe* di quella urbana e piacevole narrazion continuata, che consiste nell'effetto d'una cosa 1; e della subita ed arguta prontezza, che consiste in un detto solo. pero noi ve ne giungeremo la terza sorte, che chiamano (( burle )); nelle quali intervengon 2 le nar- razioni lunghe e i detti brevi ed ancor qualche operazione. Quelle prime adunque, che consistono nel parlar continuato 3, son di manera tale, quasi che l'omo racconti una novella, E per darvi uno esempio: ((In quei proprii giomi4 che mori papa Alessandro Sesto e fu creato Pio Terzo, essendo in Roma e nel palazzo s messer Antonio Agnello 6, vostro nell'esser faceto; eccetto se forse le sciocchezze, che spesso fanno rider altrui piu che i bei detti, non fossero esse ancora accettate 1 per facezie --. E cosi, voltandosi al conte Ludo- vico ed a messer Bemardo Bibiena, disse: -- Eccovi i maestri di questo 2, dai quali, s'io ho da parlare de' detti giocosi, bisogna che prima impari cio* che m'abbia a dire --. Rispose il conte Ludovico: -- A me pare che gia cominciate ad usar quello di che dite non saper niente, cioe di voler far ridere questi signori, burlando messer Bemardo e me; perche ognun di lor sa che quello di che ci laudate, in voi e molto piu eccellentemente. Pero se siete faticato, meglio e dimandar grazia alla signora Duchessa, che faccia differire il resto del ragionamento a domani, che voler con inganni subterfug- ger 3 la fatica --. Cominciava messer Federico a rispondere, ma la signora Emilia su*bito l'interruppe e disse: -- Non e l'ordine che la disputa se ne vada in laude vostra; basta che tutti siete molto ben conosciuti. Ma perche% ancor mi ricordo che voi, Conte, iersera mi deste imputazione ch'io non partiva4 egualmente le fatiche, sara bene che messer Federico si riposi un poco; e "l carico del parlar delle facezie daremo a messer Bemardo Bibiena, perche non solamente nel ragionar continuo lo conoscemo facetissimo, ma avemo a memoria che di questa materia piu* volte ci ha promesso voler scrivere, e pero* possiam creder che gia molto ben vi abbia pensato e per questo debba compiutamente satisfarci. Poi, parlato che si sia delle facezie, messer Federico seguira* in quello che dir gli avanza del cortegiano --. Allor messer Federico disse: -- Signora, non so cio* che piu* mi avanzi; ma io, a guisa di viadante gia* stanco dalla fatica del lungo caminare a mezzo giomo, riposerommi nel ragionar di messer Bemardo 5 al suon delle sue parole, come sotto qualche ame- nissimo ed ombroso albero al mormorar suave d"un vivo fonte; poi forse, un poco ristorato, potro* dir qualche altra cosa . Rispose ridendo messer Bemardo: -- S'io vi mostro il capo, -- vederete che ombra si po aspettar dalle foglie del mio al- bero 6. Di sentire il mormorio di quel fonte vivo forse vi verra fatto 7, perch'io fui gia* converso in un fonte, non d'al- cuno degli antichi dei, ma dal nostro fra Mariano, e da indi in qua mai non m'e* mancata l'acqua 8 --. Allor ognun comincio* a ridere, perche% questa piacevolezza, di che messer Bemardo intendeva, essendo intervenuta in Roma alla presenzia di Galeotto cardinale di San pietro ad Vincula 9, a tutti era notissima. XLV. Cessato il riso, disse la signora Emilia: -- Lasciate voi adesso il1 farci ridere con l'operar 2 le facezie ed a noi inse- gnate come l'abbiamo ad usare e donde si cavino 3, e tutto quello che sopra questa materia voi conoscete. E per non perder piu* tempo cominciate omai. -- Dubito, -- disse messer Bemardo, -- che l'ora sia tarda; ed accio* che 'l mio parlar di facezie non sia infaceto e fastidioso, forse bon sara* differirlo insino a dimani --. Quivi subito risposero molti non essere ancor, ne% a gran pezza4, l'ora consueta di dar fine al ragionare. Allora rivoltandosi messer Bemardo alla signora Duchessa ed alla signora Emilia, -- Io non voglio fuggir, -- disse, -- questa fatica; bench'io, come soglio mara- vigliarmi dell'audacia di color che osano cantar alla viola in presenzia del nostro Iacomo Sansecondo 5, cosi non devrei in presenzia d'auditori che molto meglio intendon 6 quello che io ho a dire che io stesso, ragionar delle facezie. Pur, per non dar causa ad alcuno di questi signori di ricusar cosa che imposta loro sia, diro* quanto piu* brevemente mi sara* possibile cio* che mi occorre circa le cose che movono il riso; il qual tanto a noi e* proprio 7, che per descriver l'omo si suol dir che egli e* un animal risibile 8; perche% questo riso solamente negli omini si vede ed e* quasi sempre testimonio d'una certa ilarita* che dentro si sente nell'animo, il qual da natura e tirato al piacere ed appetisce 9 il riposo e 'l recrearsi; onde veggiamo molte cose dagli omini ritrovate per questo effetto, come le feste e tante varie sorti di spet- taculi. E perche% noi amiamo que' che son causa di tal nostra recreazione, usavano i re antichi 10, i Romani, gli Ateniesi e molt'altri, per acquistar la benivolenzia dei populi e pascer gli occhi e gli animi della moltitudine, far magni teatri ed altri publici edifizi; ed ivi mostrar novi 11 giochi, corsi di cavalli e di carrette 12, combattimenti, strani animali, comedie, tragedie e moresche 13; ne% da tal vista erano alieni i severi filosofi, che spesso e coi spettaculi di tal sorte e conviti rilassavao gli animi affaticati in quegli alti lor discorsi e divini pensieri; la qual cosa volentier fanno ancor tutte le qualita d'omini; che% non solamente i lavoratori de' campi, i marinari e tutti quelli che hanno duri ed asperi esercizi alle mani, ma i santi religiosi, i prigioneri che d'ora in ora aspettano la morte, pur vanno cercando qualche rimedio e medicina per recrearsi. Tutto quello adunque che move il riso esilara l'animo e da* piacere, ne% lascia che in quel punto -- l'omo si ricordi delle noiose molestie, delle quali la vita nostra e piena 14. Pero a tutti, come vedete, il riso e gratissimo, ed e* molto da laudare chi lo move a tempo e di bon modo. Ma che cosa sia questo riso15, e dove stia, ed in che modo talor occupi le vene, gli occhi, la bocca e i fianchi, che par che ci voglia far scoppiare, tanto che, per forza che vi mettiamo, non e* possibile tenerlo, lasciaro* disputare a Democrito 16- il quale, se forse ancora lo promettesse, non lo saprebbe dire. XLVI. Il loco adunque e quasi il fonte onde nascono i ridiculi consiste in una certa deformita* 1; perche% solamente si ride di quelle cose che hanno in se% disconvenienzia e par che stian male, senza pero* star male 2. Io non so altrimenti dichia- rirlo; ma se voi da voi stessi pensate, vederete che quasi sempre quel di che si ride e una cosa che non si conviene, e pur non sta male. Quali adunque siano quei modi che debba usar il cortegiano per mover il riso e fin a che termine, sfor- zerommi di dirv'i, per quanto mi mostrera* il mio giudicio; perche% il far rider sempre non si convien al cortegiano, ne% ancor di quel modo che fanno i pazzi e gli imbriachi e i sciocchi ed inetti, e medesimamente i buffoni 3; e benche% nelle corti queste sorti d'omini par che si richieggano, pur non meri- tano esser chiamati cortegiani, ma ciascun per lo nome suo ed estimati tali quai sono. Il termine e misura 4 del far ridere mordendo s bisogna ancor esser d-iliigentemente considerato, e chi sia quello che si morde; perche% non s'induce riso col dileggiar un misero e calamitoso 6, ne ancora un ribaldo e scelerato publico 7, perche% questi par che meritino maggior castigo che l'esser burlati; e gli animi umani non sono incli- nati a beffare i miseri, eccetto se quei tali nella sua infelicita non si vantassero e fossero superbi e prosuntuosi. Deesi ancora aver rispetto 8 a quei che sono universalinente grati ed amati da ognuno e potenti, perche% talor col dileggiar questi poria l'uom acquistarsi irimicizie pericolose. Pero conveniente cosa 9 e* beffare e ridersi dei vizi collocati in persone ne% misere tanto che movano compassione, ne% tato scelerate che paia che meritino esser condennate a pena capitale, ne% tanto grandi che un loro piccol sdegno possa far gran danno. XLVII. Avete ancor a sapere 1 che dai lochi2 donde si cavano motti da ridere, si posson medesimamente cavare sentenzie gravi per laudare e per biasimare, e talor con le medesime parole; come, per laudar un om liberale, che metta la robba sua in commune con gli amici, suolsi dire che cio ch'egli ha non e* suo; il medesimo si po dir per biasimo d'uno che abbia rubato, o per altre male arti acquistato quel che tiene. Dicesi ancor: (( Colei e* una donna d'assai ), volendola laudar di prudenzia e bonta; il medesimo poria dir chi volesse biasimarla, accennando che fosse donna di molti 3. Ma -- piu spesso occorre servirsi dei medesimi lochi a questo proposito, che delle medesime parole; come a questi di, stando a messa in una chiesa tre cavalieri ed una signora, alla quale serviva d'amore 4 uno dei tre, comparve un povero mendico, e postosi avanti alla signora, cominciolle a diman- dare elemosina; e cosi con molta importunita* e voce lamen- tevole gemendo replico* piu* volte la sua domanda: pur, con tutto questo 5 essa non gli diede mai elimosina, ne% ancor gliela nego con fargli segno che s'andasse con Dio, ma stette sempre sopra di se%, come se pensasse in altro. Disse allor il cavalier inamorato ai dui compagni: (( Vedete cio* ch'io posso sperare dalla mia signora, che e tanto crudele, che non solamente non da* elemosina a quel poveretto ignudo morto di fame, che con tanta passion e tante volte a lei la domanda, ma non gli da* pur licenzia 6; tanto gode di vedersi inanzi una persona che languisca in miseria e in van le domandi mercede )). Rispose un dei dui: (( Questa non e* crudelta*, ma un tacito ammaestramento di questa signora a voi, per farvi conoscere che essa non compiace mai a chi le dimanda con molta importunita* )). Rispose l'altro: (( Anzi e* un avvertirlo che, ancor ch'ella non dia quello che se gli domanda, pur le piace d'esseme pregata )). Eccovi, dal non aver quella signora dato licenzia al povero, nacque un detto di severo biasimo 8 uno di modesta laude 9 ed un altro di gioco mordace '0. XLVIII. Tomando adunque a dechiarir le sorti delle facezie ap- partenenti al proposito nostro, dico che, secondo me, di tre maniere se ne trovano, avvenga che messer Federico sola- mente di due abbia fatto menzione; cioe di quella urbana e piacevole narrazion continuata, che consiste nell'effetto d'una cosa 1; e della su*bita ed arguta prontezza, che consiste in un detto solo. Pero* noi ve ne giungeremo la terza sorte, che chiamano (( burle )); nelle quali intervengon 2 le nar- razioni lunghe e i detti brevi ed ancor qualche operazione. Queue prime adunque, che consistono nel parlar continuato 3, son di manera tale, quasi che l'omo racconti una novella. E per darvi uno esempio: ((In quei proprii giomi4 che mori papa Alessandro Sesto e fu creato Pio Terzo, essendo in Roma e nel Palazzo 5 messer Antonio Agnello 6, vostro mantuano, signora Duchessa, e ragionando a punto della morte dell'uno e creazion dell"altro, e di cio* facendo varii giudici con certi suoi amici, disse: -- Signori, fin al tempo di Catullo cominciarono le porte a parlare 7 senza lingua ed udir senza orecchie ed in tal modo scoprir gli adulteri; fra, se ben gli omini non sono di tanto valor com'erano ln que' tempi 8 for qui in Roma, si fanno de' marmi antichi, hanno la mede- sima virtu 9 che aveano allora; ed io per me credo che questc due ci saprian chiarir tutti i nostri dubbi, se noi da loro -- i volessimo sapere --. Allor quei gentilomini stettero assai sospesi ed aspettavano dove la cosa avesse a riuscire; quando messer Antonio, seguitando pur l'andar inanzi e "ndietro, alzo* gli occhi, come all'improviso, ad una delle due porte della sala nella qual passeggiavano, e fermatosi un poco mostro col dito a' compagni la inscrizion di quella, che era il nome di papa Alessandro, nel fin del quale era un V ed un I, perche% significasse, come sapete, Sesto; e disse: -- Eccovi che questa porta dice: ALEXANDER PApA VI, che vol significare, che e* stato papa per la forza che egli ha usata 10 e piu di quella si e* valuto 11 che della ragione. Or veggiamo se da quest'altra potemo intender qualche cosa del novo pontifice --; e voltatosi, come per ventura, a quell'altra porta, mostro* la inscrizione d'un N, dui PP ed un V, che significava NIcoLAus PAPA QUINTUs 12 e subito disse: -- Oime*, male nove; eccovi che questa dice: Nihil PaPa Valet )) 13. XLIA. Or vedete come questa sorte di facezie 1 ha dello elegante e del bono, come si conviene ad uom di corte, o vero o finto che sia quello che si narra; perche% in tal caso e licito fingere quanto all'uom piace, senza colpa; e dicendo la verita*, ador- narla con qualche bugietta, crescendo o diminuendo 2 secondo 1 bisogno. Ma la grazia perfetta e vera virtu* di questo e* il dimostrar tanto bene e senza fatica, cosi coi gesti come co1i le parole; quello che l'omo vole esprimere, che a quelli che odono paia vedersi innanzi agli occhi far le cose che si narrano 3. E tanta forza 4 ha questo modo cosi espresso, che talor adorna e fa piacer sommamente una cosa, che in se stessa non sara* molto faceta ne% ingeniosa. E benche% a queste narrazioni si ricerchino 5 i gesti e quella efficacia che ha la voce viva, pur ancor in scritto 6 qualche volta si conosce la lor virtu. Chi non ride quando nella ottava gior- nata delle sue Cento novelle narra Giovan Boccaccio come ben si sforzava di cantare un Chirie ed un Sanctus il prete di Varlungo 7 quando sentia la Belcolore 8 in chiesa? Piacevoli narrazioni sono ancora in quelle di Calandrino 9 ed in molte altre. Della medesima sorte pare che sia il far ridere contra- facendo 10 o imitando, come noi vogliam dire; nella qual cosa fin qui non ho veduto alcuno piu* ecccllente di messer Roberto nostro da Bari. -- Questa non saria poca laude, -- disse messer Roberto, -- se fosse vera, perch'io certo m'ingegnerei d'imitare piu* presto il ben che 'l male, e s'io potessi assimigliarmi ad alcuni ch'io conosco, mi teirei per molto felice; ma dubito non saper imitare altro che le cose 1 che fanno ridere, le quali- voi dianzi avete detto che consistono in vicio --. Rispose messer Bemardo: -- In vicio si, ma che non sta male. E saper dovete che questa imitazione di che noi parliamo non po essere senza ingegno; perche, oltre alla manera d'accommodar le parole e i gesti, e mettere innanzi agli occhi 2 degli auditori il volto e i costumi di colui di cui si -- parla, bisogna esser prudente ed aver molto rispetto al loco, al tempo ed alle persone con le quai si parla e non descendere alla buffoneria 3, ne% uscire de' termini; le quai cose voi mirabilmente osservate, e pero* estimo che tutte le conosciate. Che% in vero ad un gentilomo non si converria fare i volti4, piangere e ridere, far le voci 5, lottare da se% a se% 6, come fa Berto, vestirsi da contadino in presenzia d'ognuno, come Strascino 7; e tai cose, che in essi son convenientissime, per esser quella la lor professione 8. Ma a noi bisogna per transito e nascosamente rubar questa imitazione, servando sempre la dignita* del gentilomo, senza dir parole sporche o far atti men che onesti, senza distorgersi il viso o la persona cosi* senza ritegno; ma far i movimenti d"un certo modo, che, chi odee vede per le parole e gesti nostri imagini molto piu di quello che vede ed ode, e percio* s'induca a ridere 9. Deesi ancor fuggir in questa imitazione d'esser troppo mor- dace 10 nel riprendere, massimamente le deformita* del volto o della persona; che Sl come 1 vlcu del corpo danno spesso bella materia di ridere a chi discretamente se ne vale, cosi u il yuL"Lu modo troppo acerbamente e cosa non sol da buffone, ma ancor da inimico. Pero* bisogna, benche% diffiil sia circa questo tener, come ho detto, manera del nostro 1 messer Roberto, che ognim contrafa*, e non senza pungerl'in Y 1 I simi; e pur niuno se ne turba11 ne% par che possa averlo per male; e di questo non ne daro* esempio alcuno, perche ogni dl in esso tutti ne vedemo infiniti. Induce ancor molto a ridere, che pur si contiene sotto la narrazione il recitar 2 con bona grazia alcuni diffetti d'altri, mediocri3 pero* e non degni di maggior supplicio 4, come le sciocchezze talor simplici 5, talor accompagnate da un poco di pazzia 6 pronta e mordace; medesimamente certe affettazioni estreme; talor una grande e ben composta bugia. Come narro* pochi di sono messer Cesare 7 nostro una belia sciocchezza, che fu, che ritrovandosi alla presenzia del podesta di questa terra 8, vide venire un contadino a dolersi che gli era stato rubato un asino; il qual, poi che ebbe detto della poverta* sua e dell'inganno fattogli da quel ladro, per far piu grave la perdita sua, disse: (( Messere, se voi aveste veduto il mio asino, ancor piu* conoscereste quanto io ho ragion di dolermi; che% quando aveva il suo basto addosso, parea propriamente un Tullio )) 9. Ed un de' nostri, incontran- dosi in una matta* 10 di capre, innanzi alle quali era un gran becco, si fermo* e con un volto maraviglioso 11 disse: (( Guardate bel becco! pare un san Paulo ))12. Un altro dice il signor Gasparo 13 aver conosciuto, il qual, per essere antico servi- tore del duca Ercole di Ferrara14, gli avea offerto dui suoi piccoli figlioli per paggi; e questi, prima che potessero venirlo a servire, erano tutti dui morti; la qual cosa intendendo il signore, amorevolinente si dolse col padre, dicendo che gli pesava molto perche% in avergli veduti una sol volta gli eran parsi molto belli e discreti figlioli. Il padre gli rispose: (( Signor mio, voi non avete veduto nulla; che% da pochi giomi in qua erano riusciti molto piu* belli e virtuosi ch'io non arei mai potuto credere e gia* cantavano insieme come dui sparvieri )) 15. E stando a questi di un dottor de' nostri 16 a vedere uno, che per giustizia17 era frustato intorno alla piazza, ed avendone compassione, perche% 'l meschino, benche% Ie spalle fieramente 18 gli sanguinassero, andava cosi lenta- mente come se avesse passeggiato a piacere per passar tempo, gli disse: (" Camina, poveretto, ed esci presto di 19 questO affanno )). Allor il bon omo rivolto, guardandolo quasi con maraviglia, stette un poco senza parlare, poi disse: (( Quando sarai trustato tu, anderai a modo tuo; ch'io adesso voglio andar al mio )). Dovete ancora ricordarvi quella sciocchezza, che poco fa' racconto* il signor Duca 20 di quell'abbate; il quale, essendo presente un di che 'l duca Federico ragionava di ciu che si dovesse far di cosi gran quantita* di terreno, come 21 s'era cavata per far i fondamenti22 di questo palazzo, che tuttavia si lavorava 23, disse: (( Signor mio, io ho pensato benissimo dove e' s'abbia a mettere. Ordinate che si faccia una grandissima fossa e quivi reponere si potra, senza altro impedimento )). rispose il duca Federico, non senza risa: E dove metteremo noi quel terreno che si cavera di questa fossa? )) Suggiunse l'abbate: (( Fatela far tanto grande, che 1 uno e l altro vi stia )). Cosi, benche% il Duca piu volte repli- casse, che quanto la fossa si facea maggiore, tanto piu terren si cavava, ma1 non gli pote% caper 24 nel cervello ch'ella non si potesse far tanto grande, che l'uno e l'altro metter non vi si potesse, ne mai rispose altro se non: (( Fatela tanto maggiore )). Or vedete che bona estimativa 25 avea questo abbate. LII. Uisse allora messer Pietro Bembo: -- E perche% non dite voi quella del vostro commissario fiorentino 1? il quale era assediato nella Castellina2 dal duca di Calavria 3, e dentro essendosi trovato un giomo certi passatori 4 avvelenati, che erano stati tirati dal campo, scrisse al Duca che, se la guerra s'aveva da far cosi crudele, esso ancor farebbe porre il medi- came 5 in su le pallotte dell'artiglieria e poi chi n'avesse il peggio, suo danno. -- irse messer Bemardo e disse: -- Messer -- Pietro, se voi non state cheto, io diro* tutte quelle che io stesso ho vedute e udite de' vostri Veneziani che non son poche, e massimamente quando voglion fare il cavalcatore 6. -- Non dite, di grazia, -- rispose messer Pietro, -- che io ne tacero* due altre bellissime che so de' Fiorentini --. Disse messer Bemardo: -- Deono esser piu presto Sanesi, che spesso vi cadeno 7. Come a questi di* uno, sentendo leggere in consiglio certe lettere, nelle quali, per non dir tante volte il nome di colui di chi si parlava, era replicato questo ter- mine (( il prelibato )) 8, disse a colui che leggeva: (( Fermatevi un poco qui, e ditemi: cotesto Prelibato, e egli amico del nostro commune? )) -- Rise messer Pietro, poi disse: -- Io parlo de' Fiorentini e non de' Sanesi. -- Dite adunque libe- ramente, -- suggiunse la signora Emilia, -- e non abbiate tanti rispetti --. Seguito* messer Pietro: -- Quando i signori Fiorentini faceano la guerra contra' Pisani 9, trovaronsi talor per le molte spese esausti di denari; e parlandosi un giorno in consiglio del modo di trovarne per i bisogni che occorreano, dopo l'essersi proposto molti partiti, disse un cittadino de' piu antichi 10: (( Io ho pensato dui modi, per li quali senza molto impazzo11 presto potrem trovar bona somma di denari; e di questi l'uno e* che noi, perche non avemo le piu* vive 12 intrate che le gabelle 13 delle porte di Firenze, secondo che 14 v'abbiam undeci porte, subito ve ne facciam far undeci altre, e cosi radoppiaremo quella entrata. L"altro modo e, che si dia ordine che su*bito in pistoia e Prato s'aprino le zecche, ne% piu* ne% meno come in Firenze, e quivi non si faccia altro, giomo e notte, che batter denari15 e tutti siano ducati d"oro; e questo partito, secondo me, e* piu* breve e ancor de mmor spesa )). LIII. Risesi molto del sottil avvedimento di questo cittadino; e, racchetato il riso, disse la signora Emilia: -- Comporta- rete voi, messer Bernardo, che messer Pietro burli cosi* i Fiorentini senza farne vendetta? -- Rispose, pur ridendo, messer Bernardo: -- Io gli perdono questa ingiuria, perche s'egli m'ha fatto dispiacere in burlar i Fiorentini, hammi compiacciuto in obedir voi, il che io ancor farei sempre --. Disse allor messer Cesare: -- Bella grosseria 1 udi' dir io da un bresciano, il quale, essendo stato quest'anno a Venezia alla festa dell'Ascensione 2, in presenza mia narrava a certi suoi compagni le belle cose che v'avea vedute; e quante mercanzie e quanti argenti, speziarie, panni e drappi v'erano; poi la Signoria3 con gran pompa esser uscita a sposar il mare in Bucentoro 4, sopra il quale erano tanti gentilomini ben vestiti, tanti suoni e canti, che parea un paradiso; e dimandandogli un di que' suoi compagni, che sorte di musica piu* gli era piaciuta di quelle che avea udite, disse: (( Tutte eran bone; pur tra l'altre io vidi uno sonar con certa tromba strana 5, che ad ogni tratto se ne ficcava in gola piu di dui palrni e poi subito la cavava e di novo la reficcava: che non vedeste mai la piu* gran maraviglia ) --. Risero allora tutti, conoscendo il pazzo pensier di colui, che s'avea ima- ginato che quel sonatore si ficcasse nella gola quella parte del trombone, che rientrando si nasconde. -- LIV. Suggiunse allor messer Bernardo: -- Le affettazioni poi mediocri fanno fastidio, ma quando son fuor di misura inducono da 1 ridere assai; come talor se ne sentono di bocca d'alcuni circa la grandezza, circa l'esser valente, circa la nobilita*; talor di donne circa la bellezza, circa la delicatura 2. Come a questi giorui fece una gentildonna, la qual stando in una gran festa di mala voglia e sopra di se%, le fu domandato a che pensava che star la facesse cosi mal contenta; ed essa rispose: (( Io pensava ad una cosa, che sempre che mi si ricorda mi da* grandissima noia, ne% levar me la posso del core; e questo e, che avendo il di del giudicio universale tutti i corpi a resuscitare e comparir ignu i innanzi al tribunal di Cristo, io non posso tollerar l'affanno c e sento, pensando che il mio ancor abbia ad esser veduto -gnudo )). Queste tali affettazioni, perche% passano il grado 3, inducono piu* riso che fastidio. Quelle belle bugie mo, cosi ben asset- tate 4, come movano a ridere, tutti sapete. E quell'amico nostro, che non ce ne lassa mancare, a questi di me ne rac- conto una molto eccellente. Disse allora il Magnifico Iuliano: -- Sia come si vole, ne piu eccellente ne% piu* sottile non po ella esser di quella che l'altro giomo per cosa certissima affermava un nostro1 toscano, mercatante luchese. -- Ditela, -- suggiunse la signora Duchessa --. Rispose il Magnifico Iuliano, ridendo: -- Questo mercatante, si* come egli dice, ritrovandosi una volta in Polonia delibero* di comprare una quantita* di zibel- lini 2, con opinion di portargli in Italia e fame un gran gua- dagno; e dopo molte pratiche 3, non potendo egli stesso in persona andar in Moscovia4 per la guerra che era tra 'l re di Polonia e 'l duca di Moscovia, per mezzo d'alcuni deI paese ordino* che un giorno determinato certi mercatanti moscoviti coi lor zibellini venissero ai confini di polonia e promise esso ancor di trovarvimsi, per praticar la cosa 5. Andando adunque il luchese coi suoi compagni verso Moscovia, giunse al Boristene 6, il quale trovo* tutto duro di ghiaccio come un marmo, e vide che i Moscoviti, li quali per lo suspetto della guerra dubitavano essi ancor de' Poloni, erano gia sull'altra riva, ma non s'accostavano, se non quanto era largo il fiume 7. Cosi* conosciutisi l'un l'altro dopo alcuni cenni, li Moscoviti cominciarono a parlar alto e domandare il prezzo che volevano de' loro zibellini, ma tanto era estremo il freddo, che non erano intesi; perche le parole, prima che giungessero all'altra riva, dove era questo luchese e i suoi interpreti, si gelavano in aria e vi restavano ghiacciate e prese di modo, che quei Poloni che sapeano il costume, presero per partito di far un gran foco proprio al mezzo del fiume, perche% a lor parere quello era il termine dove giungeva la voce ancor calda prima che ella fosse dal ghiaccio intercetta8; ed ancora il fiume era tanto d 9 h poteva sostenere il foco- Onde, fatto questo, le parole, che per spacio d'un'ora erano state ghiacciate cominciarono a liquefarsi e descender giu mormorando, come la neve dai monti il maggio; e cosi subito furono intese benissimo 10, -- benche% gia gli omini di la* fossero partiti; ma perche% a lui parve che quelle parole dimandassero troppo gran prezzo per i zibellini, non volle accettar il mercato e cosi se ne rItorno* senza. LVI. Risero allora tutti; e messer Bernardo, -- In vero, -- disse, -- quella ch'io voglio raccontarvi non e* tanto sottile; pur e bella, ed e* questa. Parlandosi pochi di sono del paese o mondo novamente trovato dai marinari portoghesi 1, e dei v'arii animali e d'altre cose che essi di cola in Portogallo riportano, quello amico del qual v'ho detto affermo ave veduto una simia di forma diversissima da quelle che no siamo usati di vedere, la quale giocava a scacchi eccellen- tissimamente; e, tra l'altre volte, un di essendo innanzi al re di Portogallo il gentilom che portata l'avea e giocando con lei a scacchi, la simia fece alcuni tratti sottilissimi 2, di sorte che lo strinse molto 3; in ultimo gli diede scaccomatto; per che il gentilomo turbato, come soglion esser tutti quelli che perdono a quel gioco prese in mano il re 4, che era assai grande, come usano i Portoghesi, e diede in su la testa alla simia una gran scaccata 5; la qual subito salto* da banda, lamentandosi forte, e parea che domandasse ragione al Re del torto che le era fatto. Il gentilomo poi la reinvito* a gio- care; essa avendo alquanto ricusato con cenni, pur si pose a giocar di novo e, come l'altra volta avea fatto, cosi questa ancora lo ridusse a mal termine 6; in ultimo, vedendo la simia poter dar scaccomatto al gentilom, con una nova malizia volse assicurarsi di non esser piu* battuta; e cheta- mente, senza mostrar che fosse suo fatto, pose la man destra sotto 'l cubito sinistro del gentilomo, il quale esso per deli- catura riposava sopra un guancialetto di taffeta* 7, e presta- mente levatoglielo, in un medesimo tempo con la man sinistra gliel diede matto di pedina e con la destra si pose il guan- cialetto in capo, per farsi scudo alle percosse; poi fece un salto inanti al Re allegramente, quasi per testimonio della vittoria sua. Or vedete se questa simia era savia, avveduta e prudente --. Allora messer Cesare Gonzaga, -- Questa e forza 8, -- disse, -- che tra l'altre simie fosse dottore, e di molta autorita*; e penso che la Republica delle simie indiane la mandasse in Portogallo per acquistar riputazione in paese incognito --. Allora ognun rise e della bugia 9 e della aggiunta fattagli per messer Cesare. LVII. Cosi, seguitando il ragionamento, disse messer Bernardo: -- Avete adunque inteso delle facezie che sono nell'effetto e parlar continuato, cio* che m'occorre; percio* ora e ben dire hanno molto dell'acuto, per pigliar l'omo le parole in signi- ficato diverso da quello che le pigliao tutti gli altri, pare, come ho detto, che piu* presto movano maraviglia che riso, eccetto quando sono congiunti con altra manera di detti 8. Queua sorte radunque di motti che piu* s'usa per far ridere e* quando noi aspettiamo d'udir una cosa, e colui che risponde ne dice un'altra e chiamasi (( fuor d'opinione )) 9. E se a questo e* congiunto lo ambiguo, il motto diventa salsissimo 10; come l'altr'ieri, disputandosi di fare un bel (( mattonato )) 11 nel camerino della signora Duchessa, dopo molte parole voi, Ioan Cristoforo, diceste: (( Se noi potessimo avere il vescovo di Potenzia 12 e farlo ben spianare 13, saria molto a proposito, perche% egli e* il piu* bel " matto nato " ch'io vedessi mai )). Ognun rise molto, perche% dividendo quella parola (( mattonato )) faceste lo ambiguo; poi dicendo che si avesse a spianare un vescovo e metterlo per pavimento d'un camerino, fu for di opinione di chi ascoltava; cosi* riusci il motto argutissimo e risibile. LIX. Ma dei motti ambiguii sono molte sorti; pero* bisogna essere awertito ed uccellar sottilissimamente alle parole 2, e fuggir quelle che fanno il motto freddo 3, o che paia che siano tirate per i capelli, o vero, secondo che avemo detto, che abbian troppo dello acerbo 4. Come ritrovandosi alcuni compagni in casa d'un loro amico 5, il quale era cieco da un ccchio, e invitando quel cieco la compagnia a restar quivi a desinare, tutti si partirono eccetto uno; il qual disse: (( Ed io vi restaro, perche% veggo esserci vuoto il loco per uno )); e cosi col dito mostro* quella cassa d"occhio vuota 6. Vedete che questo e* acerbo e discortese troppo, perche% morse colui senza causa e senza esser stato esso prima punto, e disse quello che dir si poria contra tutti i ciechi; e tai cose univer- sali non dilettano 7, perche% pare che possano essere pensate. E di questa sorte fu )quel detto ad un senza naso: (( E dove appicchi tu gli occhiali? )) o: (( Con che fiuti tu l'anno 8 le rose? ) LX. Ma tra gli altri motti1, quegli hanno bonissima grazia 2, che nascono quando dal ragionar mordace del compagno l'omo piglia le medesime parole nel medesimo senso e contra di lui le rivolge, pungendolo con le sue proprie arme; come un li- tigante, a cui in presenzia del giudice dal suo awersario fu detto: (( Che bai 3 tu ? )), subito rispo$e: (( perche% veggo un ladro )). E di questa sorte fu ancor, quado Galeotto da Nami4, passando per Siena, si fermo* in una strada a domandar dell'o- steria; e vedendolo un Sanese cosi corpulento come era, disse ri- dendo: (( Gli altri portano le bolge 5 dietro, e costui le porta da- vanti )). Galeotto su*bito rispose: (( Cosi* si fa in terra de' ladri ) 6. LXI. questa consiste nel mutare o vero accrescere o minuire una dotto nella lingua "latrina", che nella greca )). Ed a voi, l'autore, o qualche altro detto vulgato 5; talor al medesimo 11 1 1 li lomo che avea una brutta e despiacevole moglie, essendogli andando alle Stazioni 8 di Roma la Quadragesima insieme li belle donne romane, e dicendo uno di quei gentilomini: subito suggiunse: mostrando una compagnia di giovani, che dall'altra bada venivano. Disse ancora messer Marc'Antonio dalla Torre 11 al vescovo di Padoa 12 di questo modo: (( Essendo un mona- sterio di donne in Padoa sotto la cura d'un religioso esti- mato molto di bona vita e dotto, intervenne che 'l padre, praticando nel monasterio 13 domesticamente e confessando spesso le madri, cinque d'esse, che altrettante non ve n'erano, ingravidarono; e scoperta la cosa, il padre volse fuggire e non seppe; il vescovo lo fece pigliare ed esso su*bito confesso, per tentazion del diavolo aver ingravidate quelle cinque monache; di modo che monsignor il vescovo era deliberatis- simo castigarlo acerbamente. E perche% costui era dotto, avea molti amici, i quali tutti fecer prova d'aiutarlo 14, e con gli altri ancor ando* messer Marc'Antonio al vescovo per impetragli15 qualche perdono. Il vescovo per modo alcuno non gli volea udire; al fine facendo pur essi instanzia 16, e raccommandando il reo ed escusandolo per la commodita del loco, per la fragilita* umana e per molte altre cause, disse il vescovo: -- Io non ne voglio far niente, perche% di questo ho io a render ragione a Dio --; e replicando essi, disse il vescovo: -- Che respondero io a Dio, il di* del giudicio quando mi dira: Redde rationem villicatfonfs tuae 17? -- rispose allor subito messer Marc'Antonio: -- Monsignor mio, quello che dice lo Evangelio: Domine, quinque talenta tradidistf mihi; ecce alia quinque suPeylucratus sum 18 --. Allora il vescovo non si pote% tenere di ridere, e mitigo* assai l'ira sua e la pena preparata al malfattore )) 19. LXII. J 11 P L il L llbLr qualche cosa, perche% colui di chi si parla si chiami cosi, 0 veiu perche una qualche cosa si faccia; come pochi di sono domandando il Proto da Luca 2, il qual, come sapete, e iiiulto piacevole, il vescovato di Caglio 3, il Papa 4 gli rispose: (( lnon sai tu che " caglio" in lingua spagnola vol dire LdLcio '? e tu sei un cianciatore; pero non si converria ad un vescovo non poter mai nominare il suo titulo 5 senza ilii liugia; or " caglia " 6 adunque )). Quivi diede il Proto una risposta, la quale, ancor che non fosse di questa sort, non tu pero* men bella della proposta 7; chee avendo replicato la domanda sua piu volte e vedendo che non giovava, in ultimo disse: (( Padre Santo, se la Santita* vostra mi da* questo vescovato, non sara senza sua utilita, perch'io le idssaro dui offiii )) 8. (( E che o ffici hai tu da lassare? )) disse il papa. Rispose il Proto: ((Io lassero l'officio grande 9 e quello della Madonna10 )). Allora non pote% il papa, ancor che fosse severissimo 11, tenersi di ridere. Un altro ancor a padoa ilissr che Calfurnio 12 si dimandava cosi, perche% solea scal- dare i forni 13. E domandando io un giorno a Fedra 14 perche era, che facendo Ia Chiesa il Vener santo 15 orazioni non soa- mente per i cristiani, ma ancor per i pagani e per i giudei non si facea menzione dei cardinali, come dei vescovi e d'altri prelati, risposemi che i cardinali s'intendevano in quella orazione che dice: Oremus Pro haeretfcis et scfsmati s q6. E 'l conte Ludovico nostro disse che io riprendeva una signora che usava un certo liscio 17 che molto lucea, perche% in quel volto, quando era acconcio, cosi vedeva me stesso come nello specchio; e pero, per esser brutto, non arei voluto vedermi. Di questo modo fu quello di messer Camillo pal- leotto 18 a messer Antonio Porcaro 19, il qual parlando d'un suo compagno, che confessandosi diceva al sacerdote che digiunava volentieri ed andava alle messe ed agli offici divini e facea tutti i beni del mondo, disse: (( Costui in loco d'accusarsi si lauda )); a cui rispose messer Camillo: (( Anzi si confessa di queste cose, perche% pensa che il farle sia gran peccato )). Non vi ricorda come ben disse l'altro gioruo il signor Prefetto quando Giovantomaso Galeotto 20 si mara- vigliava d'un che domandava ducento ducati d'un cavallo? perche, dicendo Giovantomaso che non valeva un quattrino e che, tra gli altri diffetti, fuggiva dall'arme tanto, che non era possibile farglielo accostare, disse il signor Prefetto, volendo riprendere colui di vilta: (( Se 'l cavallo ha questa parte 21 di fuggir dall"arme, maravegliomi che egli non ne domandi mille ducati )). LXIII. 1 ad altro fin di quello che s'usa. Come essendo il signor Duca 2 (( Passa )), il trombetta si volto* con la berretta in mano e con ,i ,i6llUllil liU"Llil )) J ancor piacevol manera 5 di motteggiare, quando l'omo par come quest'anno un Tedesco a Roma, incontrando una pulo, disse: (( Doxfne xagfster, Deus del joPis bonux sero ))9; ancor a tavola col Gran Capitano 11 Diego de Chignones 12, j da bere: (( Vino 13 )); rispose Diego, (( Y no 10 conocistes 14)), Iacomo Sadoletto 16 al Beroaldo, che affermava voler in ogni modo andare a Bologna: (( Che causa v'induce cosi adesso lasciar Roma, dove son tanti piaceri, per andar a Bologna, che tutta e* involta nei travagli17 ? )) Rispose il Beroaldo: (( per tre conti18 m'e* forza andar a Bologna ), e gia* aveva alzati tre dita della man sinistra per assignar19 -- tre cause dell'andata sua; quando messer Iacomo su*bito l'interruppe e disse: (( Questi tre conti che vi fanno andare a Bologna sono: l'uno il conte Ludovico da San Bonifacio 20 l'altro il conte Ercole Rangone 21, il terzo il conte de' Pepoli 22)). Ognun allora rise, perche% questi tre conti eran stati discipuli del Beroaldo e bei giovani, e studiavano in Bologna. Di questa sorte di motti adunque assai si ride, perche% portan seco risposte contrarie a quello che l'omo aspetta d'udire, e naturalmente dilettaci in tai cose il nostro errore mede- simo; dal quale quando ci trovamo ingannati di quello che aspettiamo, ridemo. Ma i modi del parlare 1 e le figure 2 che hanno grazia nei ragionamenti gravi e severi, quasi sempre ancor stanno ben nelle facezie e giochi. Vedete che le parole contraposte 3 danno omamento assai, quando una clausula contraria s'oppone all'altra. Il medesimo modo spesso e* facetissimo. Come un Genoese, il quale era molto prodigo nello spendere, essendo ripreso da un usurario 4 avarissimo che gli disse: (( E quando cessarai tu mai di gittar via le tue faculta*)), (( Allor '), rispose, (( che tu di robar quelle d'altri )). E perche%, come gia* avemo detto, dai lochi donde si cavano facezie che mordono, dai medesimi spesso si possono cavar detti gravi che laudino, per l'uno e l'altro effetto e* molto grazioso e gentil modo quando l"omo consente o conferma quello che dice colui che parla, ma lo interpreta altramente di quello che esso intende. Come a questi giorni, dicendo un prete di villa la messa ai suoi populani, dopo l'aver publi- cato le feste di quella settimana, comincio* in nome del populo la confession generale; e dicendo: (( Io ho peccato in mal fare, in mal dire, in mal pensare )), e quel che se%guita, facendo menzion de tutti i peccati mortali un compare, e molto domestico del prete, per burlarlo disse ai circunstanti: (" Siate testimonii tutti di quello che per sua bocca confessa aver fatto perch'io intendo notificarlo al vescovo )). Questo medesimo modo uso* Sallaza dalla pedrada per onorar una signora, con la quale parlando, poi che l'ebbe laudata, oltre le virtuose condizioni, ancor di bellezza, ed essa rispo- stogli che non meritava tal laude, per esser gia* vecchia, le disse: (( Signora, quello che di vecchio avete, non e* altro che lo assimigliarvi agli angeli, che furono le prime e piu* antiche creature che mai formasse Dio ). LXV. Molto serveno ancor cosi* i detti giocosi per pungere, come i detti gravi per laudare, le metafore bene accomodate, e massimamente se son risposte e se colui che risponde persiste nella medesima metafora detta dall'altro. E di questo modo fu risposto a messer Palla de' Strozzi il quale, essendo forauscito di Fiorenza e mandandovi un suo per altri negozi, gli disse quasi minacciando: (( Dirai da mia parte a Cosimo de' Medici che la gallina cova )). Il messo fece l'ambasciata impostagli; e Cosimo, senza pensarvi, su*bito gli rispose: (( E tu da mia parte dirai a messer palla che le galline mal possono covar fuor del nido )). Con una meta- fora laudo* ancor messer Camillo Porcaro gentilmente il signor Marc'Antonio Colonna il quale, avendo inteso che messer Camillo in una sua orazione aveva celebrato alcuni signori italiani famosi nell'arme e, tra gli altri, d'esso aveva fatto onoratissima menzione, dopo l'averlo ringraziato, gli disse: (( Voi, messer Camillo, avete fatto degli amici vostri quello che de' suoi denari talor fanno alcuni mercatanti. li quali quando si ritrovano aver qualche ducato falso, per spazzarlo pongon quel solo tra molti boni ed in tal modo lo spendeno; cosi voi, per onorarmi, bench"io poco vaglia, m'avete posto in compagnia di cosi* virtuosi ed eccellenti signori, ch'io col merito loro forsi passero* per buono )). Rispose allor messer Camillo: (( Quelli che falsifican li ducati sogliono cosi* ben dorarli, che all'occhio paiono molto piu* belli che i boni; pero* se cosi* si trovassero alchimisti d'omini, come si trovano de' ducati, ragion sarebbe suspettar che voi foste falso, essendo, come sete, di molto piu* bello e lucido metallo, che alcun degli altri )). Eccovi che questo loco e* commune all'una e l'altra sorte de' motti; e cosi* sono mol- t'altri, dei quali si potrebbon dare infiniti esempi, e massi- mamente in detti gravi; come quello che disse il Gran Capi- tano, il quale, essendosi posto a tavola ed essendo gia* occu- pati tutti i lochi, vide che in piedi erano restati dui genti- lomini italiani i quali avean servito nella guerra molto bene; e su*bito esso medesimo si levo* e fece levar tutti gli altri e far loco a que' doi e disse: (( Lassate sentare a mangiar questi signori, che se essi non fossero stati, noi altri non aremmo ora che mangiare )). Disse ancor a Diego Garzia, che lo confortava a levarsi d'un loco pericoloso, dove batteva l'artigliaria: (( Dapoi che Dio non ha messo paura nell'animo vostro, non la vogliate voi metter nel mio )). E 'l re Luigi, che oggi e* re di Francia, essendogli, poco dapoi che fu creato re, detto che allor era il tempo di castigar i suoi nemici, che lo aveano tanto ofieso mentre era duca d'Orliens, rispose che non toccava al re di Francia vendicar l'ingiurie fatte al duca d'Orliens. Si morde ancora spesso facetamente con una certa gra- vita* senza indur riso: come disse Gein Ottomanni, fratello del Gran Turco, essendo pregione in Roma, che 'l giostrare, come noi usiamo in Italia, gli parea troppo per scherzare e poco per far da dovero. E disse, essendogli referito quanto il re Ferrando minore fosse agile e disposto della persona nel correre, saltare, volteggiare e tai cose, che nel suo paese i schiavi facevano questi esercizi, ma i signori imparavano da fanciulli la liberalita* e di questa si laudavano. Quasi ancora di tal manera, ma un poco piu* ridiculo, fu quello che disse l'arcivescovo di Fiorenza al cardinale Alessandrino, che gli omini non hanno altro che la robba, il corpo e l'anima: la robba e* lor posta in travaglio dai iurisconsulti, il corpo dai medici e l'anima dai teologi --. Rispose allor il Magnifico Iuliano: -- A questo giunger si potrebbe quello che diceva Nicoletto, cioe* che di raro si trova mai iurisconsulto che litighi, ne% medico che pigli medicina, ne% teologo che sia bon cristiano. LXVII. Rise messer Bernardo, poi suggiunse: -- Di questi sono infiniti esempi, detti da gran signori ed omini gravissimi. Ma ridesi ancora spesso delle comparazioni, come scrisse il nostro Pistoia a Serafino : (" Rimanda il valigion che t'assimiglia )); che%, se ben vi ricordate, Serafino s'assimi- gliava molto ad una valigia. Sono ancora alcuni che si dilettano di comparar omini e donne a cavalli, a cani, ad uccelli e spesso a casse, a scanni, a cari, a candeglieri; il che talor ha grazia, talor e* freddissimo. Pero* in questo bisogna considerare il loco, il tempo, le persone e l'altre cose che gia* tante volte avemo detto --. Allor il signor Gaspar Pallavicino: -- Piacevole comparazione, -- disse, -- fu quella che fece il signor Giovanni Gonzaga nostro, di Alessandro Magno al signor Alessandro suo figliolo, -- Io non lo so -- rispose messer Bernardo. Disse il signor Gasparo: -- Giocava il signor Giovanni a tre dadi e, come e* sua usanza, aveva perduto molti ducati e tuttavia perdea; ed il signor Alessandro suo figliolo, il quale, ancor che sia fanciullo, non gioca men volentieri che 'l padre, stava con molta attenzione mirandolo, e parea tutto tristo. Il Conte di Pianella , che con molti altri gentilomini era presente, disse: (( Eccovi, signore, che 'l signor Alessandro sta mal contento della vostra perdita e si strugge aspettando pur che vinciate, per aver qualche cosa di vinta; pero* cavatilo di questa angonia, e prima che perdiate il resto donategli almen un ducato, accio* che esso ancor possa andare a giocare co' suoi compagni )). Disse allor il signor Giovanni: ((Voi v'ingannate, perche% Alessandro non pensa a cosi* piccol cosa; ma, come si scrive che Alessandro Magno, mentre che era faciullo, intendendo che Fin-ppo suo padre avea vinto una gran battaglia ed acquistato un certo regno, comincio* a piangere, ed essendogli domandato perche% pian- geva rispose, perche% dubitava che suo padre vincerebbe tanto paese, che non lassarebbe che vincere a lui; cosl ora Alessandro mio figliolo si dole e sta per pianger vedendo -- ch'io suo padre perdo, perche% dubita ch'io perda tanto, che non lassi che perder a lui )). LXVIII. E quivi essendosi riso alquanto, suggiunse messer Ber- nardo: -- E% ancora da fuggire che 'l motteggiar non sia impio; che% la cosa passa poi al voler esser arguto nel bia- stemmare e studiare di trovare in cio* novi modi; onde di quello che l'omo merita non solamente biasimo, ma grave castigo, par che ne cerchi gloria; il che e* cosa abominevole; e pero* questi tali, che voglion mostrar di esser faceti con poca reverenzia di Dio, meritano esser cacciati dal consorzio d'ogni gentilomo. Ne% meno quelli che son osceni e sporchi nel parlare e che in presenzia di donne non hanno rispetto alcuno, e pare che non piglino altro piacer che di farle arros- sire di vergogna, e sopra di questo vanno cercando motti ed arguzie. Come quest'anno in Ferrara ad un convito in presenzia di molte gentildonne ritrovandosi un Fiorentino ed un Sanese, i quali per lo piu*, come sapete, sono nemici, disse il Sanese per mordere il Fiorentino: (( Noi abbiam mari- tato Siena allo Imperatore ed avemogli dato Fiorenza in dota ); -- e questo disse, perche% di que' dl s'era ragionato ch'e Sanesi avean dato una certa quantita* di denari allo Imperatore ed esso aveva tolto la lor protezione. Rispose su*bito il Fiorentino: (( Siena sara* la prima cavalcata (alla franzese, ma disse il vocabulo italiao); poi la dote si liti- ghera* a bell'ag"gio )). Vedete che il motto fu ingenioso ma, per esser in presenzia di donne, divento* osceno e non con- veniente. LXIX. Allora il signor Gaspar Pallavicino, -- Le donne, -- disse, -- non hanno piacere di sentir ragionar d'altro; e voi volete levarglielo. Ed io per me sonomi trovato ad arrossirmi di vergogna per parole dettemi da donne, molto piu* spesso che da omini. -- Di queste tai donne non parlo io, -- disse messer Bernardo; -- ma di quelle virtuose, che meritano riverenzia ed onore da ogni gentilomo --. Disse il signor Gasparo: -- Bisogneria ritrovare una sottil regola per cogno- scerle, perche% il piu* delle volte quelle che sono in apparenzia le migliori in effetto sono il contrario --. Allor messer Ber- nardo ridendo disse: -- Se qui presente non fosse il signor Magnifico nostro, il quale in ogni loco e* allegato per pro- tettor delle donne, io pigliarei l'impresa di rispondervi; ma non voglio far ingiuria a lui --. Quivi la signora Emilia, pur ridendo, disse: -- Le donne non hanno bisogno di diffen- sore alcuno contra accusatore di cosi* poca autorita*; pero* lasciate pur il signor Gasparo in questa perversa opinione, e nata piu* presto dal suo non aver mai trovato donna che l'abbia voluto vedere, che da mancamento alcuno delie donne; e seguitate voi il ragionamento delle facezie. LXX. Allora messer Bernardo, -- Veramente, signora, -- disse, -- omai parmi aver detto de' molti lochi onde cavar si possono motti arguti, i quali poi hanno tanto piu* grazia, quanto sono accompagnati da una bella narrazione. Pur ancor molt'altri si potrian dire; come quando, o per accre- scere o per minuire, si dicon cose che eccedeno incredibil- mente la verisimilitudine; e di questa sorte fu quella che disse Mario da Volterra d'un prelato, che si tenea tanto grand'omo, che quando egli entrava in san Pietro s'abbas- sava per non dare della testa nell'architravo della porta. Disse ancora il Magnifico nostro qui che Golpino suo ser- vitore era tanto magro e secco, che una mattina, soffiando sott'il foco per accenderlo, era stato portato dal fumo su per lo camino insino alla cima; ed essendosi per sorte tra- versato ad una di quelle finestrette, aveva au*to tanto di ventura, che non era volato via insieme con esso. Disse ancor messer Augustino Bevazzano che uno avaro, il quale non aveva voluto vendere il grano mentre che era caro, vedendo che poi s"era molto avvilito , per disperazione s'im- picco* ad un trave della sua camera; ed avendo un servitor suo sentito il strepito, corse e vide il patron impiccato, e prestamente taglio* la fune e cosi* liberollo dalla morte; da poi l'avaro, toruato in se%, volse che quel servitor gli pagasse la sua fune che tagliata gli avea. Di questa sorte pare ancor che sia quello che disse Lorenzo de' Medici ad un buffon freddo : (( Non mi faresti ridere, se mi solleticasti '). E medesimamente rispose ad un altro sciocco, il quale una mattina l'avea trovato in letto molto tardi, e gli rimpro- verava il dormir tanto, dicendogli: (( Io a quest'ora son stato in Merc'ato Novo e Vecchio, poi fuor della Porta a san Gallo, intorno alle mura a far esercizio ed ho fatto mill'ai*tre cose; e voi ancor dormite? )) Disse allora Lorenzo: (( Piu* vale quello che ho sognato in un'ora io, che quello che avete fatto in quattro voi)). LXXI. E% ancor bello, quando con una risposta l'omo riprende quello che par che riprendere non voglia. Come il marchese Federico di Mantua , padre della signora Duchessa nostra, essendo a tavola con molti gentilomini, un d'essi, dapoi che ebbe mangiato tutto un minestro , disse: (( Signor Mar- chese, perdonatimi )); e cosi* detto, comincio* a sorbire quel brodo che gli era avanzato. Allora il Marchese su*bito disse: (( Donanda pur perdono ai porci, che% a me non fai tu ingiuria alcuna )). Disse ancora messer Nicolo* Leonico per tassar un tiranno ch'avea falsamente fama di liberale: (( Pensate quanta liberalita* regna in costui, che non solamente dona la robba sua, ma ancor l'altrui )). LXXII. Assai gentil modo di facezie e* ancor quello che con- siste in una certa dissimulazione, quando si dice una cosa e tacitamente se ne intende un'altra; non dico gia* di quella -- manera totalmente contraria, come se ad un nano si dicesse gigante, e ad un negro, bianco; o vero, ad un bruttissimo, bellissimo, perche% son troppo manifeste contrarieta*, benche% queste ancor alcuna volta fanno ridere; ma quando con un parlar severo e grave giocando si dice piacevolmente quello che non s'ha in animo. Come dicendo un gentilomo una espressa bugia a messer Augustin Foglietta ed affer- mandola con efficacia, perche% gli parea pur che esso assai difficilmente la credesse, disse in ultimo messer Augustino: (( Gentilomo, se mai spero aver piacer da voi, fatemi tanta grazia che siate contento, ch'io non creda cosa che voi dicate )). Replicado pur costui, e con sacramento, esser la verita*, in fine disse: (( Poiche% voi pur cosi* volete, io lo credero* per amor vostro, perche% in vero io farei ancor mag- gior cosa per voi )). Quasi di questa sorte disse don Giovanni di Cardona d'uno che si voleva partir di Roma: (( Al parer mio costui pensa male; perche% e* tanto scelerato, che stando in Roma ancor col tempo poria esser cardinale )). Di questa sorte e* ancor quello che disse Alfonso Santa Croce ; il qual, avendo avuto poco prima alcuni oltraggi dal Cardinale di Pavia e passeggiando fuor di Bologna con alcuni genti- lomini presso al loco dove si fa la giustizia i, e vedendovi un omo poco prima piccato, se gli rivolto* con un certo aspetto cogitabundo e disse tanto forte che ognun lo senti*: << Beato tu, che non hai che fare col Cardinale di pavia! )) LXXIII. E questa sorte di facezie che tiene dell'ironico pare molto conveniente ad omini grandi, perche% e* grave e salsa e possi usare nelle cose giocose ed ancor nelle severe. Pero* molti antichi, e dei piu* estimati, l'hanno usata, come Catone, Scipione Affricano minore ; ma sopra tutti in questa dicesi esser stato eccellente Socrate filosofo , ed a' nostri tempi il re Alfonso Primo d'Aragona ; il quale essendo una mattina per mangiare, levossi molte preciose anella che nelli diti avea per non ba~arle nello lavar delle mani e cosi le diede a quello che prima gli occorse, quasi senza mirar chi fusse. Quel servi- tore penso* che 'l re non avesse posto cura a cui date l'avesse e che, per i pensieri di maggior importanzia, facil cosa fosse che in tutto se lo scordasse; ed in questo piu* si confirmo*, ve- dendo che "l re piu* non le ridomandava; e stando giomi e setti- mane e mesi senza sentime mai parola, si penso* di certo esser sicuro. E cosi essendo vicino all'anno che questo gli era oc- corso, un'altra mattina, pur quando il re voleva mangiare, si rappresento* , e porse la mano per pigliar le anella; allora il re, accostatosegli all'orecchio, gli disse: (( Bastinti le prime che% queste saran bone per un altro )). Vedete come il motto e* salso, ingenioso e grave e degno veramente della magnani- mita* d'uno Alessandro. LXXIV. Simile a questa maniera che tende all'ironico e* ancora un altro modo, quando con oneste parole si nomina una cosa viciosa. Come disse il Gran Capitano ad un suo gentilomo , il quale dopo la giomata della Cirignola , e quando le cose gia* erano in securo , gli venne incontro armato riccamente quato dir si possa, come apparechiato di combattere; ed allor il Gran Capitano, rivolto a don Ugo di Cardona , disse: (( Non abbiate ormai piu* paura di tormento di mare , che% santo Ermo e* comparito )); e con quella onesta parola lo punse, perche% sapete che sato Ermo sempre ai marinari appar dopo la tempesta e da* segno di tranquilita*; e cosi volse dire il Gran Capitano che, essendo comparito questo gentilomo, era segno che il pericolo gia* era in tutto passato. Essendo ancora il signor Ottaviano Ubaldino a Fiorenza in compagnia d'alcuni cittadini di molta autorita*, e ragio- nando di soldati, un di quei gli addimando* se conosceva Antonello da Forll , il qual allor s'era fuggito dal stato di Fiorenza. Rispose il signor Ottaviano: (( Io non lo conosco altrimenti, ma sempre l'ho sentito ricordare per un solli- cito soldato )); disse allor un altro Fiorentino: (( Vedete come egli e* sollicito, che si parte prima che domandi licenzia ). LXXV. Arguti motti son ancor quelli , quando del parlar proprio del compagno l'omo cava quello che esso non vorria; e di tal modo intendo che rispose il signor Duca nostro a quel castellano che perde% San Leo , quando questo stato fu tolto da papa Alessandro e dato al duca Valentino; e fu, che essendo il signor Duca in Venezia in quel tempo ch'io ho detto, venivano di continuo molti de' suoi sudditi a dargli secretamente notizia come passavan le cose del stato; e fra gli altri vennevi ancor questo castellano, il quale, dopo l'aversi escusato il meglio che seppe, dando la colpa alla sua disgrazia, disse: (( Signor, non dubitate, che% ancor mi basta l'animo di far di modo, che si potra* ricuperar San Leo )). Allor rispose el signor Duca: (( Non ti affaticar piu* in questo; che% gia* il perderlo e* stato un far di modo, che 'l si possa ricuperare )). Son alcun"altri detti quando un omo, conosciuto per ingenioso, dice una cosa che par che proceda da sciocchezza. Come l'altro giomo disse messer Camillo Palleotto d uno: (( Questo pazzo, su*bito che ha comin- -- ciato ad arricchire, s'e* morto )). E* simile a questo modo una certa dissimul azion salsa ed acuta, quando un omo, come ho detto, prudente, mostra non intender quello che intende. Come disse il marchese Federico de Mantua, il quale, essendo stimulato da un fastidioso, che si lamen- tava che alcuni suoi vicini con lacci gli pigliavano i colombi della sua colombara e tuttavia in mano ne tenea uno im- piccato per un pie* insieme col laccio, che cosi morto trovato l'aveva, gli rispose che si provederia. Il fastidioso non sola- inente una volta ma molte replicando questo suo danno, col mostrar sempre il colombo cosi* impiccato, dicea pur: << E che vi par, Signor, che far si debba di questa cosa ?)) Il Marchese in ultimo, (( A me par, )) disse, (( che per niente quel colombo non sia sepellito in chiesa , perche% essendosi impiccato da se stesso, e* da credere che fosse disperato )). Quasi di tal modo fu quel di Scipione Nasica ad Ennio ; che%, essendo andato Scipione a casa d'Ennio per parlargli, e chiamandol giu* dalla strada, una sua fante gli rispose che egli non era in casa: e Scipione udl manifestamente che Ennio proprio avea detto alla fante che dicesse ch'egli non era in casa: cosi* si parti. Non molto appresso venne Ennio a casa di Scipione e pur medesimamente lo chiamava stando da basso; a cui Scipione [ad] alta voce esso medesimo rispose che non era in casa. Allora Ennio, (( Come? non conosco io >>, rispose, ((la voce tua? )) Disse Scipione: << Tu sei troppo discortese; l'altro giomo io credetti alla fante tua che tu non fossi in casa e ora tu nol voi credere a me stesso >> E* ancor bello , quando uno vien morso in quella mede- sima cosa che esso prima ha morso il compagno; come essendo Alonso Carillo alla corte di Spagna ed avendo commesso alcuni errori giovenili e non di molta importanzia, per coman- damento del re fu posto in prigione e quivi lasciato una notte. Il di seguente ne fu tratto, e cosi, venendo a palazzo la mattina, giunse nella sala dove eran molti cavalieri e dame; e ridendosi di questa sua prigionia, disse la signora Boadilla : (( Signor Alonso, a me molto pesava di questa vostra disavventura, perche% tutti quelli che vi conoscono pensavan che 'l re dovesse farvi impiccare )). Allora Alonso su*bito, (( Signora )), disse, (( io ancor ebbi gran paura di questo; pur aveva speranza che voi mi dimandaste per marito 4 >>. Vedete come questo e* acuto ed ingenioso; perche% in Spagna, come ancor in molti altri lochi, usanza e* che quando si mena uno alle forche, se una meretrice publica l'addimanda per marito, donasegli la vita. Di questo modo rispose ancor Rafaello pittore a dui cardinali suoi domestici , i quali, per farlo dire, tassavano in presenzia sua una tavcla che egli avea fatta, dove erano san pietro e san Paulo, dicendo che quelle due figure eran troppo rosse nel viso. Allora Rafaello su*bito disse: << Signori, non vi maravigliate; che% io questi ho fatto a sommo studio, perche% e* da credere che rosato , e parla poco >>. Di questa sorte fu quello che disse il conte Ludovico ad uno che volea passar incognito per un certo loco pericoloso e non sapea come travestirsi; ed essen- done il Conte addimandato, rispose: << Ve%stiti da dottore, o di qualche altro abito da savio >>. Disse ancor Giannotto de' Pazzi ad un che volea far un saio d'arme dei piu* diversi colori che sapesse trovare: << piglia parole ed opre del Cardinale di Pavia >>, LXXIX. Ridesi ancor d'alcune cose discrepanti ; come disse uno l'altro giomo a messer Antonio Rizzo d'un certo Forlivese: << Pensate s'e* pazzo, che ha nome Bartolomeo >>. Ed un altro: << Tu cerchi un maestro Stalla, e non hai cavalli >>; ed, << A costui non manca pero* altro che la robba e 'l cervello >>. E d'al- cun'altre che paion consentanee ; come, a questi di*, essendo stato suspizione che uno amico nostro avesse fatto fare una renunzia falsa d'un beneficio, essendo poi malato un altro prete, disse Antonio Torello a quel tale: << Che stai tu a far, che non mandi per quel tuo notaro, e vedi di carpir que- st'altro beneficio? >> Medesimamente d'alcune che non sono consentanee; come l'altro giomo avendo il Papa mandato per messer Giovan Luca da Pontremolo e per messer Domenico dalla porta , i quali, come sapete, son tutti dui gobbi, e fattogli Auditori , dicendo voler indrizzare la Rota, disse messer Latin Iuvenale : << Nostro Signore s'inganna, volendo con dui torti indrizzar la Rota >>. LXXX. Ridesi ancor spesso quando l'omo concede quello che se gli dice, ed ancor piu*, ma mostra intenderlo altramente. Come, essendo il capitan Peralta gia* condutto in campo per combattere con Aldana e domandando il capitan Molart , che era patrino d'Aldana, a peralta il sacramento, s'avea addosso brevi o incanti che lo guardassero da esser ferito, Peralta giuro* che non avea addosso ne% brevi ne% incanti ne% reliquie ne% devozione alcuna in che avesse fede . Allor Molart, per pungerlo che fosse marano, disse: << Non vi affa- ticate in questo, che% senza giurare credo che non abbiate fede ne% anco in Cristo >>. E* ancor bello usar le metafore a tempo in tai propositi; come il nostro maestro Marco An- tonio , che disse a Botton da Cesena , che lo stimulava con parole: << Botton, Bottone, tu sarai un di il bottone e 'l capestro sara* la fenestrella >>. Ed avendo ancor maestro Marco Antonio composto una molto lunga comedia e di varii atti, disse il medesimo Botton pur a maestro Marc'An- tonio: << A far la vostra comedia bisogneranno per lo apparato quanti legni sono in Schiavonia >>; rispose maestro Marc'An- tonio: << E per l'apparato della tua tragedia basteran tre solamente >>. LXXXI. Spesso si dice ancor una parola, nella quale e* una na- scosta significazione lontana da quello che par che dir si voglia. Come il signor Prefetto qui, sentendo ragionare d'un capitano, il quale in vero a' suoi di* il piu* delle volte ha per- duto, e allor pur per avventura avea vinto; e dicendo colui che ragionava, che nella entrata che egli avea fatta in quella terra s'era vestito un bellissimo saio di velluto cremosi* , il qual portava sempre dopo le vittorie, disse il signor Prefetto: << Dee esser novo >>. Non meno induce il riso, quando talor si risponde a quello che non ha detto colui con cui si parla, o ver si mostra creder che abbia fatto quello che non ha fatto, e dovea fare. Come Andrea Coscia , essendo andato a visitare un gentilomo, il quale discortesemente lo lasciava stare in piedi, ed esso sedea, disse: << Poiche% vostra Signoria me lo commanda, per obedire io sedero* >>; e cosi si pose a sedere. LXXXII. Ridesi ancor quando l'omo con bona grazia accusa se stesso di qualche errore; come l"altro giomo, dicendo io al capellan del signor Duca, che Monsignor mio avea un ca- pellano che dicea messa piu* presto di lui, mi rispose: << Non e* possibile >>; ed accostatomisi all'orecchio, disse: << Sapiate ch'io non dico un terzo delle secrete >>. Biagin Crivello ancor, essendo stato morto un prete a Milao, domando* il beneficio al Duca , il qual pur stava in opinion di darlo ad un altro. Biagin in ultimo, vedendo che altra ragione non gli valea, << E come? >> disse; << s io ho fatto ammazzar il prete, perche% non mi volete voi dar il beneficio ? >> Ha grazia ancor spesso desiderare quelle cose che non possno essere; come l'altro giomo un de' nostri , vedendo questi signori che tutti giocavano d'arme ed esso stava colcato sopra un letto, disse: << Oh come mi piaceria, che acor questo fosse eser- cizio da valente omo e bon soldato! >> E* ancor bel modo e salso di parlare, e massimamente in persone gravi e d'au- torit a*, rispondere al contrario di quello che vorria colui con chi si parla, ma lentamente, e quasi con una certa consi- derazione dubbiosa e suspesa. Come gia* il re Alfonso primo d'Aragona, avendo donato ad un suo servitore arme, cavalli e vestimenti, perche% gli avea detto che la notte avanti so- gnava che sua Altezza gli dava tutte quelle cose; e non molto poi dicendogli pur il medesimo seodtore, che ancor quella notte avea sognato che gli dava una bona quantita* di fiorin d'oro, gli rispose: << Non crediate da mo inanzi ai sogni, che% non sono veritevoli >>. Di questa sorte rispose ancor il Papa al Vescovo di Cervia , il qual, per tentar la volunta* sua, gli disse: (( Padre Santo, per tutta Roma e per lo palazzoiT ancora si dice che vostra Santita* mi fa governatore )). Allor il Papa, (( Lasciategli dire )), rispose, h che% son ribaldi; non dubitate, che non e* vero niente ). LXXXIII. Potrei forsi ancor i, signori, racco*rre 2 molti altri lochi a, d d,e si cavano motti ridiculi; come le cose dette con timi- dita*, con maraviglia, con minacce for d'ordine, con troppo collera; oltra di questo, certi casi novi , che intervenuti inducono il riso; talor la taciturnita*, con una certa maraviglia; talor il medesimo ridere senza proposito; ma a me pare ormai aver detto a bastanza, perche% le facezie che consistono nelle parole credo che non escano di que' termini di che noi avemo ragionato. Quelle poi che sono nell'effetto , avvenga che abbian infinite parti, pur si riducono a pochi capi ; ma nel- l'una e nell'altra sorte la principal cosa e* lo ingannar la opi- nione e rispondere altramente che quello che aspetta l'au- ditore; ed e* forza, se la facezia ha d'aver grazia, sia condita di quello inganno, o dissimulare o beffare o riprendere o comparare, o qual altro modo voglia usar l'omo. E benche% le facezie inducano tutte a ridere, fanno pero* ancor in questo -- ridere diversi effetti ; perche% alcune hanno in se% una certa eleganzia e piacevolezza modesta, altre pungono talor co- pertamente, talor publico , altre hanno del lascivetto, altre fanno ridere su*bito che s'odono, altre quanto piu* vi si pensa, altre col riso fanno ancor arrossire, altre inducono un poco d'ira; ma in tutti i modi s'ha da considerar la disposizion degli animi degli auditori, perche% agli afflitti spesso i giochi danno maggior afflizione; e sono alcune infirmita* che, quanto piu* vi si adopra medicina, tanto piu* si incrudiscono . Avendo adunque il cortegiano nel motteggiare e dir piacevolezze rispetto al tempo, alle persone, al grado suo e di non esser in cio* troppo frequente (che% in vero da* fastidio, tutto il giomo, in tutti i ragionamenti e senza proposito, star sempre su questo), potra* esser chiamato faceto; guardando ancor di non esser tanto acerbo e mordace, che si faccia conoscer per maligno, pungendo senza causa o ver con odio manifesto; o ver persone troppo potenti, che e* imprudenzia; o ver troppo misere, che e* crudelta*; o ver troppo scelerate, che e* vanita*; 0 ver dicendo cose che offendan quelli che esso non vorria offendere, che e* ignoranzia; perche% si trovano alcuni che si credono esser obligati a dir e punger senza rispetto ogni volta che possono, vada pur poi la cosa come vole. E tra questi tali son quelli, che per dire una parola argutamente, non guardan di macular l'onor d'una nobil donna; il che e* malissima cosa e degna di gravissimo castigo, perche% in questo caso le donne sono nel numero dei miseri, e pero* non meri- tano in cio essere mordute , che% non hanno arme da diffen- dersi. Ma, oltre a questi rispetti , bisogna che colui che ha da esser piacevole e faceto, sia formato d'una certa natura atta a tutte le sorti di piacevolezze ed a quelle accommodi li costumi, i gesti e 'l volto; il quale quant'e* piu* grave e se- vero e saldo, tanto piu* fa le cose che son dette parer salse ed argute. LXXXIV. Ma voi, messer Federico, che pensaste di riposarvi sotto questo sfogliato albero e nei mei secchi ragionamenti, credo che ne siate pentito e vi paia esser entrato nell'ostaria di Montefiore ; pero* ben sara* che, a guisa di pratico corrieri , per fuggir un tristo albergo, vi leviate un poco piu* per tempo che l'ordinario e seguitiate il camin vostro. -- Anzi, -- rispose messer Federico, -- a cosi* bon albergo sono io venuto, che penso di starvi piu* che prima non aveva deliberato; pero* riposerommi pur ancor fin a tanto che voi diate fine a tutto 'l ragionamento proposto, del quale avete lasciato una parte che al principio nominaste, che son le << burle >>; e di cio* non e* bono che questa compagnia sia defraudata da voi. Ma si come circa le facezie ci avete insegnato molte belle cose e fattoci audaci nello usarle, per esempio di tanti singulari ingegni e grandi omini, e principi e re e papi, credo medesimamente che nelle burle ci darete tanto ardimento, che pigliaremo segurta* di metterue in opera qualcuna ancor contra di voi --. Allor messer Bemardo ridendo, -- Voi non sarete, -- disse, -- i primi; ma forse non vi verra* fatto, perche% omai tante n'ho ricevute, che mi guardo da ogni cosa, come i cani che, scottati dall'acqua calda, hanno paura della fredda. Pur, poiche% di questo ancor volete ch'io dica, penso potermene espedir con poche parole. LXXXV. E' parmi che la burla non sia altro che un inganno ami- chevole di cose che non offendano, o almen poco; e si come nelle facezie il dir contra l'aspettazione, cosi* nelle burle il far contra l'aspettazione induce il riso. E queste tanto piu* piacciono e sono laudate quanto piu* hanno dello ingenioso e modesto ; perche% chi vol burlar senza rispetto spesso of- fende e poi ne nascono disordini e gravi inimicizie. Ma i lochi donde cavar si posson le burle son quasi i medesimi delle facezie. Pero*, per non replicargli, dico solamente che di due sorti burle si trovano, ciascuna delle quali in piu* parti poi divider si poria. L'una e*, quando s'inganna ingeniosa- mente con bel modo e piacevolezza chi si sia l'altra, quando si tende quasi una rete e mostra un poco d'esca, talche% l'omo corre ad ingannarsi da se stesso. Il primo modo e* tale, quale fu la burla che a questi di* due gran signore, ch'io non voglio nominare , ebbero per mezzo d'un Spagnolo chiamato Castiglio --. Allora la signora Duchessa -- E perche%, disse, -- non le volete voi nominare? -- Rispose messe Bemardo: -- Non vorrei che lo avessero a male -- Replic la signora Duchessa ridendo: -- Non si disconvien talor usare le burle ancor coi gran signori; ed io gia* ho udito molte e serue state fatte al duca Federico, al re Alfonso d'Aragona alla reina donna Isabella di Spagna ed a molti altri gra principi; ed essi non solamente non lo aver avuto a male, ma aver premiato largamente i burlatori --. Rispose messe Bemardo: -- Ne% ancor con questa speranza le nominarc io. -- Dite come vi piace, -- suggiunse la signora Duchess Allor seguito* messer Bernardo e disse: -- Pochi di* sono che nella corte di chi io intendo capito* un contadin berga masco per servizio di un gentilom cortegiano, il quaI fu tanto ben divisato di panni ed acconcio cosi* attillatament che, awenga che fosse usato solamente a guardar buoi , ne% sapesse far altro mestiero, da chi non l'avesse sentit ragionare saria stato tenuto per un galate cavaliero; e cosi essendo detto a quelle due signore che quivi era capi tato un Spagnolo servitore del cardinale Borgia che si chiamava Castiglio, ingeniosissimo, musico, danzatore, bal latore e piu* accorto cortegiano che fosse in tutta Spagna, vennero in estremo desiderio di parlargli, e su*bito mandaron per esso; e dopo le onorevoli accoglienze, lo fecero sedere e cominciarono a parlargli con grandissimo riguardo in pre senzia d'ognuno; e pochi eran di quelli che si trovavano presenti, che non sapessero che costui era un vaccaro berga masco. pero*, vedendosi che quelle signore l'intertenevano che faceano la burla aveano prima detto a queste signore che costui, tra l'altre cose, era gran burlatore, e parlava eccellentemente tutte le lingue, e massimamente lombardo contadino; di sorte che sempre estimarono che fingesse; e spesso si voltavano l'una all'altra con certe maraviglie e diceano: (( Udite gra cosa, come contrafa* questa lingua! )) In somma, tanto duro* questo ragionamento, che ad ognuno doleao gli fianchi per le risa; e fu forza che esso medesimo desse tanti contrasegni della sua nobilita*, che pur in ul- timo queste signore, ma con gra fatica, credettero che 'l fusse quello che egli era. LXXXVI. Di questa sorte burle ogni di* veggiamo; ma tra l'altre quelle son piacevoli, che al principio spaventano e poi rie- scono in cosa sicura, perche% il medesimo burlato si ride di se stesso, vedendosi aver avuto paura di niente. Come es- sendo io una notte alloggiato in Paglia, intervenne che nella medesima ostaria ov'ero io erano ancor tre altri compagni, dui da Pistoia, l'altro da Prato, i quali dopo cena si misero, come spesso si fa, a giocare: cosi* non v'ando* molto che uno dei dui Pistolesi, perdendo il resto, resto* senza un quattrino, di modo che comincio* a desperarsi e maledire e biastemare fieramente; e cosi* rinegando se n'ando* a dormire. Gli altri dui, avendo alquanto giocato, deliberarono fare una burla a questo che era ito a letto. Onde, sentendo che esso gia* dormiva, spensero tutti e lumi e velarono il foco; poi si misero a parlar alto e far i maggiori romori del mondo, mo- strando venire a contenzione del gioco , dicendo uno: ((Tu hai tolto la carta di sotto ); l'altro negandolo, con dire: (( E tu hai invitato sopra flusso; il gioco vadi a monte ); e cotai cose, con tanto strepito, che colui che dormiva si ri- sveglio*; e sentendo che costoro giocavano e parlavano cosi come se vedessero le carte, un poco aperse gli occhi, e non vedendo lume alcuno in camera, disse: (( E che diavol farete voi tutta notte di cridare ?)) Poi su*bito se rimise giu*, come per dormire. I dui compagni non li diedero altrimenti ri- sposta, ma seguitarono l'ordine suo; di modo che costui, meglio risvegliato, comincio* a maravigliarsi, e vedendo certo che ivi non era ne% foco ne% splendor alcuno e che pur costoro giocavano e contendevano, disse: (( E come potete voi veder le carte senza lume? )) Rispose uno delli dui: (( Tu de*i aver perduto la vista insieme con li danari; non vedi tu, se qui abbiam due candele? )) Levossi quello che era in letto su le braccia e quasi adirato disse: ((0 ch'io sono ebriaco 0 cieco, o voi dite le bugie )). Li due levaronsi ed andorono a letto tentoni, ridendo e mostrando di credere che colui si facesse beffe di loro; ed esso pur replicava: (( Io dico che non vi veggo ). In ultimo li dui cominciorono a mostrare di maravigliarsi forte e l'uno disse all'altro: (( Oime*, parmi che 'l dica da dovero; da' qua quella candela, e veggiamo se forse gli si fosse inturbidata la vista )). Allor quel meschino tenne per fermo d'esser diventato cieco, e piangendo dirot- -- tamente disse: (( 0 fratelli mei, io son cieco ); e su*bito co- mincio* a chiamar la Nostra Donna di Loreto e pregarla che gli perdonasse le biastemme e le maledizioni che gli avea date per aver perduto i denari. I dui compagni pur lo confortavano e dicevao: (( E' non e* possibile che tu non ci vegghi; egli e* una fantasia che tu t'hai posta in capo )). (( Oime* )), replicava l'altro, (( che questa non e* fantasia, ne% vi veggo io altrimenti che se non avessi mai avuti occhi in testa )). ((Tu hai pur la vista chiara ), rispondeano li dui e diceano l'un altro: (( Guarda come egli apre ben gli occhi e come gli ha belli! e chi poria creder ch'ei non vedesse? )) Il poveretto tuttavia piangea piu* forte e dimandava mi- sericordia a Dio. In ultimo costoro gli dissero: (( Fa' voto d'andare alla Nostra Donna di Loreto devotamente scalzo ed ignudo, che% questo e* il miglior rimedio che si possa avere; e noi fra tanto andaremo ad Acqua Pendente e quest'altre terre vicine per veder di qualche medico, e non ti mancaremo di cosa alcuna possibile )). Allora quel meschino su*bito s'in- ghinocchio* nel letto, e con infinite lacrime ed amarissima penitenzia dello aver biastemato fece voto solenne d'andar ignudo a Nostra Signora di Loreto ed offerirgli un paio d'oc- chi d'argento e non mangiar carne il mercore, ne% ova il venere, e digiunar pane ed acqua ogni sabbato ad onore di Nostra Signora, se gli concedeva grazia di ricuperar la vista. I dui compagni, entrati in un'altra camera, accesero un lume e se ne vennero con le maggior risa del mondo davanti a questo poveretto; il quale, benche% fosse libero di cosi* grande affanno, come potete pe"nsare, pur era tanto attonito della passata paura, che non solamente non potea ridere, ma ne% pur par- lare; e li dui compagni non faceano altro che stimularlo, dicendo che era obligato a pagar tutti questi voti, perche% avea ottenuta la grazia domandata. LXXXVII. Dell'altra sorte di burle, quando l'omo inganna se stesso, non daro* io altro esempio, se non quello che a me intervenne, non e* gran tempo: perche% a questo cameval passato Monsignor mio di San Pietro ad Vincula, il qual sa come io mi piglio piacer, quando son maschera, di burlar frati, avendo prima ben ordinato cio* che fare intendeva, venne insieme un di* con Monsignor d'Aragona ed alcuni altri cardinali a certe finestre in Banchi, mostrando voler star quivi a veder passar le maschere, come e* usanza di Roma. Io, essendo maschera, passai, e vedendo un frate cosi* da un canto che stava un poco suspeso, giudicai aver trovata la mia ven- tura e su*bito gli corsi come un famelico falcone alla preda; e prima domandatogli chi egli era, ed esso rispostomi, mostrai di conoscerlo e con molte parole cominciai ad indurlo a cre- dere che 'l barigello l'andava cercando per alcune male in- fomazioni che di lui s'erao avute, e confortarlo che venisse meco insino alla cancelleria, che% io quivi lo salvarei. Il frate, pauroso e tutto tremante, parea che non sapesse -- che si fare e dicea dubitar, se si dilungava da Sa Celso, d'esser preso. Io pur facendogli bon animo, gli dissi tanto, che mi monto* di groppa, ed allor a me parve d'aver a pien compi*to il mio disegno; cosi* su*bito cominciai a rimettere il cavallo per Banchi, il qual andava saltellando e traendo calci. Imaginate or voi che bella vista facea un frate in groppa di una maschera, col volare del mantello e scuotere il capo innanzi e 'ndietro, che sempre parea che andasse per ca- dere. Con questo bel spettaculo cominciarono que' signori a tirarci ova dalle finestre, poi tutti i banchieri e quante persone v'erano; di modo che non con maggior impeto cadde dal cielo mai la grandine, come da quelle finestre cadeano l'ova, le quali per la maggior parte sopra di me venivano; ed io per esser maschera non mi curava, e pareami che quelle risa fossero tutte per lo frate e non per me; e per questo piu* volte tomai innanzi e 'ndietro per Banchi, sempre con quella furia alle spalle; benche% il frate quasi piangendo mi pregava ch'io lo lassassi scendere, e non facessi questa vergogna all'abito; poi, di nascosto, il ribaldo si facea dar ova ad alcuni staffieri posti quivi per questo effetto, e mostrando tenermi stretto per non cadere me le schiacciava nel petto, spesso in sul capo, e talor in su la fronte medesima; tanto ch'io era tutto consumato. In ultimo, quando ognuno era stanco e di ridere e di tirar ova, mi salto* di groppa, e calla- tosi indrieto lo scapularo mostro* una gran zazzera e disse: (( Messer Bernardo, io son un famiglio di stalla di San Pietro ad Vincula e son quello che govema il vostro muletto )), Allor io non so qual maggiore avessi 0 dolore o ira o vergogna; pur, per men male, mi posi a fuggire verso casa e la mattina seguente non osava comparere; ma le risa di questa burla non solamente il di seguente, ma quasi insino adesso son durate. LXXXVIII. E cosi* essendosi per lo raccontarla alquanto rinovato il ridere, suggiunse messer Bernardo: -- E* ancor un modo di burlare assai piacevole, onde medesimamente si cavano facezie, quando si mostra credere che l'omo voglia fare una cosa, che in vero non vol fare. Come essendo io in sul ponte di Leone una sera dopo cena, e andando insieme con Cesare Beccadello scherzando, cominciammo l'un l'altro a pi- gliarsi alle braccia, come se lottare volessimo; e questo perche% allor per sorte parea che in su quel ponte non fusse persona; e stando cosi*, sopragiunsero dui Franzesi i quali, vedendo questo nostro debatto, dimandarono che cosa era e ferma- ronsi per volerci spartire, con opinion che noi facessimo que- stione da dovero. Allor io tosto, (( Aiutatemi )), dissi, (( si- gnori, che% questo povero gentilomo a certi tempi di luna ha mancamento di cervello; ed ecco che adesso si vorria pur gittar dal ponte nel fiume )). Allora quei dui corsero, e meco presero Cesare e tenevanlo strettissimo; ed esso, sempre dicendomi ch'io era pazzo, mettea piu* forza per sviluppars loro dalle mani e costoro tanto piu* lo stringevano; di sorte che la brigata comincio* a vedere questo tumulto ed ognun -- corse; e quanto piu* il bon Cesare battea delle mani e piedi, che% gia* cominciava entrare in collera, tanto piu* gente sopra- giungeva; e per la forza grande che esso metteva, estima- vano fermamente che volesse saltar nel fiume, e per questo lo stringevan piu*; di modo che una gran brigata d'omini lo portarono di peso all'osteria, tutto scarmigliato e senza berretta, pallido dalla collera e dalla vergogna; che% non gli valse mai cosa che dicesse, tra perche% quei Franzesi non lo intendevano, tra perche% io ancor conducendogli al- l'osteria sempre andava dolendomi della disavventura del poveretto, che fosse cosi* impazzito. LXXXIX. Or, come avemo detto, delle burle si poria parlar lar- gamente; ma basti il replicare che i lochi onde si cavano sono i medesimi delle facezie. Degli esempi poi n'avemo infiniti, che% ogni di* ne veggiamo; e tra gli altri, molti piacevoli ne sono nelle novelle del Boccaccio, come quelle che faceano Bruno e Buffalmacco al suo Calandrino ed a maestro Si- mone, e molte altre di donne, che veramente sono inge- niose e belle. Molti omini piacevoli di questa sorte ricor- domi ancor aver conosciuti a' mei di*, e tra gli altri in Padoa uno scolar siciliao, chiamato Ponzio; il qual vedendo una volta un contadino che aveva un paro di grossi caponi. fingendo volergli comperare fece mercato con esso e disse che andasse a casa seco, che%, oltre al prezzo, gli darebbe da far colazione; e cosi* lo condusse in parte dove era un campanile, il quale e* diviso dalla chiesa, tanto che andar vi si po d'in- torno; e proprio, ad una delle quattro facce del campanile rispondeva una stradetta piccola. Quivi ponzio, avendo prima pensato cio* che far intendeva, disse al contadino: (( Io ho giocato questi caponi con un mio compagno, il qual dice che questa torre circunda ben quaranta piedi, ed io dico di no; e a punto allora quand'io ti trovai aveva compe- rato questo spago per misurarla; pero*, prima che andiamo a casa, voglio chiarirmi chi di noi abbia vinto )); e cosi* dicendo trassesi dalla manica quel spago e diello da un capo in mano al contadino e disse: (( Da' qua )); e tolse i caponi e prese il spago dall'altro capo; e, come misurar volesse, comincio* a circundar la torre avendo prima fatto affermar il conta- dino, e tener il spago dalla parte che era opposta a quella faccia che rispondeva nella stradetta; alla quale come esso fu giunto, cosi* ficco* un chiodo nel muro, a cui annodo* il spago; e lasciatolo in tal modo, cheto cheto se n'ando* per quella stradetta coi caponi. Il contadino per bon spazio stette fermo, aspettando pur che colui finisse di misurare; in ultimo, poi che piu* volte ebbe detto: (( Che fate voi tato? )), volse vedere, e trovo* che quello che tenea lo spago non era Ponzio, ma era un chiodo fitto nel muro, il qual solo gli resto* per pagamento dei caponi. Di questa sorte fece Ponzio infinite burle. Molti altri sono ancora stati omini piacevoli di tal manera, come il Gonella, il Meliolo in que' tempi ed ora il nostro frate Mariano e frate Selfino qui, e molti che tutti conoscete. Ed in vero questo modo e* lodevole in omini che non facciano altra pro- fessione; ma le burle del cortegiano par che si debbano allon tanar un poco piu* dalla scurilita*. Deesi ancora guardar ch le burle non passino alla barraria, come vedemo molti mali omini che vanno per lo mondo con diverse astuzie per gua- dagnar denari, fingendo or una cosa ed or un'altra; e che non siano anco troppo acerbe, e sopra tutto aver rispetto -- e riverenzia, cosi* in questo come in tutte l'altre cose, alle donne, e massimamente dove intervenga offesa della onesta*. XC. Allora il signor Gasparo, -- Per certo, -- disse, -- messer Bemardo, voi sete pur troppo parziale a queste donne. E perche% volete voi che piu* rispetto abbiano gli omini alle donne, che le donne agli omini? Non dee a noi forse esser tanto caro l'onor nostro, quanto ad esse il loro? A voi pare adunque che le donne debban pungere e con parole e con beffe gli omini in ogni cosa senza riservo alcuno, e gli omini se ne stiano muti e le ringrazino da vantaggio ? -- Rispose allor messer Bernardo: -- Non dico io che le donne non deb- bano aver nelle facezie e nelle burle quei respetti agli omini che avemo gia* detti; dico ben che esse possono con piu* li- cenzia morder gli omini di poca onesta*, che non possono gli omini mordere esse; e questo perche% noi stessi avemo fatta una legge, che in noi non sia vicio ne% macamento ne% in- famia alcuna la vita dissoluta e nelle donne sia tanto estremo obbrobrio e vergogna, che quella di chi una volta si parla male, o falsa o vera che sia la calunnia che se le da*, sia per sempre vituperata. Pero* essendo il parlar dell'onesta* delle donne tanto pericolosa cosa d'offenderle gravemente, dico che dovemo morderle in altro ed astenerci da questo; perche% pungendo la facezia o la burla troppo acerbamente, esce del termine che gia* avemo detto convenirsi a gentilomo. XCI. Quivi, facendo un poco di pausa messer Bernardo, disse il signor Ottavian Fregoso ridendo: -- Il signor Gaspar potrebbe rispondervi che questa legge, che voi allegate che noi stessi avemo fatta, non e* forse cosi fuor di ragione come a voi pare; perche% essendo le donne animali imperfettissimi e di poca o niuna dignita* a rispetto degli omini, bisognava, poiche% da se% non erano capaci di far atto alcun virtuoso, che con la vergogna e timor d%infamia si ponesse loro un freno, che quasi per forza in esse introducesse qualche bona qualita*; e parve che piu* necessaria loro fosse la continenzia che al- cuna altra, per aver certezza dei figlioli; onde e* stato forza con tutti gl%ingegni ed arti e vie possibili far le donne conti- nenti, e quasi conceder loro che in tutte l%altre cose siano di poco valore, e che sempre facciano il contrario di cio* che devriano. Pero* essendo lor licito far tutti gli altri errori senza biasimo, se noi le vorremo mordere di quei diffetti i quali, come avemo detto, tutti ad esse sono conceduti e pero* a loro non sono disconvenicnti, ne% esse se ne curano. non moveremo mai il riso; perche% gia* voi avete detto che %l riso si move con alcune cose che son disconvenienti. XCII. Allor la signora Duchessa, -- In questo modo, -- disse, -- signor Ottaviano, parlate delle donne; e poi vi dolete che esse non v%amino? -- Di questo non mi dolgo io, -- ri- spose il signor Ottaviano, -- anzi le ringrazio, poiche% con lo amarmi non m%obligano ad amar loro; ne% parlo di mia opi- nione, ma dico che %l signor Gasparo potrebbe allegar queste ragioni --. Disse messer Bernardo: -- Gran guadagno in vero fariano le donne se potessero riconciliarsi con dui suoi tanto gran nemici, quanto siete voi e %l signor Gasparo. -- Io non son lor nemico, -- rispose il signor Gasparo, -- ma voi sete ben nemico degli omini; che% se pur volete che le donne non siano mordute circa questa onesta*, dovreste mettere una legge ad esse ancor, che non mordessero gli omini in quello che a noi cosi* e* vergogna, come alle donne la inconti- nenzia. E perche% non fu cos conveniente ad Alonso Cariglio la risposta che diede alla signora Boadiglia della speranza che avea di campar la vita, perche% essa lo pigliasse per marito, come a lei la proposta che ognun che lo conoscea pensava che %l Re lo avesse da far impiccare? E perche% non fu cosi* licito a Riciardo Minutoli gabbar la moglie di Filippello e farla venir a quel bagno, come a Beatrice far uscire del letto Egano suo marito e fargli dare delle bastonate da Ani- chino, poi che un gran pezzo con lui giacciuta si fu? E quel- l%altra che si lego* lo spago al dito del piede e fece credere al marito proprio non esser dessa? Poiche% voi dite che quelle burle di donne nel Giovan Boccaccio son cosi ingeniose e belle. XCIII. Allora messer Bemardo ridendo, -- Signori, -- disse, -- essendo stato la parte mia solamente disputar delle facezie, io non intendo passar quel termine; e gia* penso aver detto perche% a me non paia conveniente morder le donne ne% in detti ne% in fatti circa l%onesta*, e ancor ad esse aver posto regula, che non pungan gli omini dove lor dole. Dico ben che delle burle e motti che voi, signor Gasparo, allegate, quello che disse Alonso alla signora Boadiglia, avvegna che tocchi un poco la onesta*, non mi dispiace, perche% e* tirato assai da lontano ed e* tanto occulto che si po intendere simplicemente, di modo che esso potea dissimularlo ed af- fermare non l%aver detto a quel fine. Un altro ne disse al parer mio disconveniente molto; e questo fu, che passando la Regina davanti la casa pur della signora Boadiglia, vide Alonso la porta tutta dipinta con carboni di quegli animali disonesti che si dipingono per l%osterie in tante forme; ed accostatosi alla Contessa di Castagneto, disse: (( Eccovi, Signora, le teste delle fiere che ogni giomo ammazza la signora Boadiglia alla caccia )). Vedete che questo, avvegna che sia ingeniosa metafora, e ben tolta dai cacciatori, che hanno per gloria aver attaccate alle lor porte molte teste di fiere, pur e* scurile e vergognoso; oltra che non fu risposta, che% il rispondere ha molto piu* del cortese, perche% par che l%omo sia provocato; e forza e* che sia all%improviso. Ma tomando a proposito delle burle delle donne, non dico io che faccia bene ad ingannare i mariti, ma dico che alcuni di quegli inganni che recita Giova Boccaccio delle donne son belli -- ed ingeniosi assai, e massimamente quelii che voi proprio avete detti. Ma, sccondo me, la burla di Riciardo Minutoli passa il termine ed e* piu* acerba assai che quella di Beatrice, che% molto piu* tolse Riciardo Minutoli alla moglie di Filip- pello, che non tolse Beatrice ad Egano suo marito; perche% Riciardo con quello inganno sforzo* colei e fecela far di se stessa quello che ella non voleva; e Beatrice inganno* suo marito per far essa di se stessa quello che le piaceva. XCIV. Allor il signor Gasparo, -- Per niuna altra causa, -- disse, -- si po escusar Beatrice eccetto che per amore; il che si deve cosi* ammettere negli omini, come nelle donne --. Allora mes- ser Bemardo, -- In vero, -- rispose, -- grande escusazione d%ogni fallo portan seco le passioni d%amore; nientedimeno io per me giudico che un gentilomo di valore il quale ami, debba, cosi* in questo come in tutte l%altre cose, esser sincero e veridico; e se e* vero che sia vilta* e macamento tanto abo- minevole l%esser traditore ancora contra un nemico, consi- derate quanto piu* si deve estimar grave tal errore contra persona che s%ami; ed io credo che ogni gentil innamorato tolleri tante fatiche, tante vigilie, si sottoponga a tanti pericoli, sparga tante lacrime, usi tanti modi e vie di compia- cere l%amata donna, non per acquistame principalmente il corpo, ma per vincer la ro*cca di quell%animo, spezzare quei durissimi diamanti, scaldar que% freddi ghiacci, che spesso ne% delicati petti stanno di queste donne; e questo credo sia il vero e sodo piacere e %l fine dove tende la intenzione d%un nobil core; e certo io per me amerei meglio, essendo inna- morato, conoscer chiaramente che quella a cui io servissi mi redamasse di core e m%avesse donato l%animo, senza aveme mai altra satisfazione, che goderla ed averne ogni copia contra sua voglia; che% in tal caso a me pareria esser patrone d%un corpo morto. Pero* quelli che consegueno e suoi deside*ri per mezzo di queste burle, che forse piu* tosto tradimenti che burle chiamar si poriano, fanno ingiuria ad altri; ne% con tutto cio* han quella satisfazione che in amor desiderar si deve, possedendo il corpo senza la volunta*. Il medesimo dico d%alcun%altri, che in amore usano incan- tesmi, malie e talor forza, talor sonniferi e simili cose; e sappiate che li doni ancora molto diminuiscono i piaceri d%amore, perche% l%omo po star in dubbio di non essere amato, ma che quella donna faccia dimostrazion d%amarlo per trarne utilita*. Pero* vedete gli amori di gran donne essere estimati, perche% par che non possano proceder d%altra causa che da proprio e vero amore, ne% si dee credere che una gran signora mai dimostri amare un suo minore, se non l%ama veramente. XCV Allor il signor Gaspar, -- Io non nego, -- rispose, -- che la intenzione, le fatiche e i periculi degli innamorati non deb- bano aver principalmente il fin suo indrizzato alla vittoria dell%animo piu* che del corpo della donna amata; ma dico -- che questi ingani, che voi negli omini chiamate tradimenti e nelle donne burle, son ottimi mezzi per giungere a questo fine, perche% sempre chi possede il corpo delle donne e* ancora signor dell%animo; e se ben vi ricorda, la moglie di Filippello, dopo tanto ramarico per lo inganno fattoli da Riciardo, conoscendo quanto piu* saporiti fossero i basci dell%amante che que% del marito, voltata la sua durezza in dolce amore verso Riciardo, tenerissimamente da quel giomo innanzi l%amo*. Eccovi che quello che non avea potuto far il sollicito frequentare, i doni e tant%altri segni cosi* lungamente dimo- strati, in poco d%ora fece lo star con lei. Or vedete che pur questa burla, o tradimento, come vogliate dire, fu bona via per acquistar la ro*cca di quell%animo --. Allora messer Ber- nardo, -- Voi, -- disse, -- fate un presuposto falsissimo; che% se le donne dessero sempre l%animo a chi lor tiene il corpo, non se ne trovaria alcuna che non amasse il marito piu* che altra persona del mondo; il che si vede in contrario. Ma Giovan Boccaccio era, come sete ancor voi, a gran torto nemico delle donne. XCVI. Rispose il signor Gaspar: -- Io non son gia* lor nemico; ma ben pochi omini di valor si trovano, che generalmente tengan conto alcuno di donne, se ben talor per qualche suo disegno mostrano il contrario --. Rispose allora messer Bemardo: -- Voi non solamente fate ingiuria alle donne, ma ancor a tutti gli omini che l%hanno in riverenzia; nientedi- meno io, come ho detto, non voglio per ora uscir del mio primo proposito delle burle ed entrar in impresa cosi* diffi- cile, come sarebbe il diffender le donne contra voi, che sete grandissimo guerriero; pero* daro* fine a questo mio ragiona- mento, il qual forse e* stato molto piu* lungo che non bisognava, ma certo men piacevole che voi non aspettavate. E poi- ch%io veggio le donne starsi cosi* chete e supportar le ingiurie da voi cosi pazientemente come fanno, estimaro* da mo innanzi esser vera una parte di quello che ha detto el signor Ottaviano, cioe* cioe* esse non si curano che di lor sia detto male in ogni altra cosa, pur che non siano mordute di poca onesta* --. Allora una gran parte di quelle donne, ben per averle la signora Duchessa fatto cosi* cenno, si levarono in piedi e ridendo tutte corsero verso il signor Gasparo, come per dargli delle busse, e fame come le Baccanti d%Orfeo, tuttavia dicendo: -- Ora vedrete, se ci curiamo che di noi si dica male. Cosi, tra per le risa tra per lo levarsi o in di parve che l sonno% il quale omai occupava gli occhi e l%a- nimo d%alcuni, si partisse; ma il signor Gasparo comincio* a dire: -- Eccovi che per non aver ragione voglion valersi della forza ed a questo modo finire il ragionamento dandoci come si sol dire, una licenzia braccesca --. Allor, -- Non vi verra* fatto, -- rispose la signora Emilia; -- che%, poiche% avete veduto messer Bemardo stanco del lungo ragionare, avete cominciato a dir tanto mal delle donne, con opinione di non aver chi vi contradica; ma noi metteremo in campo un cavalier piu* fresco, che combattera* con voi, accio* che l%error vostro non sia cosl lungamente impunito --. Cosi* rivoltandosi al Magnifico Iuliano, il qual fin allora poco parlato avea, disse: -- Voi sete estimato protettor dell%onor delle donne; pero* adesso e* tempo che dimostriate non aver acquistato questo nome falsamente; e se per lo addietro di tal professione avete mai avuto remunerazione alcuna, ora pensar dovete, reprimendo cosi* acerbo nemico nostro, d%obligarvi molto piu* tutte le donne, e tanto che, avvegna che mai non si faccia altro che pagarvi, pur l%obligo debba sempre restar vivo, ne% mai si possa finir di pagare. XCVIII. Allora il Magnifico Iuliano, -- Signora mia, -- rispose, -- parmi che voi facciate molto onore al vostro nemico e po- chissimo al vostro diffensore; perche% certo insin a qui niuna cosa ha detta il signor Gasparo contra le donne, che messer Bernardo non- gli abbia ottimamente risposto; e credo che ognun di noi conosca che al cortegiano si convien aver grandissima riverenzia alle donne, e che chi e* discreto e cortese non deve mai pungerle di poca onesta*, ne% scher- zando ne% da dovero; pero* il disputar questa cosi* palese verita* e* quasi un metter dubbio nelle cose chiare. Parmi ben che %l signor Ottaviano sia un poco uscito de% termini, dicendo che le donne sono animali imperfettissimi e non capaci di far atto alcuno virtuoso e di poca o niuna dignita* a rispetto degli omini; e perche% spesso si da* fede a coloro che hanno molta autorita* se ben non dicono cosi* compita- mente il vero, ed ancor quando parlano da beffe, hassi il signor Gaspar lassato indur dalle parole del signor Otta- viano a dire che gli omini savi d%esse non tengon conto alcuno; il che e* falsissimo; anzi, pochi omini di valore ho io mai conosciuti, che non amino ed osservino le donne; la virtu* delle quali, e conseguentemente la dignita*, estimo io che non sia punto inferior a quella degli omini. Niente- dimeno, se si avesse da venire a questa contenzione, la causa delle donne averebbe grandissimo disfavore; perche% questi signori hanno formato un cortegiano tanto eccellente e con tante divine condizioni, che chi avera* il pensiero a considerarlo tale, imaginera* i meriti delle donne non poter aggiungere a quel termine. Ma, se la cosa avesse da esser pari bisognarebbe prima che un tanto ingenioso e tanto eloquente quanto sono il conte Ludovico e messer Federico, formasse una donna di palazzo con tutte le perfezioni appartenenti a donna, cosi* come essi hanno formato il corte- giano con le perfezioni appartenenti ad omo; ed allor se quel che diffendesse la lor causa fosse d%ingegno e d%eloquenzia mediocre, penso che, per esser aiutato dalla verita*, dimo- straria chiaramente che le donne son cosi* virtuose come gli omini --. Rispose la signora Emilia: -- Anzi molto piu*; e che cosi* sia, vedete che la virtu* e* femina e %l vicio maschio. XCIX. Rise allor il signor Gasparo, e voltatosi a messer Nicolo* Frigio, -- Che ne credete voi, Frigio? -- disse. Rispose il Frigio: -- Io ho compassione al signor Magnifico, il quale, ingannato dalle promesse e lusinghe della signora Emilia, e* incorso in errore di dir quello di che io in suo servizio mi vergogno --. Rispose la signora Emilia pur ridendo: -- Ben vi vergognarete voi di voi stesso quando vedrete il signor Gasparo, convinto, confessar il suo e 'l vostro er- rore e domandar quel perdono, che noi non gli vorremo concedere --. Allora la signora Duchessa: -- Per esser l'ora molto tarda voglio, -- disse, -- che differiamo il tutto a domani; tanto piu* perche% mi par ben fatto pigliar il consiglio del signor Magnifico: cioe* che, prima che si venga a questa disputa, cosi* si formi una donna di palazzo con tutte Ie perfezioni come hanno formato questi signori il perfetto cortegiano. -- Signora, -- disse allor la signora Emilia, -- Dio voglia che,-noi non ci abbattiamo a dar questa impresa a qualche congiurato col signor Gasparo, che ci formi una cortegiaa che non sappia far altro che la cucina e filare Disse il Frigio: -- Ben e* questo il suo proprio officio --. ) allor la signora Duchessa, -- Io voglio, -- disse, -- confi- darmi del signor Magnifico, il qual, per esser di quello in- gegno e giudicio che e*, son certa che imaginera* quella per- fezion maggiore che desiderar si po in donna ed esprime- ralla ancor ben con le parole; e cosi averemo che opporre alie false calunnie del signor Gasparo. -- Signora mia, -- rispose il Magnifico, -- io non so come bon consiglio sia il vostro impormi impresa di tanta impor- tazia, ch'io in vero non mi vi sento sufficiente ; ne% sono io come il Conte e messer Federico, i quali con la eloquenzia sua hanno formato un cortegiano che mai non fu ne% forse po essere . Pur, se a voi piace ch'io abbia questo carico, sia alrnen con quei patti che hanno avuti quest'altri signori: cioe* che ognun possa dove gli parera* contradirmi, ch'io questo estimaro* non contradizione, ma aiuto; e forse col correggere gli errori mei, scoprirassi quella perfezion della donna di palazzo' che si cerca- -- o . p " ? t je h a -- che 'l 'vustro rilbiu - - dire. Sl che mettete pur l animo che poco vi si P . rm - i tal donna che questi a questo sol pensiero e formateci una tal donna' c . Y . -- ri ri si ver ognino a dir ch'ella non sia pari di virtu* al cortegiano; del quale ben sara* che messer Fede- rico non ra ioni iu* che% pur troppol'ha adomato, aven- dogli massimamente da esser dato paragone d'una donna- -- A me Signora -- disse allor messer Federico, -- ormai poco o niente avanza che dir sopra il cortegiano; e quello che pensato aveva, per le facezie di messer Bemato m'e* uscito di mente. -- Se cosl e*, -- disse la signora Duchessa, -- dimani riducendoci insieme a bon'ora, aremo tempo di satisfar all'una cosa e l'altra --. E cosi detto si levarono tutti in piedi; e presa riverentemente licenzia dalla asinora Duchessa, ciascun si fu alla stanzia sua. trovo* la misura del corpo d'Ercule; e questo, che sapendosi quel spazio nel quale ogni cinque anni si celebravan i giochi Olimpici in Acaia presso Elide inanzi al tempio di Iove Olimpico esser stato misurato da Ercule, e fatto un stadio di seicento e vinticinque piedi, de' suoi proprii; e gli altri stadi, che per tutta Grecia dai postet-i poi furono instituiti, esser medesimamente di seicento e vinticinque piedi, ma con tutto cio* alquanto piu* corti di quello, pitagora facil- mente conobbe a quella proporzion quanto il pie* d'Ercule fosse stato maggior degli altri piedi umani; e cosi*, intesa la misura del piede, a quella comprese tutto 'l corpo d'Ercule tanto esser stato di grandezza superiore agli altri omini proporzionalrnente, quanto quel stadio agli altri stadi. Voi adunque, messer alfonso mio, per la medesima ragione, da questa piccol parte di tutto 'l corpo potete chiaramente conoscer quanto la corte d'Urbino fosse a tutte l'altre della Italia superiore, considerando quanto i giochi, li quali son ritrovati per recrear gli animi affaticati dalle facende piu* ardue, fossero quelli che s'usano nell'altre corti della Italia superiori. E se queste eran tali, imaginate quali eran poi l'altre operazion virtuose, ov'eran gli animi intenti e total- mente dediti; e di questo io confidentemente ardisco di parlare con speranza d'esser creduto, non laudando cose tanto antiche che mi sia licito fingere e possendo approvai quant'io ragiono col testimonio de molti omini degni di fede che vivono ancora, e presenzialmente hanno veduto e conosciuto la vita e i costumi che in quella casa fiorirono un tempo; ed io mi tengo obligato, per quanto posso, di sforzarmi con ogni studio vendicar dalla mortal oblivione questa chiara memoria e scrivendo farla vivere negli animi dei posteri. Onde forse per l'awenire non manchera* chi per questo ancor porti invidia al secol nostro; che% non e* alcun che legga le maravigliose cose degli antichi , che nell'animo suo non formi una certa maggior opinion di coloro di chi si scrive, che non pare che possano esprimer quei libri, av- vegna che divinamente siano scritti. Cosi noi desideramo che tutti quelli, nelle cui mani verra* questa nostra fatica se pur mai sara* di tanto favor degna che da nobili cavalieri e valorose donne meriti esser veduta, presumano e per fermo tengano la corte d'Urbino esser stata molto piu* eccellente ed ornata d'omini singulari, che noi non potemo scrivendo espmere; e se in noi fosse tanta eloquenzia, quanto in essi era valore, non aremmo bisogno d'altro testilnonio per far che alle parole nostre fosse da quelli che non l'hanno veduto dato piena fede. Essendosi adunque ridutta l seguente giorno all'ora consueta la compagnia al solito loco e postasi con silenzio a sedere, rivolse ognun gli occhi a messer Federico ed al Magnifico Iuliano, aspettando qual di lor desse principio a ragionare. Onde la signora Duchessa, essendo stata alquanto cheta, -- Signor Magnifico, -- disse, -- ognun desidera veder questa vostra donna ben ornata ; e se non ce la mo- strate di tal modo che le sue bellezze tutte si veggano, estimaremo che ne siate geloso --. Rispose il Magnifico: -- Signora, se io la tenessi per bella, la mostrarei senza altri ornamenti e di quel modo che volse veder Paris le tre dee ; ma se queste donne, che pur lo san fare, non m"aiutano ad acconciarla , io dubito che non solamente il signor Gasparo e 'l Frigio, ma tutti quest'altri signori aranno giusta causa di dime male. Pero*, mentre che ella sta pur in qualche opinion di bellezza , forse sara* meglio tenerla occulta e veder quello che avanza a messer Federico a dir del cortegiano, che senza dubbio e* molto piu* bcllo che non po esser la mia donna. -- Quello ch'io mi avea posto in aimo, -- rispose messer Eederico, -- non e* tanto appertenente al cortegiano, che non si possa lassar senza danno alcuno; anzi e* quasi diversa materia da quella che sin qui s'e* ragionata. -- E che cosa e* egli adunque? -- disse la signora Duchessa. Rispose messer Federico: -- Io m'era deliberato, per quanto poteva, di- chiarir le cause de queste compagnie ed ordini de cava- Lieri fatti da gran principi sotto diverse insegne, com'e* quel di San Michele nella casa di Francia ; quel del Gartier , che e* sotto il nome di San Georgio, nella casa d'Inghilterra; il Toison d'oro in quella di Borgogna; ed in che modo si diano queste dignita* e come se ne privino quelli che lo meri- tano; onde siano nate, chi ne sian stati gli autori ed a che fine l'abbiano instituite; perche% pur nelle gran corti son questi cavalieri sempre onorati. Pensavo ancor, se 'l tempo mi fosse bastato, oltre alla diversita* de' costumi che s'usano nelle corti de' pri*ncipi cristiani nel servirgli, nel festeggiare e farsi vedere nei spettaculi publici, parlar medesimamente qualche cosa di quella del Gran Turco , ma molto piu* particularmente di quella del Sofi re di Persia; che%, avendo io inteso da mercatanti che lungamente son stati in queI paese, gli omini nobili di la* esser molto valorosi e di gentil costumi ed usar nel conversar l'un con l'altro, nel servir donne, ed in tutte le sue azioni molta cortesia e molta discre- zione e, quando occorre, nell'arme, nei giochi e nelle feste molta grandezza, molta liberalita* e leggiadria, sonomi dilet- tato di saper quali siano in queste cose i modi di che piu* s'apprezzano, in che consisteno le lor pompe ed attil- jature d'abiti e d'arme; in che siano da noi diversi ed in chc conformi; che manera d'intertenimenti usino le lor donne, e con quanta modestia favoriscano chi le serv per amore. Ma invero non e* ora conveniente entrar in questo ragiona- mento, essendovi massimamente altro che dire, e molto piu* al nostro proposito che questo. -- Anzi, -- disse il signor Gasparo, -- e questo e molte altre cose son piu* al proposito che 'l formar questa donna di palazzo, atteso che le medesime regule che son date per lo cortegiano, servono ancor alla donna; perche% cosi* deve ella aver rispetto ai tempi e lochi ed osservar, per quanto comporta la sua imbecillita* tutti quegli altri modi di che tanto s'e* ragionato, come il cortegiano. E pero* in loco di questo non sarebbe forse stato male insegnar qualche par- ticularita* di quelle che appartengono al servizio della per- sona del primcipe, che% pur al cortegia si convien saperle ed aver grazia in farle; o veramente dir del modo che s'abbia a tener negli esercizi del corpo e come cavalcare, maeg- giar l'arme, lottare ed in che consiste la difficulta* di queste operazioni --. Disse allor la signora Duchessa ridendo: -- I signori non si servono alla persona di cosi* eccellente cortegiauo, come e* questo: gli esercizi poi del corpo e forze e destrezze della persona lassaremo che messer pietro Monte nostro abbia cura d'insegnar, quando gli parera* tempo piu* commodo; perche% ora il Magnifico non ha da parlar d'altro che di questa donna della qual parmi che voi gia* cominciate aver paura, e pero* vorreste farci uscir di proposito --. Rispose il Frigio: -- Certo e* che impertinente e for di proposito e* ora il parlar,di donne, restando massimamente ancora che dire del cortegiano, perche% non si devria mescolar una cosa con l'altra. -- Voi sete in grande errore, -- rispose messer Cesare Gonzaga; -- perche% come corte alcuna, per grande che ella sia, non po aver omamento o splendore in se%, ne% allegria senza donne, ne% cortegiano alcun essere aggraziato, piacevole o ardito, ne% far mai opera leggiadra di cavalieria, se non mosso dalla pratica e dall'amore e piacer di donne cosi* ancora il ragionar del cortegiano e* sempre imperfettis- simo, se le donne, interponendovisi, non danno lor parte di quella grazia, con la quale fanno perfetta ed adomano la cortegiania --. rise il signor Ottaviano e disse: -- Eccovi un poco di quell'esca che fa impazzir gli omini. IV. Allor il signor Magnifico, voltatosi alla signora Duchessa. -- Signora, -- disse, -- poiche% pur cosi* a voi piace, io diro* quello che m'occorre, ma con grandissimo dubbio di non satisfare; e certo molto minor fatica mi saria formar una signora che meritasse esser regina del mondo, che una per- fetta cortegiana, perche% di questa non so io da chi pigliame lo esempio; ma della regina non mi bisogneria andar troppo lontano e solamente basteriami imagiar le divine condi- zioni d'una Signora ch'io conosco e, quelle contemplando, indrizzar tutti i pensier mei ad esprimer chiaramente con le parole quello che molti veggon con gli occhi; e quando altro non potessi, lei nominando solamente arei satisfatto allobligo mio --. Disse allora la signora Duchessa: -- NOn uscite dei termini signor Magnifico, ma attendete all'or- dine dato e formate la donna di palazzo, accio* che questa -- cosi nobil signora abbia chi possa degnamente servirla --. Seguito* il Magnifico: -- Io adunque, Signora, accio* che si vegga che i comandamenti vostri possono indurmi a provar di far quello ancora ch'io non so fare, diro* di questa donna eccellente come io la vorrei; e formata ch'io l'avero* a modo mio, non potendo poi aveme altra, terrolla come mia a guisa di Pigmalione. E perche% il signor Gaspar ha detto che le medesime regule che son date per lo cortegiano ser- veno ancor alla donna, io son di diversa opinione; che%, benche% alcune qualita* siano communi e cosi* necessarie all'omo come alla donna, sono poi alcun'altre che piu* si convengono alla donna che all'omo, ed alcune convenienti all'omo dalle quali essa deve in tutto esser aliena. Il mede- simo dico degli esercizi del corpo; ma sopra tutto parmi che nei modi , maniere, parole, gesti e portamenti suoi, debba la donna essere molto dissimile dall'omo; perche% come ad esso conviene mostrar una certa virilita* soda e ferma, cosi alla donna sta ben aver una tenerezza molle e delicata, con maniera in ogni suo movimento di dolcezza feminile, che nell'andar e stare e dir cio* che si voglia sempre la faccia parer donna, senza sim-ilitudine alcuna d'omo . Aggiimgendo adunque questa avvertenzia alle regule che questi signori hanno insegnato al cortegiano, penso ben che di molte di quelle ella debba potersi servire ed omarsi d'ottime condizioni, come dice il signor Gaspar; perche% molte virtu* ) dell'animo estimo io che siano alla donna necessarie cosi* come all'omo; medesimamente la nobilita*, il fuggire l'affet- tazione, l'esser aggraziata da natura in tutte l'operazion sue, l' esser di boni costumi, ingeniosa, prudente, non superba, non invidiosa, non male*dica, non vana, non contenziosa, non inetta, sa*lpersi guadagnar e conservar la grazia della sua signora e de tutti gli altri, far bene ed aggraziatamente gli esercizi che si convengono alle donne. Parmi ben che in lei sia poi piu* necessaria la bellezza che nel cortegiano, perche% in vero molto manca a quella donna a cui manca la bellezza. Deve ancor esser piu* circunspetta ed aver I piu* riguardo di non dar occasion che di se% si dica male, e far di modo che non solamente non sia macchiata di colpa, ma ne% anco di suspizione , perche% la donna non ha tante vie da diffendersi dalle false calunnie, come ha l'omo. Ma perche% il conte Ludovico ha esplicato molto minutamente la principal profession del cortegiano ed ha voluto ch'ella sia quelia dell'arme, parmi acora conveniente dir, secondo il mio giudicio, qual sia quella della donna di palazzo; alla qual cosa quando io avero* satisfatto, pensaromi d'esser uscito della maggior parte del mio debito. V. Lassando adunque quelle virtu* dell'animo che le hanno da esser communi col cortegiano, come la prudenzia, la magnanimita*, la continenzia e molte altre; e medesima- mente quelle condizioni che si convengono a tutte le donne, come l'esser bona e discreta, il saper governar le faculta* del marito e la casa sua e i figlioli quando e* maritata, e tutte quelle parti che si richieggono ad una bona madre di famiglia, dico che a quella che vive in corte parmi convenirsi sopra ogni altra cosa una certa affabilita* piacevole, per la quale sappia gentilmente intertenere ogni sorte d'omo con ragio- namenti grati ed onesti, ed accommodati al tempo e loco ed alla qualita* di quella persona con cui parlera*, accompa- gnando coi costumi placidi e modesti e con quella onesta* che sempre ha da componer tutte le sue azioni una pronta vivacita* d'ingegno, donde si mostri aliena da ogni grosseria; ma con tal maniera di bonta*, che si faccia estimar non men pudica, prudente ed umana, che piacevole, arguta c discreta; e pero* le bisogna tener una certa mediocrita* difficile e quasi composta di cose contrarie , e giunger a certi termini a punto, ma non passargli . Non deve adunque questa donna, per volersi far estimar bona ed onesta, esser tanto ritrosa e mostrar tanto d'aborrire e le compagnie e i ragio- namenti ancor un poco lascivi, che ritrovandovisi se ne levi; perche% facilmente si poria pensar ch'ella fingesse d"esser tanto austera per nascondere di se% quello ch"ella dubitasse che altri potesse risapere; e i costumi cosi* selva- d'esser libera e piacevole dir parole disoneste, ne' usar una rerta domestichezza intemperata e senza freno e mo i e% ll he forse non e*; ma ritrovandosi a tai ragionamenti, deve ascoltargli con un poco di rossore e vergogna. Medesimamente fuggir un errore, nel quale ho veduto incorrer molte; che e* il dire ed ascoltare volen- tieri chi dice mal d'altre donne ; perche% quelle che, udendo narrare modi disonesti d'altre donne, se ne turbano e mostrano non credere, ed estimar quasi un mostro che una donna sia impudica, danno argumento che, parendo lor quel diffetto tanto enorme, esse non lo commettano; ma quelle che van sempre investigando gli amori dell'altre e gli nar- rano cosi minutamente e con tanta festa , par che lor n'ab- biano invidia e che desiderino che ognun lo sappia, accio* che il medesimo ad esse non sia ascritto per errore; e cosi vengon in certi risi , con certi modi, che fanno testimonio che allor senton sommo piacere. E di qui nasce che gli omini, benche% paia che le ascoltino voluntieri, per lo piu* delle volte le tengono in mala opinione ed hanno lor pochissimo riguardo, e par loro che da esse con que' modi siano invitati a passar piu* avanti , e spesso poi scorrono a termini che dan loro meritamente infamia ed in ultimo le estimano cosi* poco, che non curano il lor commercio, anzi le hanno in fastidio; e, per contrario, non e* omo tanto procace ed insolente , che non abbia riverenzia a quelle che sono estimate bone ed oneste; perche% quella gravita* temperata di sapere e bonta* e* quasi un scudo contra la insolenzia e bestialita* dei prO suntuosi; onde si vede che una parola, un riso un atto di benivolenzia, per minimo ch'egli sia, d'una donna onesta, e* piu* apprezzato da ognuno, che tutte le demostrazioni e carezze di quelle che cosi senza riservo mostran poca ver- -- gogna; e se non sono impudiche, con que' risi dissoluti con la loquacita*, insolenzia e tai costumi scurili fanno segno d'essere. VI. E perche% le parole sotto le quali non e* subietto di qualche importanzia son vane e puerili-, bisogna che la donna di palazzo, oltre al giudicio di conoscere la qualita* di colui con cui parla, per intertenerlo gentilmente, abbia notizia di molte cose; e sappia parlando elegger quelle che sono a proposito della condizion di colui con cui parla e sia cauta in non dir talor non volendo parole che lo offendano. Si guardi, laudando se stessa indiscretamente, o vero con l'esser troppo prolissa, non gli generar fastidio. Non vada mesco- lando nei ragionamenti piacevoli e da ridere cose di gravita* ne% meno nei gravi facezie e burle. Non mostri inettamente di saper quello che non sa, ma con modestia cerchi d'ono- rarsi di quello che sa, fuggendo, come s'e* detto, l'affetta- zione in ogni cosa. In questo modo sara* ella ornata de boni costumi e gli esercizi del corpo convenienti a donna fara* con suprema grazia e i ragionamenti soi saranno copiosi e pieni di prudenzia, onesta* e piacevolezza; e cosi sara* essa non solamente amata, ma reverita da tutto 'l mondo e forse degna ( d'esser agguagliata a questo gran cortegiano, cosi* delle condizioni dell'animo come di quelle del corpo. VII. Avendo insin qui detto, il Magnifico si tacque e stette sopra di se%, quasi come avesse posto fine al suo ragionamento. Disse allor il signor Gasparo: -- Voi avete veramente, signor Magnifico, molto adomata questa donna e fattola di eccel- lente condizione; nientedimeno parmi che vi siate tenuto assai al generale e nominato in lei alcune cose tanto grandi , che credo vi siate vergognato di chiarirle; e piu* presto le avete desiderate, a guisa di quelli che bramano talor cose impossibili e sopranaturali, che insegnate. pero* vorrei che ci dichiariste un poco meglio quai siano gli esercizi del corpo convenienti a donna di palazzo, e di che modo ella debba intertenere, e quai sian queste molte cose di che voi dite che le si conviene aver notizia; e se la prudenzia, la magna- nimita*, la continenzia e quelle molte altre virtu* che avete detto, intendete che abbiano ad aiutarla solamente circa il govemo della casa, dei figlioli e della famiglia (il che pero* voi non volete che sia la sua prima professione), o veramente allo intertenere e far aggraziatamente questi esercizi del corpo; e per vostra fe% guardate a non mettere queste povere virtu* a cosi* vile officio, che abbiano da vergognarsene --. Rise il Magnifico e disse: -- Pur non potete far, signor Ga- sparo, che non mostriate mai* animo verso le donne; ma in vero a me pareva aver detto assai, e massimamente presso a tali auditori; che% non penso gia* che sia alcun qui che non -- conosca che, circa gli esercizi del corpo, alla donna non si convien armeggiare, cavalcare, giocar alla palla, lottare e molte altre cose che si convengono agli omini --. Disse allora l'Unico Aretino: -- Appresso gli antichi s'usava che le donne lottavano nude con gli om-ini; ma noi avemo perduta questa bona usanza insieme con molt'altre --. Suggiunse messer Cesare Gonzaga: -- Ed io a' mei di ho veduto donne giocare alla palla, maeggir l'arme, cavalcare, andar a caccia e far quasi tutti gli esercizi che possa fare un cava- liero. VIII. Rispose il Magnifico: -- Poich'io posso formar questa donna a modo mio, non solamente non voglio ch'ella usi questi esercizi virili cosi* robusti ed asperi, ma voglio che quegli ancora che son convenienti a donna faccia con riguardo, e con quella molle delicatura che avemo detto convenir- sele; e pero* nel danzar non vorrei vederla usar movimenti troppo gagliardi e sforzati, ne% meno nel cantar o sonar quelle diminuzioni forti e replicate, che mostrano piu* arte che dolcezza; medesimamente gli instrumenti di musica che ella usa, secondo me, debbono esser conformi a questa intenzione. lmaginatevi come disgraziata cosa saria veder una donna sonare tamburri, piffari o trombe, o altri tali instrumenti; e questo perche% la loro asprezza nasconde e leva quella soave mansuetudine, che tanto adoma ogni atto che faccia la donna. Pero* quando ella viene a danzar o a far musica di che sorte si sia, deve indurvisi con lassarsene alquanto pregare e con una certa timidita*, che mostri quella nobile vergogna che e* contraria della impudenzia . Deve acor accommodar gli abiti a questa intenziQne e vestirsi di sorte, che non paia vana e leggera. Ma perche% alle donne e* licito e debito aver piu* cura della bellezza che, agli omini e diverse sorti sono di bellezza, deve questa donna aver iudicio di conoscer quai sono quegli abiti che le accrescon grazia e piu* accom- modati a quelli esercizi ch'ella intende di fare in quel punto , e di quelli servirsi; e conoscendo in se% una bellezza vaga ed allegra, deve aiutarla coi movimenti, con le parole e con gli abiti , che tutti tendano allo allegro; cosi* come un'altra, che si senta aver maniera mansueta e grave, deve ancor accompagnarla con modi di quella sorte, per accrescer quello che e* dono della natura. Cosi, essendo un poco piu* grassa o piu* magra del raginevole, o bianca o bruna, aiutarsi con gli abiti, ma dissimulatamente piu* che sia possibile; e tenendosi delicata e polita, mostrar sempre di non mettervi studio o diligenzia alcuna. IX. E perche% il signor Gasparo dimanda ancor quai siano queste molte cose di che ella deve aver notizia, e di che modo intertenere , e se le virtu* deono servire a questo interteni- mento, dico che voglio che ella abbia cognizion de cio* che questi signori hanno voluto che sappia il cortegiano; e de quelli esercizi che avemo detto che a lei non si convengono, voglio che ella n'abbia ahnen quel giudicio che possono aver delle cose coloro che non le oprano; e questo per saper laudare ed apprezzar i cavalieri piu* e meno, secondo i meriti. E per replicar in parte con poche parole quello che gia* s'e* detto, voglio che questa donna abbia notizie di lettere, di musica, di pittura e sappia danzar e festeggiare, accompa- gnando con quella discreta modestia e col dar bona opinion di se% ancora le altre avvertenze che son state insegnate a cortegiano. E cosi* sara* nel conversare, nel ridere, nel giocare, nel motteggiare, in somma in ogni cosa graziatis- sima; ed intertenera* accommodatamente e con motti e facezie convenienti a lei ogni persona che le occorrera*. E benche% la continenzia, la magnanimita*, la temperanzia, la fortezza d'aimo, la prudenzia e le altre virtu* paia che non importino allo intertenere, io voglio che di tutte sia omata, non tanto per lo intertenere, benche% pero* ancor a questo possono servire, quanto per esser virtuosa ed accio* che queste virtu* la faccian tale, che meriti esser onorata e che ogni sua operazion sia di quelle composta. -- Maravigliomi pur, -- disse allora ridendo il signor L Gaspar, -- che poiche% date alle donne e le lettere e la continen- zia e la magnanimita* e la temperanzia, che non vogliate ancor che esse govemino le citta* e faccian le leggi e conducao gli eserciti; e gli omini si stiano in cucina o a filare --. Rispose il Magnifico, pur ridendo: -- Forse che questo ancora non sarebbe male; -- poi suggiunse: -- Non sapete voi che Platone, il quale in vero non era molto amico delle donne, da* loro la custodia della citta* e tutti gli altri offici marziali da* agli omini? Non credete voi che molte se ne trovassero, che saprebbon cosi* ben governar le citta* e gli eserciti, come si faccian gli omini? Ma io non ho lor dati questi offici, perche% formo una donna di palazzo, non una regina. Conosco ben che voi vorreste taci mente rinovar quella falsa calunnia, che ieri diede il signor Ottaviano alle donne: cioe* che siano animali imperfettissimi e non capaci di far atto alcun virtuoso, e di pochissimo valore e di niuna dignita* a rispetto degli omini; ma in vero ed esso e voi sareste in grandissimo errore, se pensaste questo. XI. Disse allora il signor Gaspar: -- Io non voglio rinovar le cose gia* dette, ma voi ben vorreste indurmi a dir qualche parola che offendesse l'animo di queste signore, per farmele nemiche, - cosi come voi col lusingarle falsamente volete guadagnar la loro grazia. Ma esse sono tanto discrete sopra le altre, che amano piu* la verita*, ancora che non sia tanto in suo favore, che le laudi false; ne% hanno a male, che altri dica che gli omini siano di maggior dignita*, e confes- saranno che voi avete detto gran miraculi ed attribuito alla donna di palazzo alcune impossibilita* ridicule e tante virtu*, che Socrate e Catone e tutti i filosofi del mondo vi sono per niente; che%, a dir pur il vero, maravigliomi che non abbiate avuto vergogna a passar i termini di tanto. Che% ben bastar vi dovea far questa donna di palazzo bella, discreta, onesta, affabile e che sapesse intertenere senza incorrere in infamia con danze, musiche, giochi, risi, motti e l'altre cose che ogni di* vedemo che s'usano in corte; ma il volerle dar cognizion di tutte le cose del mondo ed attri- buirle quelle virtu* che cosi* rare volte si son vedute negli omini, ancora nei seculi passati, e* una cosa che ne% suppor- tare ne% a pena ascoltare si po. Che le donne siano mo ani- mali imperfetti e per conseguente di minor dignita* che gli omini e non capaci di quelle virtu* che sono essi, non voglio io altrimenti affirmare, perche% il valor di queste signore bastaria a farmi mentire; dico ben che omini sapientissimi hanno lassato scritto che la natura, percio* che sempre in- tende e disegna far le cose piu* perfette, se potesse, produria continuamente omini; e quando nasce una donna, e* diffetto o error della natura e contra quello che essa vorrebbe fare. Come si vede ancor d'uno che nasce cieco, zoppo, o con qualche altro mancamento e negli arbori molti frutti che non matu- rano mai, cosi* la donna si po dire animal produtto a sorte e per caso; e che questo sia, vedete l'operazion dell'omo e della donna e da quelle pigliate argumento della perfezion dell'uno e dell'altro. Nientedimeno essendo questi diffetti delle donne colpa di natura che l'ha produtte tali, non devemo per questo odiarle, ne% mancar di aver loro quel rispetto che vi si conviene; ma estimarle da piu* di quello che elle si siano, parmi error manifesto. XII. Aspettava il Magnifico Iuliano che 'l signor Gasparo seguitasse piu* oltre; ma vedendo che gia* tacea, disse: -- Della imperfezion delle donne parmi che abbiate addutto una freddissima ragione; alla quale, benche% non si convenga forse ora entrar in queste suttilita*, rispondo secondo il parere di chi sa e secondo la verita* che la sustanzia in qualsi- voglia cosa non po in se% ricevere il piu* o il meno; che%, come -- niun sasso po esser piu* perfettamente sasso che un altro quanto alla essenzia del sasso, ne% un legno piu* perfettamente legno che l'altro, cosi* un omo non po essere piu* perfetta- mente omo che l'altro, e conseguentemente non sara* il maschio piu* perfetto che la femina, quanto alla sustanzia sua for- male, perche% l"uno e l'altro si comprende sotto la specie dell'omo e quello in che l'uno dall'altro son differenti e* cosa accidentale e non essenziale. Se mi direte adunque che l'omo sia piu* perfetto che la donna, se non quanto alla essenzia, almen quanto agli accidenti, rispondo che questi accidenti bisogna che consistano o nel corpo o nell'animo; se nel corpo, per esser l'omo piu* robusto, piu* agile, piu* leg- gero, o piu* tollerante di fatiche, dico che questo e* argumento di pochissima perfezione, perche% tra gli omini medesimi quelli che hanno queste qualita* piu* che gli altri non son per quelle piu* estimati; e nelle guerre, dove son la maggior parte delle opere laboriose e di forza, i piu* gagliardi non son pero* i piu* pregiati; se nell'animo, dico che tutte le cose che possono intender gli omini, le medesime possono inten- dere anche le donne; e dove penetra l'intelletto dell'uno, po penetrare eziandio quello dell'altra. XIII. Quivi avendo il Magnifico Iuliano fatto un poco di pausa, suggiunse ridendo: -- Non sapete voi che in filosofia si tiene questa proposizione, che quelli che sono molli di carne sono atti della mente? percio* non e* dubbio che le donne, per esser piu* molli di came, sono ancor piu* atte della mente e de ingegno piu* accommodato alle speculazioni che gli omini --. Poi seguito*: -- Ma lassando questo, perche% voi diceste ch'io pigliassi argumento della perfezion dell'un e dell'altro dalle opere, dico, se voi considerate gli effetti della natura, tro- varete ch'ella produce le donne tali come sono, non a caso, ma accommodate al fine necessario; che%, benche% le faccia del corpo non gagliarde e di animo placido, con molte altre qualita* contrarie a quelle degli omini, pur le condizioni dell'uno e dell'altro tendono ad un sol fine concernente alla medesima utilita*. Che% secondo che per quella debole fievolezza le donne son men animose, per la medesima sono ancor poi piu* caute; pero* le madri nutriscono i figlioli, i padri gli ammaestrano e con la fortezza acquistano di fori quello, che esse con la sedulita* conservano in casa, che non e* minor laude. Se considerarete poi l'istorie antiche (benche% gli omini sempre siano stati parcissimi nello scri- vere le laudi delle donne) e le modeme, trovarete che conti- nuamente la virtu* e* stata tra le donne cosi* come tra gli omini; e che ancor sonosi trovate di quelle che hanno mosso delle guerre e conseguitone gloriose vittorie; govemato i regni con somma prudenzia e giustizia e fatto tutto quello che s'abbian fatto gli omini. Circa le scienzie, non vi ricorda aver letto di tante che hanno saputo filosofia? altre che sono state eccellentissime in poesia? altre che han trattato le cause ed accusato e diffeso inanti ai giudici eloquentissima- mente? Dell%opere manuali saria lungo narrare, ne% di cio* bisogna far testirnonio. Se adunque nella sustanzia essen- ziale l%omo non e* piu* perfetto della donna, ne% meno negIi accidenti (e di questo, oltre la ragione, veggonsi gli effetti), non so in che consista questa sua perfezione. XIV. E perche% voi diceste che intento della natura e* sempre di produr le cose piu* perfette e pero*, s%ella potesse, sempre produria l%omo, e che il produr la donna e* piu* presto errore o diffetto della natura che intenzione, rispondo che questo totalmente si nega; ne% so come possiate dire che la natura non intenda produr le donne, senza le quali la specie umana conservar non si po, di che piu* che d%ogni altra cosa e* desi- derosa essa natura. Percio* col mezzo di questa compagnia di maschio e di femina produce i figlioli, i quali rendono i benefici ricevuti in puerizia ai padri gia* vecchi, perche% gli nutriscono, poi gli rinovao col generar essi ancor altri figlioli, dai quali aspettano in vecchiezza ricever quello, che essendo giovani ai padri hanno prestato; onde la natura, quasi tomando in circulo, adempie la etemita* ed in tal modo dona la immortalita* ai mortali. Essendo adunque a questo tanto necessaria la donna quanto l%omo, non vedo per qual causa l%una sia fatta a caso piu* che l%altro. E* ben vero che la natura intende sempre produr le cose piu* per- fette e pero* intende produr l%omo in specie sua, ma non piu* maschio che femina; anzi, se sempre producesse maschio, faria una imperfezione; perche% come del corpo e dell%anima risulta un composito piu* nobile che le sue parti, che e* l%omo, cosi della compagnia di maschio e di femina risulta un com- posito conservativo della specie umana, senza il quale le parti si destruiriano. E pero* maschio e femina da natura son sempre insieme, ne% po esser l%un senza l%altro; cosi* quello non si dee chiamar maschio che non ha la femina, secondo la diffinizione dell%uno e dell%altro; ne% femina quella che non ha maschio. E perche% un sesso solo dimostra imperfezione, attribuiscono gli antichi teologi l%uno e l%altro a Dio: onde Orfeo disse che Iove era maschio e femina; e leggesi nella Sacra Scrittura che Dio formo* gli omini maschio e femina a sua similitudine, e spesso i poeti, parlando dei de*i, con- fondono il sesso. XV. Allora il signor Gasparo, -- Io non vorrei, -- disse, -- -- che noi entrassimo in tali suttilita*, perche% queste donne non c%intenderanno; e benche% io vi risponda con ottime ragioni, esse crederanno, o almen mostraranno di credere, ch%io abbia il torto, e su*bito daranno la sentenzia a suo modo. Pur, poiche% noi vi siamo entrati, diro* questo solo che, come sapete essere opinion d%omini sapientissimi, l%omo s%assi- miglia alla forma, la donna alla materia; e pero*, cosi* come la forma e* piu% perfetta che la materia, anzi le da* l%essere, cosi* l%omo e* piu* perfetto assai che la donna. E ricordomi aver gia* udito che un gran filosofo in certi suoi Problemi dice: ((Onde e* che naturalmente la donna ama sempre quel- l%omo che e* stato il primo a ricever da lei amorosi piaceri? e per contrario l%omo ha in odio quella donna che e* stata la prima a congiungersi in tal modo con lui? )) e suggiungendo la causa afferma, questo essere perche* in tal atto la donna riceve dall%omo perfezione e l%omo dalla donna imperfezione; e pero* ognun ama naturalmente quella cosa che lo fa perfetto ed odia quella che lo fa imperfetto. Ed oltre a cio* grande argumento della perfezion dell%omo e della imperfezion della donna e* che universalmente ogni donna desidera esser omo, per un certo instinto di natura, che le insegna desiderar la sua perfezione. XVI Rispose su*bito il Magnifico Iuliano: -- Le meschine non desiderano l%esser omo per farsi piu* perfette, ma per aver liberta* e fuggir quel dominio che gli ,omini si hanno vendicato sopra esse per sua propria autorita*. E la simi- litudine che voi date della materia e forma non si confa* in ogni cosa; perche% non cosi* e* fatta perfetta la donna dal- l%omo, come la materia dalla forma; perche% la materia riceve l%essere dalla forma e senza essa star non po, azi quanto piu* di materia hano le forme, tanto piu* hanno d%imperfe- zione, e separate da essa son perfettissime; ma la donna non riceve lo essere dall%omo, anzi cosi* come essa e* fatta perfetta da lui,essa ancor fa perfetto lui; onde l%una e l%altro insieme vengono a generare, la qual cosa far non possono alcun di loro per se stessi. La causa poi dell%amor perpetuo della donna verso %l primo con cui sia stata e dell%odio del- l%omo verso la prima donna, non daro* io gia* a quello che da* il vostro filosofo ne% suoi Problemi, ma alla fermezza e stabilita* della donna ed alla instabilita* dell%omo; ne% senza ragion naturale, perche% essendo il maschio calido, natu- ralmente da quella qualita* piglia la leggerezza, il moto e la instabilita*; e, per contrario, la donna dalla frigidita*, la quiete e gravita* ferma e piu* fisse impressioni. XVII. Allora la signora Emilia rivolta al signor Magnifico, -- Per amor di Dio, -- disse, -- uscite una volta di queste vostre (( materie )) e (( forme )) e maschi e femine e parlate di modo che siate inteso; perche% noi avemo udito e molto ben inteso il male che di noi ha detto el signor Ottaviano e %l signor Gasparo, ma or non intendemo gia* in che modo voi ci diffendiate; pero* questo mi par un uscir di proposito e lassar nell%animo d%ognuno quella mala impressione, che di noi hanno data questi nostri nemici. -- Non ci date questo nome, Signora, -- rispose il signor Gaspar, -- che% piu* presto si conviene al signor Magnifico, il qual col dar laudi false alle donne mostra che per esse non ne sian di vere --. Suggiunse il Magnifico Iuliano: -- Non dubitate, Signora, che al tutto si rispondera*; ma io non voglio dir villania agli omini cosi* senza ragione, come hanno fatto essi alle donne; e se per sorte qui fusse alcuno che scrivesse i nostri ragionamenti, non vorrei che poi in loco dove fossero intese queste (( materie )) e (( forme )), si vedessero senza -- risposta gli argomenti e le ragioni che %l signor Gaspar contra di voi adduce. -- Non so, signor Magnifico, -- disse allora il signor Gasparo, -- come in questo negar potrete che l%omo per le qualita* naturali non sia piu* perfetto che la donna, la quale e* frigida di sua complessione, e l%omo calido; e molto piu* nobile e piu* perfetto e* il caldo che %l freddo, per essere attivo e produttivo; e, come sapete, i cieli qua giu* tra noi infondono il caldo solamente e non il freddo, il quale non entra nelle opere della natura; e pero* lo esser le donne frigide di complessione credo che sia causa della vilta* e timidita* loro. XVIII. -- Ancor volete, -- rispose il Magnifico Iuliano, -- pur entrare nelle sottilita*; ma vederete che ogni volta peggio ve n%avverra*: e che cosi* sia, udite. Io vi confesso che la cali- dita* in se% e* piu* perfetta che la frigidita*; ma questo non se%- guita nelle cose miste e composite perche%, se cosi* fusse, quel corpo che piu* caldo fusse, quel saria piu* perfetto; il che e* falso, perche% i corpi temperati sono perfettissimi. Dicovi ancora che la donna e* di complession frigida in comparazion dell%omo, il quale per troppo caldo e* distante dal temperamento; ma, quanto in se%, e* temperata, o almen piu* propinqua al temperamento che non e* l%omo, perche% ha in se% quell%umido proporzionato al calor naturale che nell%uomo per la troppa siccita* piu* presto se risolve e si consuma. Ha ancor una tal frigidita* che resiste e conforta il calor naturale e lo fa piu* vicino al temperamento; e nel- l%omo il superfluo caldo presto riduce il calor naturale al- l%ultimo grado, il quale, mancandoli il nutrimento pur si risolve; e pero*, perche% gli omini nel generar si diseccano piu che le donne, spesso interviene che son meno vivaci che esse; onde questa perfezione ancor si po attribuire alle donne che, vivendo piu* lungamente che gli omini, eseguiscono piu* quello che e* intento della natura, che gli omini. Del calore che infundono i cieli sopra noi non si parla ora, perche% e* equivoco a quello di che ragioniamo; che% essendo con- servativo di tutte le cose che son sotto %l globo della luna, cosi* calde come fredde, non po esser contrario al freddo. Ma la timidita* nelle donne, avvegna che dimostri qualche imperfezione, nasce pero* da laudabil causa, che e* la sottilita* e prontezza dei spiriti, i quali rappresentano tosto le specie allo intelletto e pero* si perturbano facilmente per le cose estrinseche. Vederete ben molte volte alcuni, che non hanno paura ne% di morte ne% d%altro, ne% con tutto cio* si possono chiamare arditi, perche% non conoscono il periculo e vanno come insensati dove vedeno la strada e non pensano piu*; e questo procede da una certa grossezza di spiriti ottusi; pero* non si po dire che un pazzo sia animoso, ma la vera magnanimita* viene da una propria deliberazione e deter- minata volunta* di far cosi* e da estimare piu* l%onore e %l debito che tutti i pericoli del mondo; e benche% si conosca la morte maifesta, esser di core e d%animo tanto saldo, che i sentimenti non restino impediti ne% si spaventino, ma faccian l%officio loro circa il discorrere e pensare cosi* come se fossero quietissimi. Di questa sorte avemo veduto de inteso esser molti grand%omini; medesimamente molte donne, le quali e negli antichi seculi e nei presenti hanno mostrato gradezza d%aimo e fatto al mondo effetti degni d%infinita laude, non men che s%abbian fatto gli omini. XIX. Allor il Frigio, -- Quelli effetti, -- disse, -- comincia- rono quando la prima donna errando fece altrui errar contra Dio e per eredita* lasso* all%umana generazion la morte, gli affanni e i dolori e tutte le miserie e calamita*, che oggidi* al mondo si sentono --. Rispose il Magnifico Iuliano: -- Poiche% nella sacrestia ancor vi giova d%entrare, non sapete voi che quello error medesimamente fu corretto da una Donna, che ci apporto* molto maggior utilita* che quella non v%avea fatto danno, di modo che la colpa che fu pagata con tai meriti si chiama felicissima? Ma io non voglio or dirvi quanto di dignita* tutte le creature umane siano infe- riori alla Vergine Nostra Signora, per non mescolar le cose divine in questi nostri folli ragionamenti; ne% raccontar quante donne con infinita constanzia s%abbiano lassato crudelmente ammazzare dai tiranni per lo nome di Cristo, ne% quelle che con scienzia disputando hanno confuso tanti idolatri: e se mi diceste che questo era miracolo e grazia dello Spirto Santo, dico che niuna virtu* merita piu* laude, che quella che e* approvata per testimonio de Dio. Molte altre ancor, delle quali tanto non si ragiona, da voi stesso potete vedere, massimamente legendo san Ieronimo, che alcune de% suoi tempi celebra con tante maravigliose laudi. che ben poriao bastar a qualsivoglia santissimo omo. XX. Pensate poi quante altre ci sono state delle quali non si fa menzione alcuna, perche% le meschine stanno chiuse senza quella pomposa superbia di cercare appresso il vulgo nome di santita*, come fanno oggidi* molt%omini ippocriti maledetti, i quali, scordati o piu* presto facendo poco caso della dottrina di Cristo, che vole che quando l%om di- giuna se unga la faccia perche% non paia che degiuni e co- manda che le orazioni, le elemosine e l%altre bone opere si facciao non in piazza, ne% in sinagoge, ma in secreto, tanto che la man sinistra non sappia della destra, affermano non esser maggior bene al mondo che %l dar bon esempio; e cosi*, col collo torto e gli occhi bassi, spargendo fama di non voler parlare a donne, ne% mangiar altro che erbe crude, affumati, con le toniche squarciate, gabbano i semplici; che non si guarda poi da falsar testamenti, met- tere inimicizie mortali tra marito e moglie e talor veneno, usar malie, incanti ed ogni sorte de ribalderia; e poi allegano una certa autorita* di suo capo che dice (( Si non caste, tamen caute )); e par loro con questa medicare ogni gran male e con bona ragione persuadere a chi non e* ben cauto che tutti i peccati, per gravi che siano, facilmente perdona Idio, purche% stiano secreti e non ne nasca il mal esempio. Cosi*, con un velo di santita* e con questa secretezza, spesso tutti i lor pensieri volgono a contaminare il casto animo di qualche donna; spesso a seminare odii tra fratelli, a go- vemar stati, estollere l%uno e deprimer l%altro, far decapi- tare, incarcerare e proscrivere omini, esser ministri delle scelerita* e quasi depositari delle rubbarie che fanno molti pri*ncipi. Altri senza vergogna si dilettano d%apparer morbidi e freschi, con la cotica ben rasa e ben vestiti; ed alzano nel passeggiar la tonica per mostrar le calze tirate e la dispo- sizion della persona nel far le riverenzie. Altri usano certi sguardi e movimenti ancor nel celebrar la messa, per i quali presumeno essere aggraziati e farsi mirare. Malvagi e scele- rati omini, alienissimi non solamente dalla religione, ma d%ogni bon costume; e quando la lor vita dissoluta e* lor rimprove- rata, si fanno beffe e ridonsi di chi lor ne parla e quasi si ascrivono i vicii a laude --. Allora la signora Emilia: -- Tato piacer, -- disse, -- avete di dir mal de% frati, che for d%ogni proposito siete entrato in questo ragionamento. Ma voi fate grandissimo male a mormorar dei religiosi e senza utilita* alcuna vi caricate la coscienzia; che%, se non fossero quelli che pregan Dio per noi altri, aremmo ancor molto maggior flagelli che non avemo --. Rise allora il Magnifico Iuliano e disse: -- Come avete voi, Signora, cosi* ben indovinato ch%io parlava de% frati, non avendo io loro fatto il nome? ma in vero il mio non si chiama mormorare, anzi parlo io ben -- aperto e chiaramente; ne* dico dei boni, ma dei malvagi e rei, de% quali ancor non parlo la millesima parte di cio* ch%io so, -- Or non parlate de% frati, -- rispose la signora Emilia; -- ch%io per me estimo grave peccato l%ascoltarvi e pero* io, per non ascoltarvi, levarommi di qui. XXI. -- Son contento, -- disse il Magnifico Iuliano, -- non parlar piu* di questo; ma tornando alle laudi delle donne, dico che %l signor Gasparo non mi trovera* omo alcun singulare, ch%io non vi trovi la moglie, o figliola, o sorella di merito eguale e talor superiore; oltra che molte son state causa d%infiniti beni ai loro omini e talor hanno corretto di molti loro errori. Pero* essendo, come avemo dimostrato, le donne naturalmente capaci di quelle medesime virtu* che son gli omini, ed essendosene piu* volte veduto gli effetti, non so perche%, dando loro io quello che e* possibile che abbiano e spesso hanno au*to e tuttavia hanno, debba esser estimato dir miracoli, come m%ha apposto il signor Gasparo; atteso che sempre sono state al mondo, ed ora ancor sono, donne cosi* vicine alla donna di palazzo che ho formata io, come omini vicini all%omo che hano formato questi signori --. Disse allora il signor Gasparo: -- Quelle ragioni che hanno la esperienzia in contrario non mi paion bone; e certo s%io vi addimandassi quali siano, o siano state queste gran donne tanto degne di laude, quanto gli omini grandi ai quali son state moglie, sorelle o figliole, o che siano loro state causa di bene alcuno, o quelle che abbiano corretto i loro errori, penso che restareste impedito. XXII. -- Veramente, -- rispose il Magnifico Iuliano, -- niuna altra cosa poria farmi restar impedito, eccetto la moltitu- dine; e se %l tempo mi bastasse, vi contarei a questo propo- sito la istoria d%Ottavia, moglie di Marc%Antonio e sorella d%Augusto; quella di porcia, figliola di Catone e moglie di Bruto; quella di Gaia Cecilia, moglie di Tarquino Prisco; quella di Comelia, figliola di Scipione; e d%infinite altre che sono notissime; e non solamente delle nostre, ma ancor delle barbare: come di quella Alessandra, moglie pur d%Alessandro re de% Giudei, la quale dopo la morte del marito, vedendo i populi accesi di furore e gia* corsi all%arme per ammaz- zare doi figlioli che di lui le erao restati, per vendetta della -- crudele e dura servitu* nella quale il padre sempre gli avea tenuti, fu tale, che su*bito mitigo* quel giusto sdegno e con prudenzia in un punto fece benivoli ai figlioli quegli animi, che %l padre con infinite ingiurie in molt%anni avea fatti loro inimicissimi. -- Dite almen, -- come ella fece. -- Disse il M gnifico: -- Questa, vedendo i figlioli in tanto pericolo, incontinente fece gittare il corpo d%Alessandro in mezzo della piazza; poi, chiamatisi i citta- dini, disse che sapea gli animi loro esser accesi di giustis- simo sdegno contra suo marito, perche% le crudeli ingiurie che esso iniquamente gli avea fatte lo meritavano; e che come mentre era vivo avrebbe sempre voluto poterlo far rimanere da tal scelerata vita, cosiz* adesso era apparecchiata a fame fede, e loro aiutar a castigamelo cosi* morto, per quanto si potea; e pero* si pigliassero quel corpo e lo faces- sino mangiar ai cani e lo straziassero con que% modi piu* cru- deli che imaginar sapeano; ma ben gli pregava che avessero compassione a quegli innocenti fanciulli, i quali non pote- vano non che aver colpa, ma pur esser consapevoli delle male opere del padre. Di tanta efficacia furono queste parole, che -l fiero sdegno gia* conceputo negli animi di tutto quel populo su*bito fu mitigato, e converso in cosi* piatoso affetto, che non solamente di concordia elessero quei figlioli per loro signori, ma ancor al corpo del morto diedero onoratissima sepoltura --. Quivi fece il Magnifico un poco di pausa; poi suggiunse: -- Non sapete voi che la moglie e le sorelle di Mitridate mostrarono molto minor paura della morte che Mitridate? e la moglie d%Asdrubale che Asdrubale? Non sapete ch'Armonia, figliola di Ieron siracusano, volse morire nell%incendio della patria sua? -- Allor il Frigio, -- Dove vada ostinazione certo e*, -- disse, -- che talor si trovano alcune donne che mai non mutariano proposito; come quella che non potendo piu* dir al marito (( forbeci)), con le mani gli ne facea segno. XXIII. Rise il Magnifico Iuliano e disse: -- La ostinazione che tende a fine virtuoso si dee chiamar constanzia; come fu di quella Epicari, libertina romana, che essendo consapevole d%una gran congiura contra di Nerone, fu di tanta constanzia che, straziata con tutti i piu* asperi tormenti che imaginar si possano, mai non paleso* alcuno delli complici; e nel mede- -- simo pericolo molti nobili cavalieri e senatori timidamente accusarono fratelli, amici e le piu* care ed intime persone che avessero al mondo. Che direte voi di quell%altra che si chia- mava Leona? in onor della quale gli Ateniesi dedicorono innanzi alla porta della rocca una leona di bronzo senza lingua, per dimostrar in lei la constante virtu* della tacitur- nita*; perche% essendo essa medesimamente consapevole d%una congiura contra i tiranni, non si spavento* per la morte di dui grandi omini suoi amici, e benche% con infiniti e crude- lissimi tormenti fusse lacerata, mai non paleso* alcuno dei congiurati --. Disse allor madonna Margherita Gonzaga: -- Parmi che voi narriate troppo brevemente queste opere virtuose fatte da donne; che% se ben questi nostri nemici l%hanno udite e lette, mostrano non saperle e vorriano che se ne perdesse la memoria: ma se fate che noi altre le inten- diamo, almen ce ne faremo onore. XXIV. Allor il Magnifico Iuliano, -- piacemi, -- rispose. -- Or io voglio dirvi d%una, la qual fece quello che io credo che %l signor Gasparo medesimo confessara* che fanno pochissimi omini; -- e comincio*: -- In Massilia fu gia* una consuetudine, la quale s%estima che di Grecia fusse traportata, la quale era che publicamente si servava veneno temperato con cicuta e concedevasi il pigliarlo a chi approvava al senato doversi levar la vita, per qualche incommodo che in essa sentisse, o ver per altra giusta causa, accio* che chi troppo avversa fortuna patito avea o troppo prospera gustato, in quella non perseverasse o questa non mutasse. Ritrovandosi adunque Sesto Pompeo ... -- Quivi il Frigio, non aspettando che %l Magnifico Iuliano passasse piu* avanti, -- Questo mi par, -- disse, -- il principio d%una qualche lunga fabula --. Allora il Magnifico Iuliano, voltatosi ridendo a madonna Margherita, -- Eccovi, -- disse, -- che %l Frigio non mi lascia parlare. Io voleva or contarvi d%una donna, la quale, avendo dimostrato al senato che ragionevolmente dovea morire, allegra e senza timor alcuno tolse in presenzia di Sesto Pompeo il veneno, con tanta constanzia d%animo e cosi* prudenti ed amorevoli ricordi ai suoi, che Pompeo e tutti gli altri che videro in una donna tanto sapere e si- curezza nel tremendo passo della morte, restarono non senza lacrime confusi di molta maraviglia. XXV. Allora il signor Gasparo ridendo, -- Io ancora mi ricordo, -- disse, -- aver letto una orazione, nella quale un infelice marito dimanda licenzia al senato di morire ed approva -- aveme giusta cagione, per non poter tollerare il continuo fastidio del cianciare di sua moglie e piu* presto vol bere quel veneno, che voi dite che si servava publicamente per tali effetti, che le parole della moglie --. Rispose il Magnifico Iuliano: -- Quante meschine donne ari*ano giusta causa di dimandar licenzia di morir, per non poter tollerare, non diro* le male parole, ma i malissimi fatti dei mariti! ch%io alcune ne conosco, che in questo mondo patiscono le pene che si dicono esser nell%infemo. -- Non credete voi, -- rispose il signor Gasparo, -- che molti mariti ancor siano che dalle mogli hanno tal tormento, che ogni ora desiderino la morte? -- E che dispiacere, -- disse il Magnifico, -- pos- sono far le mogli ai mariti, che sia cosi* senza rimedio come son quelli che fanno i mariti alle mogli? le quali, se non per amore, almen per timor sono ossequenti ai mariti. -- Certo e%, -- disse il signor Gaspar, -- che quel poco che talor fanno di bene procede da timore, perche% poche ne sono al mondo che nel secreto dell'animo suo non abbiano in odio il marito. -- Anzi in contrario, -- rispose il Magnifico; -- e se ben vi ricorda quanto avete letto, in tutte le istorie si conosce che quasi sempre le mogli amano i mariti piu* che essi le mogli. Quando vedeste voi o leggeste mai che un marito facesse verso la moglie un tal segno d%amore, quale fece quella Camma verso suo marito? -- Io non so, -- rispose il signor Gaspar, -- chi si fosse costei, ne% che segno la si facesse. -- Ne% io, -- disse il Frigio. Rispose il Magnifico: -- Uditelo; e voi, madonna Margherita, mettete cura di tenerlo a memoria. XXVI. Questa Camma fu una bellissima giovane, omata di tanta modestia e gentil costumi, che non men per questo che per la bellezza era maravigliosa; e sopra l%altre cose con tutto il core amava suo marito, il quale si chiamava Sinatto. In- tervenne che un altro gentilomo, il quale era di molto maggior stato che Sinatto e quasi tiranno di quella citta* dove abi- t avano, s%innamoro* di questa giovane; e dopo l% aver lungamente tentato per ogni via e modo d%acquistarla, e tutto in vano, persuadendosi che lo amor che essa portava al marito fosse la sola cagione che ostasse a% suoi deside*ri, fece ammazzar questo Sinatto. Cosi* poi sollicitando continuamente, non ne pote% mai trar altro frutto che quello che prima avea fatto; onde, crescendo ogni di* piu* questo amore, delibero* to*rla per moglie, benche% essa di stato gli fosse molto inferiore. Cosi richiesti li parenti di lei da Sinorige (che% cosi* si chiamava lo innamorato), cominciarono a persuaderla a contentarsi di questo, mostrandole il consentir essere utile assai e %l negarlo pericoloso per lei e per tutti loro. Essa, poi che loro ebbe alquanto contradetto, rispose in ultimo esser contenta. I parenti fecero intendere la nova a Sinorige; il qual allegro sopra modo procuro* che su*bito si celebrassero le nozze. Venuto adunque l%uno e l%altro a questo effetto solennemente nel tempio di Diana, Camma fece portar una certa bevanda dolce, la quale essa avea composta; e cosi* davanti al simu- lacro di Diana in presenzia di Sinorige ne beve% la meta*; poi di sua mano, perche% questo nelle nozze s%usava di fare, diede il rimanente allo sposo; il qual tutto lo beve%. Camma come vide il disegno suo riuscito, tutta lieta a pie* della ima- gine di Diana s%inginochio*, e disse: (( 0 Dea, tu che conosci lo intrinseco del cor mio, siami bon testimonio, come dif- ficilmente dopo che %l mio caro consorte mori, contenuta mi sia di non mi dar la morte e con quanta fatica abbia sof- ferto il dolore di star in questa amara vita, nella quale non ho sentito alcuno altro bene o piacere, fuor che la speranza di quella vendetta che or mi trovo aver conseguita; pero* -- allegra e contenta vado a trovar la dolce compagnia di quella anima, che in vita ed in morte piu* che me stessa ho sempre amata. E tu, scelerato, che pensasti esser mio marito, in iscambio del letto nuziale da* ordine che apparecchiato ti sia il sepulcro, ch%io di te fo sacrificio all%ombra di Sinatto )). Sbigottito Sinorige di queste parole e gia* sentendo la virtu* del veneno che lo perturbava, cerco* molti rimedi; ma non valsero; ed ebbe Camma di tanto la fortuna favorevole, o altro che si fosse, che innanzi che essa morisse seppe che Sino- rige era morto. La qual cosa intendendo, contentissima si pose a letto con gli occhi al cielo, chiamando sempre il nome di Sinatto e dicendo: (( 0 dolcissimo consorte, or ch%io ho dato per gli ultimi doni alla tua morte e lacrime e vendetta, ne% veggio che piu* altra cosa qui a far per te mi resti, fuggo il mondo e questa senza te crudel vita, la quale per te solo gia* mi fu cara. Viemmi adunque incontra, signor mio, ed accogli cosi* voluntieri questa anima, come essa voluntieri a te ne viene )): e di questo modo parlando, e con le braccia aperte, quasi che in quel punto abbracciar lo volesse, se ne mori. Or dite, Frigio, che vi par di questa? -- Rispose il Frigio: -- Parmi che voi vorreste far piangere queste donne. Ma poniamo che questo ancor fosse vero, io vi dico che tai donne non si trovao piu* al mondo. XXVll. Disse il Magnifico: -- Si trovan si; e che sia vero, udite. A% di mei fu in Pisa un gentilomo, il cui nome era messer Tomaso; non mi ricordo di qual famiglia, ancora che da mio padre, che fu suo gran amico, sentissi piu* volte ricordarla. Questo messer Tomaso adunque, passando un di* sopra un piccolo legnetto da Pisa in Sicilia per sue bisogne, fu so- prapreso d%alcune fuste de% Mori, che gli furono addosso cosi all%improviso, che quelli che governavano il legnetto non se n%accorsero; e benche% gli omini che dentro v'erano si diffendessino assai, pur, per esser essi pochi, e i nimici molti, il legnetto con quanti v%eran sopra rimase nel poter dei Mori, chi ferito e chi sano, secondo la sorte, e con essi messer To- maso, il qual s%era portato valorosamente ed avea morto di sua mano un fratello d%un dei capitani di quelle fuste. Della qual cosa il capitano sdegnato, come possete pensare, della perdita del fratello, volse costui per suo prigioniero; e battendolo e straziandolo ogni giorno, lo condusse in Barbaria, dove in gran miseria aveva deliberato tenerlo in vita sua cattivo e con gran pena. Gli altri tutti, chi per una e chi per un%altra via, furono in capo d%un tempo liberi e ritomarono a casa; e riportarono alla moglie, che madonna Argentina avea nome, ed ai figlioli la dura vita e %l gran affanno in che messer Tomaso viveva ed era continuamente per vivere senza speranza, se Dio miraculosamente non l%aiutava. Della qual cosa poi che essa e loro furono chiariti, tentati alcun altri modi di liberarlo, e dove esso medesimo gia* s%era acquetato di morire, intervenne che una solerte pieta* sveglio* tanto l%ingegno e l%ardir dell%altro figliolo, che si chiamava Paulo, che non ebbe riguardo a niuna sorte di pericolo e delibero* o morir o liberar il padre; la qual cosa gli venne fatta, di modo che lo condusse cosi* cautamente, che prima fu in Ligomo, che si risapesse in Barberia ch%e% fusse di la* partito. Di quivi messer Tomaso sicuro scrisse alla moglie e le fece intendere la liberazion sua, e dove era, e come il dl seguente sperava di vederla. La bona e gentil donna, sopragiunta da tanta e non pensata allegrezza di dover cosi* presto, e per pieta* e per virtu* del figliolo, vedere il marito, il quale amava tanto e gia* credea fermamente non -- dover mai piu* vedere, letta la lettera, alzo* gli occhi al cielo e, chiamato il nome del marito, cadde morta in terra; ne% mai con rimedi che se le facessero, la fuggita anima piu* ritomo* nel corpo. Crudel spettaculo, e bastante a temperar le volunta* umane e ritrarle dal desiderar troppo efficace- mente le soverchie allegrezze! Disse allora ridendo il Frigio: -- Che sapete voi ch%ella non morisse di dispiacere, intendendo che %l marito tomava a casa? -- Rispose il Magnifico: -- Perche% il resto della vita sua non si accordava con questo; anzi penso che quell'anima, non potendo tollerare lo indugio di vederlo con gli occhi del corpo, quelio abbandonasse, e tratta dal desiderio volasse su*bito dove, leggendo quella lettera, era volato il pensiero --. Disse il signor Gasparo: -- po esser che questa donna fosse troppo amorevole, perche% le donne in ogni cosa sempre s%at- taccano allo estremo, che e* male; e vedete che per essere troppo amorevole fece male a se stessa ed al marito ed ai figlioli, ai quali converse in amaritudine il piacere di quella pericolosa e desiderata liberazione. Pero* non dovete gia* allegar questa per una di quelle donne, che sono state causa di tanti beni --. Rispose il Magnifico: -- Io la allego per una di quelle che fanno testimonio che si trovino mogli che amino i mariti; che% di quelle che siano state causa de molti beni al mondo potrei dirvi un numero infinito, e narrarvi delle tanto antiche che quasi paion fabule; e di quelle che appresso a li omini sono state inventrici di tai cose, che hanno meri- ta o esser estimate dee, come Pallade, Cerere; e delle Sibille, per bocca delle quali Dio tante volte ha parlato e rivelato al mondo le cose che aveano a venire; e di quelle che hanno insegnato a grandissimi omini, come Aspasia e Diotima, la quale ancora con sacrifici prolungo* dieci anni il tempo d%una peste che aveva da venire in Atene. Potrei dirvi di Nico- strata, madre d%Evandro, la quale mostro* le lettere ai Latini; e d%un%altra donna ancor che fu maestra di Pindaro lirico; e di Corinna e di Saffo, che furono eccellentissime in poesia: ma io non voglio cercar le cose tanto lontane. Dicovi ben, lassando il resto, che della grandezza di Roma furono forse non minor causa le donne che gli omini. -- Questo, -- disse il signor Gasparo, -- sarebbe bello da inten- -- dere. XXIX. Rispose il Magnifico: -- Or uditelo. Dopo la espugnazion di Troia molti Troiani, che a tanta ruina avanzarono, fuggirono chi ad una via, chi ad un%altra; dei quali una parte, che da molte procelle fomo battuti, vennero in Italia, nella contrata ove il Tevere entra in mare. Cosi* discesi in terra per cercar de% bisogni loro, cominciarono a scorrere il paese; le donne, che erano restate nelle navi, pensarono tra se% un utile consiglio, il qual ponesse fine al periculoso e lungo error maritimo ed in loco della perduta patria una nova loro ne recuperasse; e, consultate in insieme, essendo as- senti gli omini, abbrusciarono le navi; e la prima che tal opera comincio* si chiamava Roma. Pur, temendo la iracundia degli omini i quali ritomavano, andarono contra essi; ed alcune i mariti, alcune i soi congiunti di sangue abbracciando e basciando con segno di benivolenzia, mitigarono quel primo impeto; poi manifestarono loro quietamente la causa del lor prudente pensiero. Onde i Troiani, si* per la necessita*, si* per esser benignamente accettati dai paesani, furono contentissimi di cio* che le donne aveano fatto e quivi abi- tarono con i Latini, nel loco dove poi fu Roma; e da questo processe il costume antico appresso i Romani, che le donne incontrando basciavano i parenti. Or vedete quanto queste donne giovassero a dar principio a Roma. XXX. Ne% meno giovarono allo augumento di quella le donne sabine, che si facessero le troiane al principio; che% avendosi Romulo concitato generale inimicizia de tutti i suoi vicini per la rapina che fece delle lor donne, fu travagliato di guerre da ogni banda; delle quali, per esser omo valoroso, tosto si espedi* con vittoria, eccetto di quella de% Sabini, che fu grandissima, perche% Tito Tacio, re de% Sabini, era valentissimo e savio; onde, essendo stato fatto uno acerbo fatto d%arme tra Romani e Sabini con gravissimo danno del- l%una e dell%altra parte, ed apparecchiandosi nova e crudel battaglia, le donne sabine, vestite di nero, co% capelli sparsi e lacerati, piangendo, meste, senza timore dell%arme che gia* erano per ferir mosse, vennero nel mezzo tra i padri e i mariti, pregandogli che non volessero macchiarsi le mani del sangue de% soceri e dei generi; e se pur erano mal contenti di tal parentato, voltassero l%arme contra esse, che% molto meglio loro era il morire che vivere vedove, o senza padri e fratelli, e ricordarsi che i suoi figlioli fossero nati di chi loro avesse morti i lor padri, o che esse fossero nate de chi lor avesse morti i lor mariti. Con questi gemiti piangendo, molte di loro nelle braccia portavano i suoi piccoli figliolini, de% quali gia* alcuni cominciavao a snodar la lingua e parea che chiamar volessero e far festa agli avoli loro; ai quali le donne mo- strando i nepoti e piangendo, (( Ecco )), diceano, (( il sangue vostro, il quale voi con tanto impeto e furor cercate di sparger con le vostre mani)). Tanta forza ebbe in questo caso la pieta* e la prudenzia delle donne, che non solamente tra li dui re nemici fu fatta indissolubile amicizia e confedera- zione, ma, che piu* maravigliosa cosa fu, vennero i Sabini ad abitare in Roma, e dei dui popoli fu fatto un solo; e cosi* molto accrebbe questa concordia le forze di Roma, merce% delle sagge e magnanime donne; le quali in tanto da Romulo furono remunerate che, dividendo il populo in trenta curie, a quelle pose i nomi delle donne sabine. XXXI. Quivi essendosi un poco il Magnifico Iuliano fermato e vedendo che %l signor Gasparo non parlava -- Non vi par, -- disse, -- che queste donne fussero causa di bene agli loro omini e giovassero alla grandezza di Roma? -- Rispose il signor Gasparo: -- In vero queste furono degne di molta laude; ma se voi cosi voleste dir gli errori delle donne come le bone opere, non areste tacciuto che in questa guerra di Tito Tacio una donna tradi* Roma ed insegno* la strada ai nemici d%occupar il Capitolio, onde poco manco* che i Romani tutti non fussero destrutti --. Rispose il Magnifico Iuliano: -- Voi mi fate menzion d%una sola donna mala ed io a voi d%infinite bone; ed oltre le gia* dette io potrei addurvi al mio proposito mille altri esempi delle utilita* fatte a Roma dalle donne e dirvi perche% gia* fusse edificato un tempio a Venere Armata ed un altro a Venere Calva, e come ordi- nata la festa delle Ancille a lunone, perche% le ancille gia* liberarono Roma dalle insidie de% nemici. Ma lasando tutte queste cose, quel magnanimo fatto d%aver scoperto la con- giurazion di Catilina, di che tato si lauda Cicerone, non ebbe egli principalmente origine da una vil femina? la -- quale per questo si poria dir che fosse stata causa di tutto %l bene che si vanta Cicerone aver fatto alla republica romana. E se %l tempo mi bastasse, vi mostrarei forse ancor le donne spesso aver corretto di molti errori degli omini; ma temo che questo mio ragionamento ormai sia troppo lungo e fasti- dioso; perche% avendo, secondo il poter mio, satisfatto al carico datomi da queste signore, penso di dar loco a chi dica cose piu* degne d%esser udite, che non posso dir io. XXXII. Allor la signora Emilia, -- Non defraudate, -- disse, -- le donne di quelle vere laudi che loro sono debite; e ricor- datevi che se %l signor Gasparo ed ancor forse il signor Otta- viano vi odono con fastidio, noi e tutti quest%altri signori ve udiamo con piacere --. Il Magnifico pur volea por fine, ma tutte le donne cominciarono a pregarlo che dicesse; onde egli ridendo, -- Per non mi provocar, -- disse, -- per nemico il signor Gaspar piu* di quello che egli si sia, diro* brevemente d%alcune che mi occorreno alla memoria, lassandone molte ch%io potrei dire; -- poi suggiunse: -- Essendo Filippo di Demetrio intomo alla citta* di Chio ed avendola assediata, mando* un bando, che a tutti i servi che della citta* fuggivano ed a se% venissero prometteva la liberta* e le mogli dei lor patroni. Fu tanto lo sdegno delle donne per cosi* ignomi- nioso bando, che con l%arme vennero alle mura e tanto fero- cemente combatterono, che in poco tempo scacciarono Filippo con vergogna e danno; il che non aveano potuto far gli omini. Queste medesime donne, essendo coi lor mariti, padri e fratelli, che andavano in esilio, pervenute in Leuconia, fecero un atto non men glorioso di questo; che% gli Eritrei, che ivi erano co% suoi confederati, mossero guerra a questi Chii; li quali non potendo contrastare, tolsero patto col giuppon solo e la camiscia uscir della citta*. Intendendo le donne cosi* vituperoso accordo, si dolsero, rimproveran- dogli che, lassando l%arme, uscissero come ignudi tra% nemici; e rispondendo essi gia* aver stabilito il patto, dissero che portassero lo scudo e la lanza e lassassero i panni, e rispon- dessero ai nemici questo essere il loro abito. E cosi* facendo essi per consiglio delle lor donne ricopersero in gran parte la vergogna, che in tutto fuggir non poteano. Avendo ancor Ciro in un fatto d%arme rotto un esercito di persiai, essi in fuga, correndo verso la citta* incontrarono le lor donne fuor della porta, le quali fattosi loro incontra dissero: -- Dove fuggite voi, vili omini? volete voi forsi nascondervi in noi, onde sete usciti? -- Queste ed altre tai parole udendo gli omini e conoscendo quanto d%animo erano inferiori alle lor donne, si vergognarono di se stessi, e ritomado verso i nemici, di novo con essi combatterono e gli ruppero. Avendo insin qui detto, il Magnifico Iuliano fermossi e rivolto alla signora Duchessa disse: -- Or Si nora darete licenzia di tacere --. Rispose il signor Gasparo: -- Biso- greravi pur tacere, poiche% non sapete piu* che vi dire -- Disse il Magnifico ridendo: -- Voi mi stimulate di modo che vi mettete a pericolo di bisognar tutta notte udir laudi di donne; ed intendere di molte spartane , che hanno avuta cara la morte gloriosa dei figlioli; e di quelle che gli hanno rifutati, o morti esse medesime, quando gli hanno veduti usar vilta*. Poi, come le donne saguntine nella ruina della patria loro prendessero l"arme contra le genti d'Annibale; e come essendo lo esercito de' Tedeschi superato da Mario, le lor donne, non potendo ottener grazia di viver libere in Roma al servizio delle vergini vestali, tutte s'ammazzassero ieme coi lor piccoli figliolini; e di mille altre, delle quali tutte le istorie antiche son piene --. Allor il signor Gasparo, -- Deh, signor Magnifico, -- disse, -- Dio sa come passarono quelle cose; perche% que' secoli son tanto da noi lontani, che molte bugie si posson dire e non v'e* chi le riprovi. Disse il Magnifico: -- Se in ogni tempo vorrete misurare il valor delle donne con quel degli omini, trovarete che elle non son mai state ne% ancor sono adesso de virtu* punto inferiori agli omini; che%, lassando quei tanto antichi, se venite al tempo che i Goti regnarono in Italia, trovarete tra loro essere-stata una regina Amalasunta , che govemo* lungamente con maravigliosa prudenzia; poi Teodelinda , regina de' Longobardi, di singular virtu*; Teodora , greca imperatrice; ed in Italia fra molte altre fu singularissima signora la contessa Matilda , delle laudi della quale lassero* parlare al conte Ludovico, perche% fu della casa sua . -- Anzi, -- disse il Conte, -- a voi tocca, perche% sapete ben che non conviene che l'omo laudi le cose sue proprie --. Suggiunse il Magnifico: -- E quante donne famose ne' tempi passati trovate voi di questa nobilissima casa di Monte- feltro! quante della casa da Gonzaga, da Este, de' Pii! Se de' tempi presenti poi parlare vorremo, non ci bisogna cercar esempi troppo di lontano, che% gli avemo in casa . Ma io non voglio aiutarmi di quelli che in presenzia vedemo, accio* che voi non mostriate consentirmi per cortesia quello che in alcun modo negar non mi potete. E per uscir di Italia, ricordatevi che a' di* nostri avemo veduto Anna regina di Franza grandissima signora non meno di virtu* che di stato; che se di giustizia e clemenzia liberalita* e santita* di vita, comparare la vorrete alli re Carlo e Ludovico, dell'uno e dell'altro de' quali fu moglie, non la trovarete punto infe- riore d'essi. Vedete madonna Margherita , figliola di Massi- milliano imperatore, la quale con somma prudenzia e giu- stizia insino a qui ha govemato e tuttora governa il stato -- suo. XXXV. Ma lassando a parte tutte l'altre ditemi, signor Gaspar. qual re o qual principe e* stato a' nostri di* ed ancor molt'anni prima in Cristianita*, che meriti esser comparato alla regina Isabella di Spagna ? -- Rispose il signor Gasparo: -- Il re Ferrando suo marito --. Suggiunse il Magninco: -- Questo non neghero* io; che%, poiche% la Regina lo giudico* degno d'esser suo marito e tanto lo amo* ed osservo* , non si po dire che 'l non meritasse d'esserle comparato: ben credo che la ripu- tazion ch'egli ebbe da lei fusse dote non minor che 'l regno di Castiglia. -- Anzi, -- rispose il signor Gaspar, -- penso io che di molte opere del re Ferrando fusse laudata la regina Isabella --. Allor il Magnifico, -- Se i populi di Spagna, -- disse, -- i signori, i privati, gli omini e le donne, poveri e ricchi, non si son tutti accordati a voler mentire in laude di lei, non e* stato a' tempi nostri al mondo piu* chiaro esempio di vera bonta*, di grandezza d'aimo, di prudenzia, di reli- gione, d'onesta*, di cortesia, di liberalita*, in somma d'ogni virtu*, che la regina Isabella; e benche% la fama di quella signora in ogni loco e presso ad ogni nazione sia grandissima, quelli che con lei vissero e furono presenti alle sue azioni tutti affermano questa fama esser nata dalla virtu* e meriti di lei. E chi vorra* considerare l'opere sue, facilmente conoscera* esser cosi* il vero; che%, lassando infinite cose che fanno fede di questo e potrebbonsi dire, se fusse nostro proposito, ognun sa che quando essa venne a regnare trovo* la maggior parte di Castiglia occupata dai grandi ; nientedimeno il tutto ricupero* cosi* giustificatamente e con tal modo, che i medesimi che ne furono privati le restarono affezionatis- simi, e contenti di lassar quello che possedevano. Notissima cosa e* ancora con quanto animo e prudenzia sempre diffendesse i regni suoi da potentissimi inimici; e medesima- mente a lei sola si po dar l'onore del glorioso acquisto del regno di Granata ; che% in cosi* lunga e difficil guerra contra nimici ostinati, che combattevano per le faculta* , per la vita, per la legge sua e, al parer loro, per Dio, mostro* sempre col consiglio e con la persona propria tanta virtu*, che forse a' tempi nostri pochi principi hanno avuto ardire non che di imitarla, ma pur d'averle invidia. Oltre a cio*, affermano tutti quegli che la conobbero, esser stato in lei tanto divina maniera di govemare, che parea quasi che solamente la volunta* sua bastasse, perche% senza altro stre- pito ognuno facesse quello che doveva; tal che a pena osa- vano gli omini in casa sua propria e secretamente far cosa che pensassino che a lei avesse da dispiacere; e di questo in gran parte fu causa il maraviglioso giudicio ch'ella ebbe in conoscere ed elegere i ministri atti a quelli offici nei quali intendeva d'adoperargli; e cosi* ben seppe congiungere il rigor della giustizia con la mansuetudine della clemenzia e la liberalita*, che alcun bono a' suoi di* non fu che si dolesse d'esser poco remunerato, ne% alcun malo d'esser troppo castigato. Onde nei populi verso di lei nacque una somma riverenzia, composta d'amore e timore; la quale negli animi di tutti ancor sta cosi* stabilita , che par quasi che aspettino -- che essa dal cielo i miri e di la* su debba darglilaude o biasmo; e percio* col nome suo e con i modi da lei ordinati si govemano ancor que' regni, di maniera che, benche% la vita sia mancata, vive l'autorita*, come rota che, lungamente con impeto voltata, gira ancor per bon spacio da se%, benche% altri piu* non la mova. Considerate oltre di questo, signor Gasparo, che a' nostri tempi quasi tutti gli omini grandi di Spagna e famosi in qualsivoglia cosa, sono stati creati dalla regina Isabella; e Gonsalvo Ferrando, Gra Capitano, molto piu* di questo si preziava , che di tutte le sue famose vittorie, e di quelle egregie e virtuose opere, che in pace ed in guerra fatto l'hanno cosi* chiaro ed illustre, che se la fama non e* ingratissima, sempre al mondo publichera* le immortali sue lode, e fara* fede che alla eta* nostra pochi re o gran principi avemo au*ti, i quali stati non siano da lui di magnanimita*, sapere e d'ogni virtu* superati. XXXVl. Ritomando adunque in Italia, dico che ancor qui non ci mancao eccellentissime signore; che in Napoli avemo due singular regine; e poco fa pur in Napoli mori* l'altra regina d'Ongaria , tanto eccellente signora quanto voi sapete e bastante di far paragone allo invitto e glorioso re Matia Corvm- o suo marito. Medesimamente la duchessa Isabella d'Aragona , degna sorella del re Ferrando di Napoli; la quale, come oro nel foco, cosi* nelle procelle di fortuna ha mostrata la virtu* e 'l valor suo. Se nella Lombardia verrete, v'occorrera* la signora Isabella marchesa di Matua ; alie eccellentissime virtu* della quale ingiuria si faria parlando cosi* sobriamente, come saria forza in questo loco a chi pur volesse parlame. Pesami ancora che tutti non abbiate conosciuta la duchessa Beatrice di Milano sua sorella , per non aver mai piu* a maravigliatvi di ingegno di donna. E la duchessa Eleonora d'Aragona , duchessa di Ferrara e madre dell'una e l'altra di queste due signore ch'io v'ho nominate, fu tale che le eccellentissime sue virtu* faceano bon testimonio a tutto 'l mondo, che essa non solamente era degna figliola di Re, ma che meritava esser regina di molto maggior stato che non aveano posseduto tutti i suoi antecessori. E per dirvi d'un'altra, quanti omini conoscete voi al mondo, che avessero tollerato gli acerbi colpi della fortuna cosi* moderatamente , come ha fatto la regina Isabella di Napoli? la quale, dopo la perdita del regno, lo esilio e morte del re Federico suo marito e di duo figlioli e la pregionia del Duca di Calabria suo primogenito , pur -- ancor si dimostra esser regina e di tal modo supporta i cala- mitosi incommodi della misera poverta*, che ad ognuno fa fede che, ancor che ella abbia mutato fortuna, non ha mutato condizione. Lasso di nominar infinite altre signore, ed ancor donne di basso grado; come molte pisane , che alla diffesa della lor patria contra' Fiorentini hanno mostrato quel- l'ardire generoso, senza timore alcuno di morte, che mostrar potessero i piu* invitti animi che mai fossero al mondo; onde da molti nobili poeti sono state alcune di lor celebrate . Potrei dirvi d'alcune eccellentissime in lettere, in musica, in pittura, in scultura; ma non voglio adarmi piu* rivolgendo tra questi esempi, che a voi tutti sono notissimi. Basta che, se nell'animo vostro pensate alle donne che voi stesso cono- scete, non vi fia difficile comprendere che esse per il piu* non sono di valore o meriti inferiori ai padri, fratelli e mariti loro; e che molte sono state causa di bene agli omini e spesso hanno corretto di molti loro errori; e se adesso non si trovano al mondo quelle gran regine, che vadano a subiugare paesi lontani e facciano magni edifici, piramidi e citta*, come quella Tomiris, reggin di Scizia, Artemisia, Ze- nobia, Semiramis, o Cleopatra, non ci son ancor omini come Cesare, Alessandro, Scipione, Lucullo e quegli altri imperatori romai. xxxVII. -- Non dite cosl, -- rispose allora ridendo il Frigio, -- che% adesso piu* che mai si trovan donne come Cleopatra o Semiramis; e se gia* non hanno tanti stati, forze e ricchezze, ------= loro non manca pero* la bona volunta* di imitarle almen nel darsi piacere e satisfare piu* che possano a tutti i suoi appetiti --. Disse il Magnifico Iuliano: -- Voi volete pur, , Frigio, uscire de' termini: ma se si trovano alcune Cleopatre, non mancano infiniti Sardanapali; che e* assai peggio. -- Non fate, -- disse allor il signor Gasparo, -- queste compa- razioni, ne% crediate gia* che gli omini siano piu* incontinenti che le donne; e quado ancor fossero, non sarebbe peggio, perche% dalla incontinenzia delle donne nascono infiniti mali, che non nascono da quella degli omini; e pero*, come ieri fu detto, e*ssi prudentemente ordinato che ad esse sia licito senza biasimo mancar in tutte l'altre cose, accio* che possano mettere ogni lor forza per mantenerse in questa sola virtu* della castita*, senza la quale i figlioli sariano incerti, e quello Iegame che stringe tutto 'l mondo per lo sangue, e per amar naturalmente ciascun quello che ha produtto, si discioglieria: -- pero* alle donne piu* si disdice la vita dissoluta che agli omini, i quali non portao nove mesi i figlioli in corpo. XXXVIII . Allora il Magnifico, -- Questi, -- rispose, -- veramente sono belli argumenti che voi fate e non so perche% non gli mettiate in scritto. Ma ditemi per qual causa non s"e* ordi- nato che negli omini cosi* sia vituperosa cosa la vita disso- luta come nelle donne, atteso che se essi sono da natura piu* virtuosi e di maggior valore, piu* facilmente ancora poriano mantenersi in questa virtu* della continenzia e i figlioli ne% piu* ne% meno sariano certi; che% se ben le donne fossero lascive, purche% gli omini fossero continenti e non con- sentissero alla lascivia delle donne, esse da se% a se% e senza altro aiuto gia* non porian generare. Ma se volete dir il vero, voi ancor conoscete che noi di nostra autorita* ci avemo vendicato una licenzia, per la quale volemo che i mede- simi peccati in noi siano leggerissimi e talor meritino laude, e nelle donne non possano a bastanza esser castigati se non con una vituperosa morte, o almen perpetua infamia. Pero*, poiche% questa opinion e* invalsa, parmi che conveniente cosa sia castigar ancor acerbamente queili che con bugie da*nno infamia alle donne; ed estimo ch'ogni nobil cavaliero sia obligato a diffender sempre con l'arme, dove bisogna, la verita*, e massimamente quando conosce qualche donna esser falsamente calunniata di poca onesta*. XXXIX. -- Ed io, -- rispose ridendo il signor Gasparo, -- non solamente affermo esser debito d'ogni nobil cavaliero quello che voi dite, ma estimo gran cortesia e gentilezza coprir qualche errore, ove per disgrazia, o troppo amore, una donna sia incorsa; e cosi veder potete ch'io tengo piu* la parte delle donne, dove la ragion me lo comporta, che non fate voi. Non nego gia* che gli omini non si abbiano preso un poco di liberta*; e questo perche% sanno che per la opinion uni- versale ad essi la vita dissoluta non porta cosi* infamia come alle donne; le quali, per la imbecillita* del sesso, sono molto piu* inclinate agli appetiti che gli omini, e se talor si asten- gono dal satisfare ai suoi deside*ri, lo fanno per vergogna, non perche% la volunta* non sia loro prontissima; e pero* gli omini hanno posto loro il timor d'infamia per un freno che le tenga quasi per forza in questa virtu*, senza la quale, per dir il vero, sariano poco d"apprezzare; perche% il mondo non ha utilita* dalle donne, se non per lo generare dei figlioli. Ma cio* non intervien degli omini, i quali gover- nano le citta*, gli eserciti e fanno tante altre cose d'impor- tanzia: il che, poiche% voi volete cosi*, non voglio disputar come sapessero far le donne; basta che non lo fanno; e quando e* occorso agli omini far paragon della continenzia, cosi hanno superato le donne in questa virtu* come ancora nell'altre, benche% voi non lo consentiate. Ed io circa questo non voglio recitarvi tante istorie o fabule quante avete fatto voi, e rimettovi alla continenzia solamente di dui gandissimi signori giovani, e su la vittoria, la quale suol far insolenti ancora gli omini bassissimi; e dell'uno e* quella d'Alessandro Magno verso le donne bellissime di Dario, nemico e vinto; l'altra di Scipione, a cui, essendo di venti- quattro anni ed avendo in Ispagna vinto per forza una citta*, fu condutta una bellissima e nobilissima giovane, presa tra molt'altre; ed intendendo Scipione questa esser sposa d'un signor del paese, non solamente s'astenne da ogni atto disonesto verso di lei, ma immaculata la rese al marito, facendole di sopra un ricco dono. Potrei dirvi di Senocrate il quale fu tanto continente, che una bellissima donna , essendosegli colcata accanto ignuda e facendogli tutte le carezze ed usando tutti i modi che sapea, delle quai cose era bonissima maestra, non ebbe forza mai di far che mostrasse pur un minimo segno d'impudicizia, avvenga che ella in questo dispensasse tutta una notte; e di Pericle, che udendo solamente uno che laudava con troppo efficacia la beliezza d'un fanciullo, lo riprese agramente; e di molt'altri conti- nentissimi di lor propria volunta*, e non per vergogna o paura di castigo, da che sono indutte la maggior parte di quelle donne che in tal virtu* si mantengono; le quali pero* ancor con tutto questo meritano esser laudate assai, e chi falsa- mente da* loro infamia d'impudicizia e* degno, come avete detto, di gravissima punizione. Allora messer Cesare, il qual per bon spacio tacciuto avea, -- Pensate, -- disse, -- di che modo parla il signor Gasparo a biasimo delle donne, quando queste son quelle cose ch'ei dice in laude loro. Ma se 'l signor Magnifico mi concede ch'io possa in loco suo respondergli alcune poche cose circa quanto egli, al parer mio, falsamente ha detto contra le donne, sara* bene per l'uno e per l'altro: perche% esso si riposera* un poco e meglio poi potra* seguitare in dir qualche altra eccellenzia della donna di palazzo; ed io mi terro* per molta grazia l'aver occasione di far insieme con lui questo officio di bon cavaliero, cioe* diffender la verita*. -- Anzi ve ne priego, -- rispose il signor Magnifico; -- che% gia* a me parea aver satisfatto, secondo le forze mie, a quanto io doveva e che questo ragionamento fosse ormai fuor del proposito mio --. Suggiunse messer Cesare: -- Non voglio gia* parlare della utilita* che ha il mondo dalle donne, oltre al generar i figlioli, perche% a bastanza s'e* dimostrato quanto esse siano necessarie non solamente all'esser ma ancor al ben esser nostro; ma dico, signor Gaspar, che se esse sono, come voi dite, piu* inclinate agli appetiti che gli omini, e con tutto questo se ne astengano piu* che gli omini, il che voi stesso consentite, sono tanto piu* degne di laude, quanto il sesso loro e* men forte per resistere agli appetiti naturali; e se dite che lo fanno per vergogna, parmi che in loco d'una virtu* sola ne diate lor due; che% se in esse piu* po la vergogna che l'appetito e percio* si astengono dalle cose mal fatte, estimo che questa vergogna, che in fine non e* altro che timor d'infamia, sia una rarissima virtu* e da pochissimi omini posseduta. E s'io potessi senza infinito vituperio degli omini dire come molti d'essi siano immersi nella impudenzia, che e* il vicio contrario a questa virtu*, contaminarei queste sante orecchie che m'ascoltano: e per il piu* questi tali ingiu- riosi a Dio ed alla natura sono omini gia* vecchi, i quali fan professione chi di sacerdozio, chi di filosofia chi delle sante leggi; e goveruano le republiche con quella severita* cato- niana nel viso, che promette tutta la integrita* del mondo; -- e sempre allegano il sesso feminile esser incontinentissimo; ne% mai essi d'altro si dolgon piu*, che del mancar loro il vigor naturale per poter satisfare ai loro abominevoli deside*ri, i quali restano ancor nell'animo, quando gia* la natura li nega al corpo; e pero* spesso trovano modi dove le forze non sono necessane. XLI. Ma io non voglio dir piu* avanti e bastami che mi con- sentiate che le donne si astengano piu* dalla vita impudica che gli omini; e certo e* che d'altro freno non sono ritenute, che da quello che esse stesse si mettono; e che sia vero, la piu* parte di quelle che son custodite con troppo stretta guardia, o battute dai mariti o padri, sono men pudiche che quelle che hanno qualche liberta*. Ma gran freno e* gene- ralmente alle donne l"amor della vera virtu* e 'l desiderio d'onore, del qual molte, che io a' mei dl ho conosciute, fanno piu* stima che della vita propria; e se volete dir il vero, ognun di noi ha veduto giovani nobilissimi, discreti, savi, valenti e belli, aver dispensato molt'anni amando, senza lassare adrieto cosa alcuna di sollicitudine, di doni, di preghi, di lacrime, in somma di cio* che imaginar si po; e tutto in vano. E se a me non si potesse dire che le qualta* mie non meritarono mai ch'io fossi amato, allegherei il testimonio di me stesso, che piu* d'una volta per la immuta- bile e troppo severa onesta* d'una donna fui vicino alla mor- te --. Rispose il signor Gasparo: -- Non vi maravigliate di questo, perche% le donne che son pregate sempre negano di compiacer chi le prega e quelle che non son pregate pre- gano altrui . XLII. Disse messer Cesare: -- Io non ho mai conosciuti questi, che siano dalle donne pregati; ma si ben molti, li quali, vedendosi aver in vano tentato e speso il tempo sciocca- mente, ricorrono a questa nobil vendetta e dicono aver avuto abondanzia di quello che solamente s'hanno imagi- nato; e par loro che il dir male e trovare invenzioni, accio* che di qualche nobil donna per lo vulgo si levino fabule vituperose, sia una sorte di cortegiania. Ma questi tali, che di qualche donna di prezzo villanamente si da*nno vanto, o vero o falso, meritano castigo e supplicio gravis- simo; e se talor loro vien dato, non si po dir quanto siano da laudar quelli che tale officio fanno. Che% se dicon bugie, qual scelerita* po esser maggiore, che privar con inganno una valorosa donna di quello che essa piu* che la vita estima? e non per altra causa, che per quella che la devria fare d"in- finite laudi celebrata? Se ancora dicon vero, qual pena poria bastare a chi e* cosi* perfido, che renda tanta ingrati. tudine per premio ad una donna, la qual, vinta dalle false lusinghe, dalle lacrime finte, dai preghi continui, dai lamenti, dalle arti, insidie e periuri, s'ha lassato indurre ad amar troppo; poi, senza riservo, s'e* data incautamente in preda a cosi* maligno spirto? Ma per respondervi ancor a questa inaudita continenzia d'Alessandro e di Scipione, che avete -- allegata, dico ch"io non voglio negare che e l'uno e l'altro non facesse atto degno di molta laude; nientedimeno, accio* che non possiate dire che per raccontarvi cose antiche io vi narri fabule, voglio allegarvi una donna de' nostri tempi di bassa condizione, la quale mostro* molto maggior conti- nenzia che questi dui grand'omini. XLIII. Dico adunque che io gia* conobbi una bella e delicata giovane, il nome della quale non vi dico per non dar ma- teria di dir male a molti ignoranti, i quali su*bito che inten- dono una donna esser innamorata, ne fan mal concetto. Questa adunque, essendo lungamente amata da un nobile e ben condicionato giovane, si volse con tutto l'animo e cor suo ad amar lui; e di questo non solamente io, al quale essa di sua volunta* ogni cosa confidentemente dicea, non altrimenti che s'io non diro* fratello, ma una sua intima sorella fussi stato, ma tutti quelli che la vedeao in pre- senzia dell'amato giovane erano ben chiari della sua pas- sione. Cosi*, amando essa ferventissimamente quanto amar possa un amorevolissimo animo, duro* dui anni in tanta continenzia, che mai non fece segno alcuno a questo giovane d'amarlo, se non quelli che nasconder non potea; ne% mai parlare gli volse, ne% da lui accettar lettere, ne% presenti, che dell'uno e dell'altro non passava mai giomo che non fosse sollicitata; e quanto lo desiderasse, io ben lo so; che% se talor nascosamente potea aver cosa che del giovane fosse stata, la tenea in tante delizie, che parea che da quella le nascesse la vita ed ogni suo bene; ne% pur mai in tanto tempo d'altro compiacer gli volse che di vederlo e di lassarsi vedere, e qualche volta intervenendo alle feste publiche ballar con lui, come con gli altri. E perche% le condicioni del- l'uno e dell'altra erano assai convenienti, essa e 'l giovane desideravano che un tanto amor terminasse felicemente ed esser insieme marito e moglie. Il medesimo desideravano tutti gli altri omini e donne di quella citta*, eccetto il crudel padre di lei, il qual per una perversa e strana opinion volse maritarla ad un altro piu* ricco; ed in cio* dalla infelice fan- ciulla non fu con altro contradetto, che con amarissime lacrime. Ed essendo successo cosi* mal avventurato matri- monio con molta compassion di quel populo e desperazion dei poveri amanti, non basto* pero* questa percossa di fortuna per estirpare cosi fundato amor dei cori ne% dell'uno ne% del- l'altra; che dopo ancor per spacio di tre anni duro*, avvegna che essa prudentissimamente lo dissimulasse e per ogni via cercasse di troncar que' deside*ri, che ormai erano senza speranza. Ed in questo tempo seguito* sempre la sua osti- nata volunta* della continenzia; e vedendo che onestamente aver non potea colui che essa adorava al mondo, elesse non volerlo a modo alcuno e seguitar il suo costume di non accettare ambasciate, ne% doni, ne% pur sguardi suoi; e con questa terminata volunta* la meschina, vinta dal crude- lissimo affanno e divenuta per la lunga passione estenua- tissima, in capo di tre anni se ne mori*; e prima volse rifutare i contenti e piacer suoi tanto desiderati, in ultimo la vita propria, che la onesta*. Ne% le mancavan modi e vie da sati- sfarsi secretissimamente e senza pericolo d'infamia o d'altra perdita alcuna; e pur s'astenne da quello che tanto da se% desiderava e di che tanto era continuamente stimulata da -- quella persona, che sola al mondo desiderava di compiacere; ne% a cio* si mosse per paura, o per alcun altro rispetto, che per lo solo amore della vera virtu*. Che direte voi d'un'altra, la quale in sei mesi quasi ogni notte giacque con un suo carissimo innamorato; nientedimeno, in un giardino copioso di dolcissimi frutti, invitata dall'ardentissimo suo proprio desiderio e da' preghi e lacrime di chi piu* che la propria vita le era caro, s'astenne dal gustarli; e benche% fosse presa e legata ignuda nella stretta catena di quelle amate braccia, non si rese mai per vinta, ma conservo* immaculato il fior della onesta* sua? XLIV. Parvi, signor Gasparo, che questi sian atti di conti- nenzia equali a quella d'Alessandro? il quale, ardentissima- mente innamorato non delle donne di Dario, ma di quella fama e grandezza che lo spronava coi stimuli della gloria a patir fatiche e pericoli per farsi immortale, non che le altre cose ma la propria vita sprezzava per acquistar nome sopra tutti gli omini; e noi ci maravigliamo che con tai pensieri nel core s'astenesse da una cosa la qual molto non desiderava? Che%, per non aver mai piu* vedute quelle donne, non e* possibile che in un punto l'amasse, ma ben forse l'aborriva, per rispetto di Dario suo nemico; ed in tal caso ogni suo atto lascivo verso di quelle saria stato ingiuria e non amore; e peroi* on e* gran cosa che Alessandro, il quale non meno con la magnanimita* che con l'arme vinse il mondo, s'astenesse da far ingiuria a femine. La continenzia ancor di Scipione e* veramente da laudar assai; nientedimeno, se ben considerate, non e* da agguagliare a quella di queste due donne; perche% esso ancora medesimamente s'astenne da cosa non desiderata, essendo in paese nemico, capitano novo, nel principio d'una impresa importantissima; avendo nella patria lassato tanta aspettazion di se% ed avendo ancor a rendere cunto a giudici severissimi, i quali spesso castiga- vano non solamente i grandi ma i piccolissimi errori; e tra essi sapea aveme de' nemici; conoscendo ancor che, s'altra- mente avesse fatto, per esser quella donna nobilissima e ad un nobilissimo signor maritata, potea concitarsi tanti nemici e talmente, che, olto gli arian prolungata e forse in tutto tolta la vittoria. Cosi per tante cause e di tanta importanzia s'astenne da un leggero e dannoso appetito, mostrando continenzia ed una liberale integrita*; la quale, come si scrive, gli diede tutti gli animi di que' populi e gli valse un altro esercito ad espugnar con benivolenzia i cori, che forse per forza d'arme sariano stati inespugnabili; sicche% questo piu* tosto un stratogema militare dir si poria, che pura continenzia: avvegna ancora che la fama di questo non sia molto sincera, perche% alcuni scrittori d'autorita* affermano questa giovane esser stata da Scipion goduta in amorose delizie; ma di quello che vi dico io, dubbio alcuno non e. XLV Disse il Frigio: -- Dovete averlo trovato negli Evan- gelli. -- Io stesso l'ho veduto, -- rispose messer Cesare, -- e pero* n'ho molto maggior certezza che non potete aver ne* voi ne% altri, che Alcibiadez si levasse dal letto de Socrate che% pur strano loco e tempo er il letto e la notte per con- amando piu* la bell , . , assimament fanciulli e no nei vecchi, ancor che sianmo piu* savi. E certo non si potea gia* trovar miglior esempio per laudar la con- sua, che e* la filosfia, la quale consiste nei boni costumi potendo ne% mostrando segno di potere, s'astenne da una femina publica, la quale pr questo nome solo potea ve- nirgli a fastidio. piu* crederei che fosse stato continente se termine usato la continenzia; o vero astenutosi da quello dal vino; ma per comprobar ben la continenzia senile, scri- piu* aliena dalla continenzia d'un vecchio, che la ebrieta*? eta* merita tanta laude, quanta ne deve meritar in una tenera giovane, come quelle due di chi dianzi v'ho detto? delle quali l'una imponendo durissime leggi a tutti i sensi suoi, non solamente agli occhi negava la sua luce, ma toglieva al core quei pensieri, che soli lungamente erano stati dul- cissimo cibo per tenerlo in vita; l'altra, ardente inamorata, ritrovandosi tante volte sola nelle braccia di quello che piu* assai che tutto 'l resto del mondo amava, contra se stessa e contra colui che piu* che se stessa le era caro combattendo, vincea quello ardente desiderio che spesso ha vinto e vince tanti savi omini. Non vi pare ora, signor Gasparo, che doves- sino i scrittori vergognarsi di far memoria di Senocrate in questo caso e chiamarlo per continente? che% chi potesse sapere, io metterei pegno che esso tutta quella notte sino al giorno seguente ad ora di desinare dormi* come morto, sepulto nel vino; ne% mai, per stropicciar che gli facesse quella femina, pote% aprir gli occhi, come se fusse stato allopiato . XLVI. Quivi risero tutti gli omini e donne; e la signora Emilia, pur ridendo, -- Veramente, -- disse, -- signor Gasparo, se vi pensate un poco meglio, credo che trovarete ancor qualche altro bello esempio di continenzia simile a questo --, Rispose messer Cesare: -- Non vi pare, Signora, che bello esempio di continenzia sia quello altro che egli ha allegato di Pericle? Maravigliomi ben che "l non abbia ancor ricor- dato la continenzia e quel bel detto che si scrive di colui , a chi una donna domando* troppo gran prezzo per una notte ed esso le rispose che non comprava cosi* caro il pentirsi --. Rideasi tuttavia; e messer Cesare, avendo alquanto tacciuto, -- Signor Gasparo, -- disse, -- perdonatime s'io dico il vero, perche% in somma queste sono le miraculose continenzie che di se stessi scrivono gli omini, accusando per incontinenti le donne, nelle quali ogni di* si veggono infiniti segni di con- tinenzia; che% certo, se ben considerate, non e* ro*cca tanto inespugnabile ne% cosi* ben diffesa, che essendo combattuta con la millesima parte delle machine ed insidie, che per -- espugnar il constante animo d'una donna s'adoprano, non si rendesse al primo assalto. Quanti creati da signori, e da essi fatti ricchi e posti in grandissima estimazione, avendo nelle mani le lor fortezze e ro*cche, onde dependeva tutto 'l stato e la vita ed ogni ben loro, senza vergogna o cura d'esser chiamati traditori, le hanno perfidamente per ava- rizia date a chi non doveano? e Dio volesse che a' di* nostri di questi tali fosse tanta carestia, che non avessimo molto maggior fatica a ritrovar qualcuno che in tal caso abbia fatto quello che dovea, che nominar quelli che hanno man- cato. Non vedemo noi tant'altri che vanno ogni di ammaz- zando omini per le selve e scorrendo per mare, solamente per rubar denari? Quanti prelati vendono le cose della chiesa di Dio? quanti iurisconsulti falsificano testamenti? quanti periuri fanno? quanti falsi testimoni, solamente per aver denari? quanti medici avvelenano gl'infermi per tal causa? quanti poi per paura della morte fanno cose vilissime? E pur a tutte queste cosi* efficaci e dure battaglie spesso resiste una tenera e delicata giovane; che% molte sonosi trovate, le quali hanno eletto la morte piu* presto che perder l'onesta*. XLVII. Allora il signor Gasparo, -- Queste, -- disse, -- messer Cesare, credo che non siano al mondo oggidi* --. Rispose messer Cesare: -- Io non voglio ora allegarvi le antiche; dicovi ben questo, che molte si trovariano e trovansi, che in tal caso non si curan di morire. Ed or m'occorre nell'animo non e* tanto tempo che voi nol possiate molto bene avere a memoria, una bella giovane gentildonna capuana , essendo condotta fuor di casa sua, dove era stata presa da una com- pagnia di Guasconi, quando giunse al fiume che passa per Capua finse volersi attaccare una scarpa, tanto che colui che la menava un poco la lasso*, ed essa su*bito si gitto* nel fiume. Che direte voi d'una contadinella, che non molti mesi fa, a Gazuolo in Mantoana , essendo ita con una sua sorella a racco*rre spiche ne' campi, vinta dalla sete entro* in una casa per bere dell'acqua; dove il patron della casa, che giovane era, vedendola assai bella e sola, presala in braccio, prima con bone parole, poi con minacce cerco* d'indurla a far i suoi piaceri; e contrastando essa sempre piu* ostinata- mente, in ultimo con molte battiture e per forza la vinse. Essa cosi scapigliata e piangendo ritorno* nel campo alla sorella, ne% mai, per molto ch'ella le facesse instanzia, dir volse che dispiacere avesse ricevuto in quella casa; ma tut- tavia, caminando verso l'albergo e mostrando di racche- tarsi a poco a poco e parlar senza perturbazione alcuna, le diede certe commissioni; poi, giunta che fu sopra Oglio, che e* il fiume che passa accanto Gazuolo, allontanatasi un poco dalla sorella, la quale non sapea ne% imaginava cio* ch'ella si volesse fare, su*bito vi si gitto* dentro. La sorella dolente e piangendo l'andava secondando quanto piu* potea lungo la riva del fiume, che assai velocemente la portava all'ingiu*; ed ogni volta che la meschina risurgeva sopra l'acqua, la sorella le gittava una corda che seco avea recata per legar le spiche; e benche% la corda piu* d'una volta le pervenisse alle mani, perche% pur era ancor vicina alla ripa, la costante e deliberata fanciulla sempre la rifiutava e dilungava da se%- e cosi fuggendo ogni soccorso che dar le potea vita, in poco spacio ebbe la morte; ne% fu questa mossa dalla nobilita* di sangue, ne% da paura di piu* crudel morte o d'infamia, ma solamente dal dolore della perduta virginita*. Or di qui po- tete comprendere quante altre donne facciano atti dignis- simi di memoria che non si sanno, poiche% avendo questa, tre di* sono, si po dir, fatto un tauto testimonio della sua virtu*, non si parla di lei, ne% pur se ne sa il nome. Ma se non sopra- giungea in quel tempo la morte del vescovo di Matua , zio della signora Duchessa nostra, ben saria adesso quella ripa d'Oglio, nel loco onde ella se gitto*, ornata d'un bellis- simo sepulcro per memoria di cosi gloriosa anima, che me- ritava tanto piu* chiara fama dopo la morte, quanto in men nobil corpo vivendo era abitata. XLVIII. Quivi fece messer Cesare un poco di pausa; poi sug- giunse: -- A' mei di* ancora in Roma intervenne un simil caso; e fu che una bella e nobil giovane romana, essendo lun- gamente seguitata da uno che molto mostrava amarla, non volse mai, non che d'altro, ma d'un sguardo solo compia- cergli; di modo che costui per forza di denari corruppe una sua fante; la quale, desiderosa di satisfarlo per toccame piu* denari, persuase alla patrona che un certo giomo non molto celebrato andasse a visitar la chiesa di san Seba- stiao ; ed avendo il tutto fatto intendere allo amate e mostratogli cio* che far dovea, condusse la giovane in una di quelle grotte oscure che soglion visitar quasi tutti quei che vanno a san Sebastiano; ed in questa tacitamente s'era nascosto prima il giovane, il quale, ritrovandosi solo con quella che amava tanto, comincio* con tutti i modi a pregarla piu* dolcemente che seppe che volesse avergli com- passione e mutar la sua passata durezza in amore; ma poi che vide tutti i prieghi esser vani, si volse alle minacce; non giovando ancora queste, comincio* a batterla fieramente; in ultimo, essendo in ferma disposizion d'ottener lo intento suo, se non altrimenti, per forza, ed in cio* operando il soc- corso della malvagia femina che quivi l'aveva condotta, mai non pote% tanto fare che essa consentisse; anzi e con parole e con fatti, benche% poche forze avesse, la meschina giovane si diffendeva quanto le era possibile; di modo che tra per lo sdegno conceputo, vedendosi non poter ottener quello che volea, tra per la paura che non forse i parenti di lei, se risapeano la cosa, gli ne facessino portar la pena, questo scelerato, aiutato dalla fante, la quale del medesimo dubitava , affogo* la mal avventurata giovane e quivi la lasso*; e fuggitosi, procuro* di non esser trovato. La fante, dallo error suo medesimo acciecata, non seppe fuggire, e presa per alcuni indici confesso* ogni cosa; onde ne fu come meri- tava castigata. Il corpo della costante e nobil donna con gran- dissimo onore fu levato di quella grotta e portato alla se- pultura in Roma, con una corona in testa di lauro, accom- pagnato da un numero infinito d'omini e di donne, tra' quali non fu alcuno che a casa riportasse gli occhi senza la- crime ; e cosi* universahnente da tutto 'l populo fu quella rara anima non men pianta che laudata. XLIX. Ma per parlarvi di quelle che voi stesso conoscete, non vi ricorda aver inteso che andando la signora Felice dalla Rovere a Saona , e dubitando che alcune vele che s'erano scoperte fossero legni di papa Alessandro che la seguitas- sero, s'apparecchio* con ferma deliberazione, se si accosta- -- vano, e che rimedio non vi fusse di fuga, di gittarsi nel mare; e questo non si po gia* credere che lo facesse per leggerezza, perche% voi cosi* come alcun altro conoscete ben di quanto in- gegno e prudenzia sia accompagnata la singular bellezza di quella signora. Non posso pur tacere una parola della signora Duchessa nostra, la quale, essendo vivuta quindeci anni in compagnia del marito come vidua , non solamente e* stata costante di non palesar mai questo a persona del mondo, ma essendo dai suoi proprii stimulata ad uscir di questa viduita* , elesse piu* presto patir esilio , poverta* ed ogn'altra sorte d'infelicita*, che accettar quello che a tutti gli altri parea gran grazia e prosperita* di fortuna; -- e seguitando pur messer Cesare circa questo, disse la signora Duchessa: -- Parlate d'altro e non intrate piu* in tal proposito, che% assai dell'altre cose avete che dire --. Suggiunse messer Cesare: -- So pur che questo non mi negherete, signor Gasparo, ne% voi, Frigio. -- Non gia*, -- rispose il Frigio; -- ma una non fa numero . Disse allora messer Cesare: -- Vero e* che questi cosi* grandi effetti occorrono in poche donne; pur ancora quelle che resistono alle bittaglie d'amore, tutte sono miracolose ; e quelle che talor restano vinte sono degne di molta compas- sione; che% certo i stimuli degli amanti, le arti che usano, i lacci che tendono son tanti e cosi* continui, che troppa ma- raviglia e* che una tenera fanciulla fuggir gli possa. Qual giomo, qual ora passa mai, che quella combattuta giovane non sia dallo amante sollicitata con denari, con presenti e con tutte quelle cose che imaginar sa che le abbiano a pia- cere? A qual tempo affacciar mai si po alla finestra, che sempre non veda passor l'ostinato amante con silenzio di parole ma con gli occhi che parlano, col viso afflitto e languido, con quegli accesi sospiri, spesso con abundantissime lacrime ? Quando mai si parte di casa per andar a chiesa o ad altro loco, che questo sempre non le sia innanzi e ad ogni voltar di contrata non se le affrontis con quella trista passion di- pinta negli occhi, che par che allor allora aspetti la morte? Lasso tante attillature, invenzioni, motti, imprese, feste, balli, giochi, maschere, giostre, torniamenti, le quai cose essa conosce tutte esser fatte per se%. La notte poi mai risve- gliarsi non sa, che non oda musica , o almen quello inquieto spirito intorno alle mura della casa gittar sospiri e voci la- mentevoli. Se per avventura parlar vole con una delle sue fanti, quella, gia* corrotta per denari, su*bito ha apparecchiato un presentuzzo, una lettera, un sonetto, o tal cosa, da darle per parte dello amante ; e quivi entrando a proposito, le fa intendere quanto arde questo meschino, come non cura la propria vita per servirla; e come da lei niuna cosa ricerca men che onesta e che solamente desidera parlarle. Quivi a tutte le difficulta* si trovano rimedi, chiavi contrafatte , scale di corde, sonniferi; la cosa si dipinge di poco momento; da*nnosi esempi di molt'altre che fanno assai peggio; di modo che ogni cosa tanto si fa facile, che essa niuna altra fatica ha che di dire: <